sabato, ottobre 25, 2008

martedì, ottobre 14, 2008

David Foster Wallace: noi dobbiamo essere i genitori

"Review of Contemporary Fiction", estate 1993

Questi ultimi anni dell'era postmoderna mi sono sembrati un po' come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po' va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l'autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po' di ordine, cazzo...

Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L'opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c'è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più - e che noi dovremo essere i genitori.


venerdì, settembre 19, 2008

mercoledì, settembre 10, 2008

Il brevetto del nuovo capitale - Parte I

di Marcello Cini
da il manifesto - 09 settembre 2008

Condivido tuttora, nonostante l'attuale diaspora della sinistra, la domanda che Claudio Fava aveva posto a Chianciano con chiarezza: «Abbiamo paura di impegnarci nella costruzione di una sinistra che sappia finalmente elaborare le culture del comunismo e del socialismo per proporne una sintesi originale? Qualcuno di noi è così miope da vivere questa sfida culturale e politica, che forse prenderà il tempo e lo spazio di una generazione, come un tradimento ai sacri luoghi delle nostre identità? O pensiamo davvero che tra dieci o vent'anni ci saranno ancora, in questo paese, una sinistra cosiddetta 'socialdemocratica' e una sinistra cosiddetta 'comunista', ciascuna gelosa custode delle proprie liturgie e della propria storia? Un nuovo soggetto politico di sinistra non soffocato dall'ornamento dei propri aggettivi è solo una favola ce ci raccontiamo o è realmente una sfida che ci mette tutti (tutti!) in discussione?». Penso ancora che il dibattito su come iniziare a costruire gli strumenti che possono contrastare l'offensiva travolgente che il capitalismo del XXI˚ secolo sta portando avanti contro i popoli della Terra dovrebbe avere la priorità. Temo invece che l'obiettivo della ricostruzione di una sinistra senza aggettivi non sia ancora percepito nella sua urgenza. Certo non si potrà affrontarlo finché ognuno intende presentarsi all'appuntamento con la pretesa di usare la propria cassetta di attrezzi ereditata dal bisnonno. Proverò in questo testo- diviso in due parti - a elencare alcune differenze, secondo me essenziali, tra il capitalismo del XX˚ e quello del XXI˚ secolo sulle quali bisognerebbe costruire questo discorso comune.

Profitto «intangibile»
La prima differenza investe il modo di produzione della ricchezza. Essa è rappresentata dalla tendenza, suffragata da fatti sotto gli occhi di tutti, a fondare sempre più la formazione del profitto nel processo di accumulazione del capitale sulla produzione di merci non tangibili (non solo conoscenza, informazione, saperi, formazione, ma anche comunicazione, intrattenimento e addirittura modelli di vita). Non voglio dire che la produzione di merci materiali sia diventata inessenziale o quantitativamente secondaria, ma insisto che la produzione delle merci necessarie al soddisfacimento dei bisogni crescenti della popolazione umana è sempre più impregnata in ogni suo interstizio e resa concretamente possibile da una sempre maggiore e indispensabile componente non tangibile di conoscenza. L'obiettivo principale del capitalismo odierno è dunque di negare la differenza sostanziale tra la natura dei beni materiali e quella dei beni immateriali, nascondendo la proprietà fondamentale di questi ultimi che, contrariamente a ciò che accade per i beni materiali, è quella di poter essere goduti da parte di un «consumatore» lasciando intatta la possibilità che innumerevoli altri facciano altrettanto. Il «consumatore» dunque in realtà non «consuma» il bene di cui fruisce che può continuare a essere a disposizione di tutti. La differenza non investe soltanto la fase del «consumo», ma anche quella della produzione. Mentre per l'operaio della fabbrica di merci materiali (nelle sue fasi successive dal fordismo al toyotismo) la categoria marxiana di lavoro astratto, misurabile quantitativamente, rappresentava tutto sommato la sostanza del rapporto capitale lavoro (e comunque stava alla base dell'analisi di Sraffa sulla «produzione di merci a mezzo di merci»), per il lavoratore della fabbrica delle parole (folgorante a questo proposito il film di Virzì sulla vita degli operatori dei call-center che vale più di tanti corposi saggi) la categoria della qualità caratterizza inevitabilmente il lavoro di ogni individuo. La differenza é sostanziale. Nel primo caso gli operai si sentivano oggettivamente e soggettivamente uguali, e dunque solidali tra loro. Si contrapponevano al capitale attraverso sindacati e partiti di classe. Nel secondo ogni lavoratore compete con gli altri con tutti i mezzi per sopravvivere. L'individualismo e la solitudine sono la regola. Questo spiega tante cose: in primo luogo la vittoria di Berlusconi. Il discorso andrebbe approfondito, e io non sono in grado di farlo: mi stupisce però che chi dovrebbe saperne più di me non lo faccia.

