giovedì, maggio 31, 2007

Tutto in famiglia

di Alessandro Robecchi - da il manifesto (30 maggio 2007) - immagine da amatrix.noblogs.org

Siccome il Family Day è venuto bene, già si pensa di farne un appuntamento fisso. Molte sono le amene località italiane che vorrebbero ospitare il prossimo Family Day. Forte - sull'onda dell'emozione - la candidatura del ridente borgo di Marsciano (Umbria): moglie incinta ammazzata di botte, fermato il marito. Anche Belluno ha le carte in regola per ospitare la sagra della famiglia tradizionale: moglie accoltellata dal marito. Anche Parma se lo meriterebbe: moglie strangolata dal marito. Un gemellaggio per ospitare il Family Day si potrebbe tentare tra L'Aquila e Rieti, dove lo stesso tizio ha ammazzato a fucilate la convivent
e e la figliastra. Roma si candida soltanto con il triste episodio della figlia malata di mente che accoltella la madre. Mentre Gorgonzola (Lombardia), presenta il caso più standard: uccisa dal fidanzato che la sorprende con l'amante (tutti stranieri, in questo caso: al Family Day si potrebbe unire la tradizionale fiaccolata della Lega). E queste sono solo le candidature degli ultimi cinque giorni: quelle quotidiane celebrazioni della famiglia italiana dove alla fine, invece dei cantanti, intervengono i Ris e la scientifica. Altro che i bambini fanno oh! Sto aspettando con ansia che qualche esponente della sinistra ci spieghi che «bisogna ascoltare quella piazza». Bravo, ma quale? Belluno o Parma? Marsciano o Gorgonzola? Essere più precisi, please!
Quanto all'emergenza criminalità e alla voglia di sicurezza, la destra che ha trionfato al Nord al grido di «tolleranza zero» dovrebbe valutare alcune opzioni operative, come ad esempio le telecamere nelle sale da pranzo e le ronde notturne nelle camere da letto. Vedremo. Certo non mancano le note positive: se sono scontente della loro presenza nella politica, nell'economia, nelle istituzioni, le donne italiane possono invece gioire per il loro ruolo preminente in famiglia. Come vittime, sono maggioranza assoluta.


mercoledì, maggio 30, 2007

Quasi dimenticavo... i 50 anni dell'Europa!

Approfittandone anche per lanciare l'uscita de lo squaderno dedicato all'Europa. Fra pochi giorni, con un mio piccolo contributo sui movimenti europei.


Filippo Raciti non fu ucciso da un tifoso

di Mazzetta - da mazzetta.splinter.com
Immagine da
scrittureincorso.splinder.com

[Post arricchito sul blog d'origine da un interessante botta e risposta fra l'autore e un "utente anonimo"]


Game over, riposi in pace insieme alla verità.

I terribili ultras non hanno ucciso Filippo Raciti con un lavandino. Il lavandino era stampato in metallo ed era flessibile, non aveva la massa e nemmeno la compattezza per procurare le lesioni riscontrate su Raciti. Se lo avessero mostrato prima sarebbe parso evidente a chiunque.

I Ris di Parma, per dire questa sciocchezza senza sbilanciarsi troppo hanno scritto, riferendosi al lavandino, che: "..pur non potendo esprimersi per una diagnosi definitiva, l'ipotesi della inidoneità sembra riunire maggiori elementi di probabilità". Se a questo si aggiunge che un collega di Raciti ha ammesso di averlo investito con un Land Rover: "...innescata la retromarcia, ho spostato il Discovery di qualche metro. In quel momento ho sentito una botta sull'autovettura e ho visto Raciti che si trovava alla mia sinistra insieme a Balsamo portarsi le mani alla testa. Ho fermato il mezzo e ho visto un paio di colleghi soccorrere Raciti ed evitare che cadesse per terra" e che il patologo ha riconosciuto le lesioni riscontrate sul corpo di Raciti come compatibili con l'investimento da parte del mezzo, non è difficile trarre la conclusione che Filippo Raciti non fu ucciso da un giovane ultras.

