di Bianca Cerri - da altrenotizie.org
Il 1967, generalmente associato all’estate dell’amore, fu anche l’anno in cui in 64 città americane la disperazione urbana sfociò in rivolta. Le comunità nere di Newark, esasperate dalle mancate promesse di uguaglianza oltre che dall’indigenza, insorsero alla notizia della morte di quattro giovani afro americani uccisi dalla polizia. Fra il 12 ed il 17 luglio 23 persone tra i 10 ed i 73 anni persero la vita e altre 725 furono ferite in modo più o meno grave. L’immagine simbolo della rivolta è una foto che ritrae la Guardia Nazionale che avanza con le baionette spianate lungo la Springfield avenue.
Gli abitanti di Newark non hanno mai dimenticato quei cinque giorni in cui il sangue prese a scorrere nelle strade lasciando ferite insanabili anche nell’animo di chi non fu direttamente toccato dalla violenza. Dopo i primi scontri, era arrivata la notizia che anche un tassista di colore fermato per un sorpasso azzardato era stato picchiato a morte dalla polizia per gli afro americani era stata la classica goccia che fa traboccare il vaso. Il 14 luglio le armi iniziarono a crepitare nelle strade dei ghetti neri. Anche se non ci sono monumenti che lo testimoniano, nel 1967 la città di Newark era il simbolo stesso della segregazione razziale, una terra di nessuno dove la polizia s’imponeva con la forza sulla disperazione urbanizzata. La Guardia Nazionale penetrò anche all’interno delle case uccidendo persino le donne che accudivano i bambini, come Eloise Spelman, madre di 11 figli, colpita da un proiettile alla nuca.
Otto giorni dopo la fine della rivolta di Newark, la polizia fece una retata in un bar di Detroit arrestando ottanta persone. Fu l’inizio di una nuova insurrezione in una città che, pur essendo il motore industriale del paese, era dominata da continue tensioni razziali. Molti afro americani avevano lasciato le terre delle zone rurali nella speranza di fuggire dalla povertà, ma a Detroit avevano trovato solo disoccupazione ed emarginazione. Le maestranze preferivano non assumere neri e, quando proprio non potevano fare a meno, assegnavano loro le mansioni più umili e pericolose. La città cresceva finanziariamente, gli abitanti aumentavano ma la segregazione assumeva forme sempre più subdole e raffinate. Con la “ristrutturazione” che prevedeva l’abbattimento di Black Bottom e Paradise Valley, molti afro americani furono costretti con la forza ad abbandonare le proprie case e a vivere un’esistenza sospesa tra rabbia e disperazione in alloggi di fortuna. Ma le nuove generazioni non tolleravano più di doversi inchinare ai valori dei bianchi e di rimanere intrappolati nella miseria. Frustrate dall’oppressione, furiose contro il sistema che le tagliava fuori dal benessere comune avevano iniziato ad organizzare la resistenza. E il fuoco che bruciava sotto la paglia alla fine dilagò…..
Fino al 1967, le rivolte nelle città americane erano sempre avvenute in zone circoscritte, ma quella che scoppiò a Detroit s’allargò a macchia d’olio fino a trasformarla in un teatro di guerra. Le cronache ufficiali parlarono di 43 morti, ma il figlio di Mark Roper, il medico che era di guardia al pronto soccorso nella notte tra il 23 ed il 24 luglio del 1967 ha raccontato di aver appreso dal padre che i corpi privi di vita erano almeno ottanta e altre persone morirono in seguito a causa dei colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia. Uno di quei corpi era quanto restava di Tonya Blending, quattro anni, uccisa mentre stava rientrando a casa insieme al padre. L’arrivo della Guardia Nazionale, il terzo giorno dopo l’inizio della rivolta, spinse la gente di colore a resistere con maggior determinazione e le strade di Detroit si trasformarono in un girone infernale dove anime dannate si agitavano nel buio del coprifuoco imposto dal governatore. Tra i rivoltosi e i militari si verificarono vari scontri a fuoco. Nel 1967 il presidente Johnson aveva appena creato un fondo destinato appositamente a creare squadre specializzate nel sedare i tumulti che prevedeva l’addestramento di settantamila uomini e i primi novemila furono inviati proprio a Detroit con l’ordine di “fermare i neri con ogni mezzo possibile”. In città arrivarono i carri armati che riuscirono a spegnere la rivolta ma, al tempo stesso, divennero il simbolo della doppia guerra combattuta dagli afro americani, costretti a partire per il Vietnam per via della leva obbligatoria in nome di una patria che attaccava le loro comunità.
Le insurrezioni di Newark e Detroit non riuscirono a sradicare del tutto il razzismo ma servirono ad eliminare se non altro i suoi aspetti peggiori. Anche il proletariato bianco aveva infine compreso che spezzare le catene razziali era indispensabile per aprire la strada alla giustizia. Il 4 aprile del 1968, giorno dell’assassinio di Martin Luther King, anche i quartieri operai dove vivevano i bianchi insorsero per protesta contro le divisioni razziali che, a 13 anni dalla sentenza della Corte Suprema che vietata la segregazione, costringeva ancora la gente di colore a scendere dal marciapiede incontrando un bianco o a cedergli il posto sull’autobus. Contemporaneamente, riprese vita anche l’antica lotta dei nativi d’America e proprio nel 1968 nacque infatti l’AIM, American Indian Movement. Da allora sono passati 40 anni ed è triste constatare che l’imperialismo americano si annida ormai anche nei posti più impensabili, grazie anche alle nuove classi clientelari disposte a smantellare anche le leggi del proprio paese pur di compiacere gli interessi degli Stati Uniti. Attività che però comportano un grande rischio: quello di incentivare un popolo privato de jure dell’indipendenza a riprendersi l’indipendenza de facto. Come accadde quaranta anni fa nelle vie e nelle piazze di Newark e Detroit.
lunedì, luglio 16, 2007
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