La Terra al collasso
La seconda differenza fondamentale è la scoperta dei limiti fisici dell'ecosistema terrestre. Sono rimaste inascoltate, e addirittura accusate di terrorismo intellettuale, fino a due o tre anni fa le grida d'allarme (che risalgono agli anni 70) dei primi ambientalisti, intesi a richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale sui sintomi dell'incipiente degrado che avrebbe investito il pianeta, nonostante che esse siano state via via rafforzate per trent'anni da fatti incontrovertibili e da analisi rigorose. Soltanto da un paio d'anni gli scienziati dell'IPCC (l'organismo delle Nazioni Unite per lo studio del cambiamento climatico) sono arrivari alla conclusione - ormai finalmente condivisa dalla maggior parte della comunità scientifica internazionale e fatta propria anche dai maggiori esponenti politici della Comunità Europea - che interventi concreti massicci e urgenti sono necessari per contrastare l'aumento dell'effetto serra e della temperatura globale del pianeta e impedire le sue conseguenze devastanti. Conseguenze del resto previste e quantificate nel notissimo rapporto redatto dal principale consulente economico di Tony Blair, Nicholas Stern, nel quale si prevede che, se si continua a non intraprendere alcuna azione significativa per ridurre l'emissione di CO2 nell'atmosfera, i danni del riscaldamento globale potranno arrivare nel giro di dieci, al massimo venti anni, a un tasso annuo tra il 5% e il 20% del Pil globale. Una cifra da confrontare con una spesa attorno all'uno per cento in misure preventive da iniziare subito. Non insisterei su questo argomento che è ormai ben noto, se non fosse per l'incomprensione da parte della tradizione comunista di questo processo, incomprensione che costituisce purtroppo una pesante palla al piede della sinistra.

La scienza «a servizio»
La terza differenza riguarda la scienza. Nell'immaginario collettivo la scienza ha assunto un peso enorme, carico da un lato di aspettative, e dall'altro di paure. Per capirne l'origine occorre rendersi conto che anch'essa ha subito un profondo mutamento. Esso consiste nel suo passaggio dal modello galileiano e newtoniano di conoscenza delle proprietà e della struttura della materia inerte, fondato sulla ricerca delle leggi generali e immutabili della natura che ne sarebbero la causa prima, al modello di conoscenza delle proprietà della materia vivente e della mente umana fondato sul riconoscimento dell'unicità di ogni processo nel quadro dei principi dell'evoluzione darwiniana e dell'autorganizzazione dei sistemi complessi. Non c'è più dunque una scala gerarchica di attività separate e distinte che vede al vertice una scienza «pura» come scoperta disinteressata e autonoma delle leggi generali della natura, dalla quale nasce una tecnologia che ne applica i risultati per creare oggetti destinati a fini utili, e a sua volta li consegna all'economia perché investa le risorse necessarie a immetterli nel modo più efficiente e profittevole sul mercato. Queste tre fasi si intrecciano strettamente tra loro. Molti scienziati seri e disinteressati, impegnati in un lavoro di ricerca «di base», che non si pone l'obiettivo immediato di ottenere risultati da immettere sul mercato, negano che questa svolta sia così radicale e sostanziale, e auspicano comunque che la barriera tra scienza e tecnologia venga ripristinata e rafforzata. Secondo me si tratta di una illusoria aspirazione a tornare ai bei tempi passati, che ignora il carattere irreversibile della trasformazione che ha investito il tessuto sociale negli ultimi due o tre decenni. Una trasformazione che non solo deriva dalla differenza epistemologica tra la scienza delle leggi e le scienze dei processi alla quale ho appena accennato, ma che ha anche una causa precisa: la deliberazione della Corte suprema degli Stati uniti del 1980 sulla brevettabilità degli organismi geneticamente modificati. Da quel momento in poi si brevetta tutto: qualsiasi pezzo di materia vivente e qualunque idea venga partorita da una mente umana.

«Lecito» e «illecito»
Oltre alla differenza sul piano epistemologico che abbiamo appena discusso, si è prodotta con il passaggio dalle scienze della materia inerte a quelle della vita e della mente una differenza radicale sul piano dell'etica professionale degli scienziati, e più in generale dell'etica pubblica. Una cosa è infatti manipolare, controllare, forgiare un oggetto fatto di materia inerte e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura sull'uomo. Lo sgretolamento della barriera tra fatti e valori sta accendendo un conflitto per l'egemonia nella società fra chi ritiene che soltanto perseguendo un crescente dominio razionale sui fatti e sulle relazioni che li connettono sia possibile affrontare i problemi della vita umana e della convivenza sociale e chi pretende di essere depositario e amministratore di valori assoluti di origine trascendente in grado di regolamentare ogni aspetto dei comportamenti umani. Ma la scoperta che inevitabilmente la scienza si trova ad avere a che fare con giudizi di valore porta la religione ad appropriarsi del diritto di decidere in merito con la scusa che la religione ha il monopolio della morale. Sappiamo tutti che questa è la pretesa del papa Benedetto XVI. E' una intrusione indebita, come hanno ampiamente dimostrato pensatori come Jurgen Habermas, Hans Jonas, e giuristi come Gustavo Zagrebelski. Deve essere tuttavia ben chiaro che la battaglia per l'autonomia della scienza contro l'ingerenza dei dogmi religiosi non può essere condotta in nome di una astratta scienza galileiana che ignora l'intreccio tra conoscenza e valori che caratterizza oggi le scienze della vita e della mente. Se si pretende che in tre secoli la scienza non sia cambiata si perde in partenza. Se invece si riconosce che l'intreccio fra conoscenza e valori è nelle cose, diventa legittimo, anzi necessario, rifiutarsi di «ritagliarne» i temi, come si dice oggi, «eticamente sensibili» per cederne la competenza a un unico soggetto esterno, per di più autoritario per natura, come il capo della Chiesa cattolica. La formazione del consenso sul lecito e l'illecito deve invece coinvolgere, nelle forme da costruire insieme, una molteplicità di soggetti, aperti al dialogo e al confronto reciproco, portatori di tradizioni culturali, istanze sociali, esperienze del passato e progetti per il futuro in grado di presentare punti di vista diversi diffusi, ma ignorati dai meccanismi di decisione attualmente adottati senza discussione, con affrettata arroganza e incoscienza dai detentori dei poteri e degli interessi più forti.

Foto di Jennerally [Digital Network] con licenza Creative Commons da flickr

Joyce Lussu



Joyce Lussu su Wikipedia

La controriforma del lavoro in 16 punti. E siamo solo all'inizio...

da Chainworkers 3.0

Passata la bufera degli show televisivi del Ministro della Funzione Pubblica Brunetta, rimangono in campo le leggi che andranno a regolare la vita dei lavoratori.
Il decreto Brunetta (D.l. 112 del 24.6.2008) è legge dalla fine di agosto e i suoi effetti cominciano a farsi sentire proprio in questi primi giorni di rientro dalle ferie.
Nonostante l'enorme esposizione del Ministro sui giornali, gli articoli sui quali si snoda la legge sono poco conosciuti, anche tra gli stessi lavoratori.
La punizione dei 'fannulloni', come li ha etichettati per mesi sul Corriere della Sera Ichino, professore di Diritto del Lavoro all'Università Statale di Milano, per anni esponente di spicco della Fiom Cgil, si è trasformata in una serie di regole che svelano in che direzione va il mondo del lavoro.
Non stiamo parlando solo dei lavoratori statali e degli enti locali ma di tutti i lavoratori, perché come più volte dichiarato da CGIL CISL e UIL, tra gli obiettivi della prossima riforma contrattuale, c'è quello di arrivare a una parificazione di trattamento tra lavoratori privati e pubblici.
E anche perché tra le tante 'bacchettate' ai fannulloni, scappa qualche 'bastonata' anche a tutti gli altri. Così per gradire e per tastare il terreno.

1. Reperibilità continua
La prima delle novità riguarda la malattia dei lavoratori statali. D'ora in poi l'orario in cui si è obbligati a stare in casa cambia. Fino a due mesi fa la reperibilità era obbligatoria dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19. Ora chi è malato, magari con un braccio ingessato, sarà costretto a stare in casa dalle 8 alle 12 e dalle 13 alle 20 tutti i giorni festivi inclusi. Nulla è stato fatto per impedire che medici disonesti producano certificati falsi a chi malato non è, la scelta è stata quella di colpire tutti indiscriminatamente. Generalizzando il teorema più in voga del momento: lavoratori pubblici=fannulloni.

2. Decurtazione dello stipendio in malattia
D'ora in poi chi si ammala nei primi 10 giorni di assenza si vedrà decurtare lo stipendio. E' il primo attacco al diritto di malattia, istituito da Benito Mussolini durante il ventennio per alcune categorie di lavoratori e poi esteso a tutti gli assunti a partire dagli anni Sessanta. Le decurtazioni riguardano la parte di salario accessorio come le indennità, che si aggiunge a quella fissa. Peccato che negli ultimi 15 anni molti degli aumenti economici dei contratti riguardano proprio questa parte di salario. Chi si ammala se la vedrà togliere. Anche se ha fatto 10 giorni di malattia negli ultimi cinque anni. Per categorie come gli infermieri, i vigili urbani e la Polizia, la riduzione sarà rilevante visto che una buona parte dello stipendio è compresa nelle voci di indennità.

3. Discrezionalità del part time per lavoratrici madri

Altra chicca è quella che vedrà il blocco dei part time per lavoratrici madri in molti uffici pubblici. La richiesta del part-time o di soluzioni orarie più favorevoli per la cura dei figli un tempo concessa in automatico, in presenza di percentuali che lo consentivano, è diventata discrezionale. Sarà il dirigente a decidere se concedere quello che nelle dichiarazioni pre-elettorali e nei bla-bla dei politici è la promessa più ricorrente: facilitare la vita alle famiglie. Aiutare la donna a conciliare lavoro e cura dei figli.

4. Obbligo per le amministrazioni di pagare malattia e maternità
A partire dal 1° gennaio 2009, le imprese dello Stato, degli enti pubblici e degli enti locali privatizzate e a capitale misto sono tenute a versare, secondo la normativa vigente la contribuzione per maternità, la contribuzione per malattia per gli operai. Facile prevedere quale sarà il risultato di questa norma, visto che già oggi la maternità è vista come la più grande sciagura che possa capitare a un ufficio del personale. Che un diritto fondamentale come questo sia messo in discussione anche dallo stato, lascia intravedere gli effetti di questa norma di legge.

5. Prima di 3 anni, licenziare i precari

Poco o nessun risalto invece è stato dato alle norme che limitano le assunzioni di interinali, tempi determinati, co.co.co., consulenti etc. per un periodo inferiore ai 3 anni. Chi ha fatto delle cause di lavoro sa benissimo che è spesso quello il limite temporale entro il quale i giudici obbligano l'azienda ad assumere a tempo indeterminato. Grazie ai processi molti precari sono stati stabilizzati per legge, una pratica che si è diffusa nel settore pubblico visto che le pubbliche amministrazioni hanno approfittato come fossero aziende private del precariato diffuso. D'ora in poi invece, si prospetta una condizione di precarietà senza via di scampo e con licenziamento incorporato, proprio in quelle istituzioni che dovrebbero 'controllare' e limitare il fenomeno.

6. Tempo determinato? Ordinaria attività

L'art 21 della legge allarga le possibilità che già oggi godono le aziende di assumere lavoratori a tempo determinato. Fino ad ora erano permesse per esigenze tecniche, produttive, organizzative o sostitutive dell'azienda. In pratica per ogni esigenza. Visto che nei Tribunali del Lavoro molti giudici interpellati in cause intentate dai precari ritenevano che questi svolgessero un'attività uguale ai colleghi assunti a tempo indeterminato, ecco che la legge usa quelle parole che cambiano le carte intavola: d'ora in poi le aziende potranno assumere a tempo determinato lavoratori per esigenze 'riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro'.

7. Blocco delle cause di lavoro
Il testo di legge dice testualmente che: 'Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle norme sul lavoro a tempo determinato, il datore è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'idennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto'. Chiunque abbia fatto una causa a un'azienda sa che questa norma toglie al lavoratore l'unica possibilità di essere risarcito adeguatamente. Solo il rischio di dover assumere a tempo indeterminato per ordine del giudice, piega e non sempre gli interessi delle aziende. Un indennizzo di due mesi e mezzo di mensilità, che per molti precari significano meno di 2500 euro, vuol dire non riuscire nemmeno a pagare un avvocato che ti difenda.

8. Straordinari pericolosi
Per il settore privato, in assenza di specifiche disposizioni nei contratti collettivi nazionali le deroghe al normale orario di lavoro settimanale (40 ore) possono essere stabilite nei contratti collettivi territoriali o aziendali stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale
Anche qui la legge prevede di eliminare le sanzioni in caso di reiterate violazioni del superamento dell'orario, del riposo giornaliero e settimanale, eliminando anche le considerazioni riguardo al rischio di infortunio.

9. Responsabilità dei dirigenti

Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria.
Il ricorso a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti.

10. Riduzione permessi sindacali
Al fine di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni e di pervenire a riduzioni di spesa, con decreto del ministro per la Pubblica amministrazione e l'innovazione, è disposta una razionalizzazione e progressiva riduzione dei distacchi, delle aspettative e dei permessi sindacali

11. Sei precario e fai causa? Tieni l'elemosina

Per rispondere a esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale. Non è possibile ricorrere alla somministrazione di lavoro per l'esercizio di funzioni direttive e dirigenziali. Al fine di evitare abusi nell'utilizzo del lavoro flessibile, le amministrazioni, non possono ricorrere all'utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell'arco dell'ultimo quinquennio. In ogni caso, la violazione di disposizioni riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno Le amministrazioni hanno l'obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell'articolo 21 del presente decreto. Di tali violazioni si terrà conto in sede di valutazione dell'operato del dirigente.

12. Processi di lavoro: 60 giorni per la sentenza
Il primo comma dell'articolo 429 del Codice di procedura civile è sostituito dal seguente: «Nell'udienza il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza».

13. Licenziamenti mascherati nella scuola
Si procede, altresì, alla revisione dei criteri e dei parametri previsti per la definizione delle dotazioni organiche del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (Ata), in modo da conseguire, nel triennio 2009-2011 una riduzione complessiva del 17 per cento della consistenza numerica della dotazione organica determinata per l'anno scolastico 2007/2008.

14. Aumenti e scatti di anzianità? Rinviati per i lavoratori pubblici
Con effetto dal 1º gennaio 2009per i lavoratori pubblici la maturazione dell'aumento biennale o della classe di stipendio, nei limiti del 2,5 per cento, prevista dai rispettivi ordinamenti è differita, una tantum, per un periodo di dodici mesi, alla scadenza del quale è attribuito il corrispondente valore economico maturato. Il periodo di dodici mesi di differimento è utile anche ai fini della maturazione delle ulteriori successive classi di stipendio o degli ulteriori aumenti biennali.

15. Meno soldi per gli infortunati sul lavoro

A decorrere dal 1º gennaio 2009 nei confronti dei dipendenti pubblici ai quali sia stata riconosciuta un'infermità da causa di servizio è esclusa l'attribuzione di qualsiasi trattamento economico aggiuntivo previsto da norme di legge o pattizie.

16. Precari: personale anche per il bilancio

Il trucchetto con il quale molte società mascherano costo del lavoro, e lavoratori, sta nell'inserirli in altri capitoli di bilancio. Non in quello relativo al personale ma nelle spese accessorie, o nelle spese per materiali. Ecco il motivo per cui, ad esempio, gli esuberi dichiarati ad Alitalia sono 'solo' di 7500. Tutti gli altri lavoratori, migliaia di precari, non risultano nel personale. I precari sono fantasmi. Il decreto 'Brunetta' dichiara che: 'costituiscono spese di personale anche quelle sostenute per i rapporti di collaborazione continuata e continuativa, per la somministrazione di lavoro, nonché per tutti i soggetti a vario titolo utilizzati, senza estinzione del rapporto di pubblico impiego. Quindi o i precari spariranno dalle amministrazioni, ed è impossibile, oppure verranno nascosti in qualche altra piega legislativa. Sempre più fantasmi e difficili da quantificare. L'unico dubbio che rimane è: dopo co.co.co, interinali, co.co.pro e partite IVA a unico committente quale altro nome verrà dato ai precari?

Thanx to Stefo

Foto di Xiaming [Worker Revolution], con licenza Creative Commons da flickr

venerdì, agosto 29, 2008

[RK] Il debito

di Bifo - da rekombinant

Sull'Herald del 2 agosto un articolo di David Brooks intitolato "Missing Dean Acheson".
Sottotitolo: "Il nostro nuovo mondo pluralistico ha dato origine a una globosclerosi, incapacità di risolvere un problema dopo l'altro."
Il tema è quello della impossibilità di decidere. Brooks ricorda con nostalgia i bei tempi in cui il gruppo dirigente americano prendeva decisioni sulla base dei suoi interessi e li imponeva senza tante storie, con le buone o con le cattive (generalmente con le cattive) a tutto il mondo dominato.
A partire dagli anni '40 il potere è stato fortemente concentrato nelle mani della classe dirigente occidentale, ma oggi il potere è disperso. "La dispersione dovrebbe in teoria essere una buona cosa, scrive Brooks, ma in pratica multipolarità significa potere di veto sull'azione collettiva. In pratica questo nuovo mondo pluralistico ha dato origine alla globosclerosi, incapacità di risolvere un problema dopo l'altro."
Poi il caro David viene al punto che più lo addolora: "Questa settimana per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, un tentativo di liberalizzare il mercato globale è fallito. Il Doha round ha subito un collasso perché il governo indiano non voleva offendere i piccoli contadini in previsione delle prossime elezioni."
A David Brooks dei piccoli contadini indiani non gliene può fregare di meno. Il suo problema è la fine della capacità di decisione economica da parte delle grandi potenze occidentali.
In effetti, nel corso dell'estate 2008 abbiamo avuto tre segnali impressionanti della fine della decisione politica, della fine del globalismo e della fine dell'egemonia occidentale. Il G8, il WTO, ed infine la NATO sono entrati in una sorta di paralisi.

All'inizio di luglio c'è stato il summit G8 di Hokkaido. Posti di fronte alla necessità di decidere qualcosa a proposito di processi che avanzano con velocità impressionante e distruggono il futuro del pianeta e dell'umanità (cambiamento climatico, crisi alimentare, crisi finanziaria) i capi delle potenze mondiali hanno fatto come suol dirsi scena muta. Dovevano decidere qualcosa sul cambiamento climatico. La risoluzione finale relativa al cambiamento climatico dichiara semplicemente che nel 2050 le emissioni inquinanti saranno la metà di quelle attuali. Questo è quello che hanno stabilito i "Grandi". Come accadrà questo dimezzamento? Nessuno lo sa, nessuno lo ha detto. Ma tanto chi se ne frega, nel 2050 saremo tutti morti (probabilmente a causa del cambiamento climatico) quindi nessuno potrà recriminare.

Alla fine del mese di luglio c'è stato l'incontro di Ginevra del Doha Round del World trade organisation, dove è definitivamente fallito l'accordo sulla liberalizzazione del commercio internazionale - che per gli occidentali significa libertà di penetrazione nei mercati altrui e difesa protezionistica dei mercati propri. Il WTO, l'organismo contro cui ci battemmo a Seattle nel 1999, quando il movimento no-global venne alla luce del sole, sembra defunto, non certo per la forza dei movimenti di contestazione, ma a causa dell'emergere di contrasti d'interesse inconciliabili, per il rifiuto che le nuove potenze economiche oppongono al globalismo a senso unico occidentale.

Poi c'è stata la guerra in Georgia. La lunga onda dell'89 è finita, ora rifluisce.
La Nato non ha potuto difendere in nessuna maniera il suo alleato georgiano, dimostrando che la presidenza Bush ha portato il sistema militare americano all'impotenza.
E l'Unione europea si trova ormai spaccata in due: da una parte coloro che per timore dell'aggressività russa vogliono puntare le armi contro Mosca, e dall'altra coloro che per timore della potenza energetica russa vorrebbero trovare un compromesso.

Sullo sfondo, mentre i vertici globali falliscono uno dopo l'altro, la guerra euroasiatica tende a saldarsi in un fronte variegato nel quale l'occidente perde tutte le battaglie. La battaglia iraqena è ormai perduta da anni, la battaglia afghana sta diventando un inferno.
La battaglia iraniana volge a favore dell'oltranzismo nazional-islamista di Ahmadinejad e Khamenei, e la bomba sciita si delinea all'orizzonte mediorientale come una minaccia sempre meno immaginaria. La battaglia libanese diventa ogni giorno più pericolosa per Israele, con il saldarsi di un fronte Siria-Hezbollah.
E per finire, più spaventosa di tutte, la battaglia pakistana sta rivelandosi un rovescio per gli americani. Il generale protetto dalla Casa Bianca deve andarsene, e Ahmad Gul, l'uomo forte dell'esercito, dichiara che il principale nemico del paese sono gli Stati Uniti d'America (e l'India dove la mettiamo?). Ah... dimenticavo: Kim Iong Il ha appena comunicato che la Corea del Nord riprende la produzione della bomba nonostante i mezzi accordi otenuti dall'amministrazione Bush qualche emse fa. Il clan Bush è riuscito in un capolavoro impensabile: la più grande potenza del mondo si è messa progressivamente in condizione di minorità militare e di paralisi politica. Com'è potuto accadere?

Occorre una nuova descrizione del mondo. Quelle di cui disponiamo non valgono più.
Fino al 1989 disponevamo di una descrizione del mondo che si era formata nel secondo dopoguerra, e delineava il futuro sulla base dell'opposizione tra capitalismo e socialismo.
Nel 1989 quella descrizione bipolare venne sostituita con una descrizione unipolare, fondata sull'egemonia della NATO e sul predominio di un nuovo modello di espansione capitalista.
Per un ventennio l'egemonia militare ha messo l'occidente in una posizione di predominio, che permetteva alla popolazione americana di indebitarsi illimitatamente, di mantenere un tenore di vita largamente superiore alla forza produttiva americana, e di consumare le risorse senza alcuna considerazione per il futuro del pianeta né per la sopravvivenza della specie umana.

L'undici settembre del 2001, con un'azione di eccezionale efficacia strategica, qualcuno (poco mi importa qui sapere chi) ha spinto la più grande potenza militare di tutti i tempi a compiere una serie di azioni completamente insensate, autodistruttive, di cui sette anni dopo, si misurano a pieno gli effetti. Dopo 911 il presidente degli Stati Uniti, che qualche mese prima non conosceva il nome del presidente golpista del Pakistan, decideva di lanciare una guerra poi un'altra guerra, senza considerarne le implicazioni geopolitiche, culturali, religiose, militari. Io non so se questo sia dovuto all'ignoranza sbalorditiva del gruppo dirigente americano, o al cinismo di gruppi economici come la Halliburton la Bechtel la Texaco ecc che hanno considerato più importante il loro interesse economico immediato che la disfatta strategica del loro paese (non lo so nè qui mi interessa, per quanto si tratti di una questione appassionante). Mi limito a constatare l'evidenza: le guerre euroasiatiche scatenate dagli anglo-americani si sono risolte in una successione di sconfitte strategiche irrimediabili. L'egemonia militare dell'occidente è finita. Per sempre, credo.

Ma la sconfitta militare sta provocando una crisi di credibilità che ha risvolti finanziari ed economici. Il popolo americano ha potuto appropriarsi delle ricchezze del pianeta grazie all'(apparente) superiorità militare della NATO. Ora, dopo la disfatta strategica dell'occidente nel continente euroasiatico, il gioco è scoperto. L'occidente non dispone più della sua forza di ricatto. Ora il pianeta gli presenta il conto. Temo che sarà salato. Non si può più contare sul debito illimitato.

Il 15 agosto è uscito sulla Repubblica un articolo di Nouriel Roubini, professore alla Stern school della New York University. Titolo: "La tempesta perfetta".
Il quadro che descrive Roubini è quello di una recessione generalizzata, profonda, e di lungo periodo. Questo non è così grave, di recessioni ne abbiamo viste tante nel corso del novecento, prima o poi se ne esce. Il problema è che stavolta la recessione coincide con la fine del predominio occidentale sul pianeta.
L'occidente può accettare un ridimensionamento, che significa prima di tutto una riduzione del consumo energetico, e del consumo in generale? Gli americani accetteranno di rinunciare al privilegio economico e finanziario di cui hanno goduto negli ultimi venti anni? Saranno capaci di farlo?

Dopo il crollo del sistema di credito immobiliare, si sta aprendo il problema delle carte di credito. Dopo la bolla dei mutui sulla casa, è sul punto di esplodere anche la bolla dell'indebitamento privato . Mi pare che qui ci sia un nucleo essenziale della crisi finanziaria che si sta trasformando in recessione di lungo periodo: la fine della possibilità di indebitarsi indefinitamente puntando una rivoltella alla tempia del creditore. Ora il creditore ha scoperto che la rivoltella è scarica.
Accetterà l'occidente, accetterà il popolo americano di pagare il suo debito?
Il debito. Ciò che dobbiamo agli altri.
Oppure sceglierà di usare l'arma estrema, la violenza impensabile, per riaffermare il proprio diritto di depredare il futuro di tutti? Il pericolo che si delinea all'orizzonte è senza precedenti. Non è vero che sia tornata la guerra fredda. Magari.
La Guerra fredda era fredda perché gli americani non avevano l'acqua alla gola e perché l'Unione sovietica era un sistema totalitario, ma il gruppo dirigente del PCUS aveva una logica politica diversa da quella della mafia e del KGB coalizzati.

Foto di Marcio Eugenio [Small houses], con licenza Creative Commons da flickr

lunedì, agosto 25, 2008

Turbolence No. 4: 'Who can save us from the future?'

Today, the very act of thinking about the future has become a problem. What both capitalism and ‘really existing socialism’ had in common was the belief in a future where infinite happiness would spring from the infinite expansion of production: sacrifices made in the present could always be justified in terms of a brighter future. And now? The socialist future has been dead since the fall of the Berlin wall.

After that we seemed to live in a world where only the capitalist future existed (even when it was under attack). But now this future, too, is having its obituaries composed, and impending doom is the talk of the town. The ‘crisis of the future’ – that is, of our capacity to think about the future – is born out of these twin deaths: today it is easier to imagine the end of the world than the end of capitalism.


With this in mind we’ve assembled a collection of articles that, in different ways, speak to us about futures. As much as we didn’t want people’s ten-point programmes when, in June 2007 we asked ‘What would it mean to win?’, our interest here has nothing to do with futurology. There are no grand predictions. No imminent victory, because comfort-zone wishful thinking is the last thing anyone needs now; but no apocalyptic doom either. Neither are there any forward-view mirrors where capitalism recuperates everything and always gets the last laugh. We must have the modesty to recognise that the future is unknown, not because today is the end of everything or the beginning of everything else, but because today is where we are. What we do, what is done to us, and what we do with what is done to us, are what decide the way the dice will go. This requires the patient and attentive work of identifying openings, directions, tendencies, potentials, possibilities – all of which are things that amount to nothing if not acted upon – and of finding out new ways in which to think about the future.

Contents

Introduction: Present Tense, Future Conditional by Turbulence
Today I See the Future by Turbulence
1968 and Doors to New Worlds by John Holloway
Starvation Politics: From Ancient Egypt to the Present by George Caffentzis
Six Impossible Things Before Breakfast by The Free Association
Global Capitalism: Futures and Options by Christian Frings
The Measure of a Monster: Capital, Class, Competition and Finance by David Harvie Et tu Bertinotti? by Sandro Mezzadra, with an Introduction by Keir Milburn and Ben Trott
There is No Room for Futurology; History Will Decide by Felix Guattari, with an Introduction by Rodrigo Nunes and Ben Trott
This is Not My First Apocalypse by Fabian Frenzel and Octavia Raitt
The Movement is Dead, Long Live the Movement! by Tadzio Mueller
Network Politics for the 21st Century by Harry Halpin and Kay Summer


PDF available here.

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Inside art work by Octavia Raitt. Cover art by Kristyna Baczynski.

domenica, agosto 17, 2008

1971, Holland: Foucault vs Chomsky






Vedi anche sullo stesso dibattito Della natura umana in finoaquituttobene