Quindi viene da chiedersi perchè, se la polizia sapeva che Raciti era stato investito da un collega, si siano costruite false accuse contro un ragazzo che, per quanto colpevole di altre infrazioni, non è certo un omicida. Perchè la polizia di Catania si è inventata questa storia
con tanto di disegnini, se fin da subito i colleghi di Raciti sapevano che era stato investito da uno di loro? Perchè tutti i colleghi hanno taciuto mentre si montava lo scandalo ultras? Alla famiglia Raciti, quale verità è stata detta? Sono stati i primi responsabili della sua morte ad architettare questo depistaggio, con il rischio di mandare in galera per decenni un ragazzo, o qualche più alta autorità? Perchè nessuno ha dato ancora evidenza al fatto che la morte di Raciti fu dovuta ad un incidente e non ad un omicidio? Scommettiamo che queste domande non avranno risposta?

martedì, maggio 29, 2007

A proposito del caso Wikipedia-Del Papa-Indymedia


di Wu Ming 1 - tratto da Carmillaonline

Sul web, da qualche giorno, non si parla d'altro.
Fatta la tara di tutte le illazioni e sentiti dire, il succo sembra essere questo: il giornalista e blogger fermano Massimo Del Papa, editorialista della rivista "Il Mucchio" e autore di diversi libri (tra i quali ricordiamo Milano Funeral e Il mio mestiere è questa vita), ha minacciato di azione legale l'edizione italiana di Wikipedia e ha informato la polizia di quanto avvenuto intorno alla voce "Massimo Del Papa".

Cos'è avvenuto? Che nei giorni scorsi la voce è stata integrata da una fotografia (le cui sembianze non erano però quelle del Del Papa), una riga di testo in più (in cui si affermava che tra il 2005 e il 2006 Del Papa aveva postato diversi articoli sull'attualmente congelato sito italy.indymedia.org) e un link che rimandava agli articoli suddetti.
Solo che - molti lo hanno appreso soltanto dopo l'esplodere della querelle - quei pezzi non erano stati postati direttamente dal Del Papa, ma da anonimi Pasquini che li trovavano sul suo blog e li ricollocavano beffardamente. Si trattava spesso di articoli durissimi contro Indymedia, da qui il prevedibile, persino ovvio détournement da "autofagia" (Indymedia attacca Indymedia) con relativa catena di sberleffi e contumelie.

Continua qui

venerdì, maggio 25, 2007

Omnia Communia

Un nuovo blog su p2p, democrazia in rete, information economy.

www.omniacommunia.org


"Un blog che fa proprie le tesi di La ricchezza della Rete di Yochai Benkler sul futuro dell'economia dell'informazione. Per difendere i nuovi commons e dare peso politico alla produzione sociale in rete."

mercoledì, maggio 23, 2007

Comunicazione, Potere e Contropotere nella network society


Sempre in tema di network theory, vi invito a leggervi l'interessantissimo saggio di Castells pubblicato sul Internationa Journal of Communication, di cui qui sotto trovate l'abstract.

L'intero saggio in italiano su caffè europa.

Il presente articolo formula una serie di fondate ipotesi sull’interazione tra comunicazione e rapporti di potere nel contesto tecnologico che caratterizza la network society, o “società in rete”.

Partendo da un corpus selezionato di studi sulla comunicazione e da una serie di case study ed
esempi, si giunge alla conclusione che i media siano divenuti lo spazio sociale ove il potere viene deliberato. Mostrando il legame diretto tra politica, politica dei media, politica dello scandalo e crisi della legittimità politica in una prospettiva globale. E avanzando l’idea che lo sviluppo di reti di comunicazione interattiva orizzontale ha favorito l’affermazione di una nuova forma di comunicazione, la mass self-communication (comunicazione individuale di massa), attraverso Internet e le reti di comunicazione wireless.

In un tale contesto, politiche insurrezionali e movimenti sociali sono in grado di intervenire con maggiore efficacia nel nuovo spazio di comunicazione. Sul quale, però, hanno investito anche i media ufficiali o corporate media e la politica mainstream.
Tutto ciò si è tradotto nella convergenza tra mass media e reti di comunicazione orizzontale. E, più in generale, in uno storico spostamento della sfera pubblica dall’universo istituzionale al nuovo spazio di comunicazione.

La vetrinizzazione sociale e i blog.


Iniziamo con un'avvertenza. Questa non è una recensione, anche perché prima di scriverne una deve aver finito di leggere il libro oggetto della recensione stessa. Ma non ho resistito a pubblicare subito il breve estratto che segue da un libro snello ma intenso dal titolo La vetrinizzazione sociale. Il processi di spettacolarizzazione degli individui e della società.

Il libro - scritto da Vanni Codelupi - analizza le trasformazioni delle società occidentali attraverso la lente che segue l'evolversi e lo sviluppo ininterrotto di un particolare fenomeno sociale: la "vetrinizzazione". A partire dal Settecento la comparsa della vetrina - sì, quella dei negozi - ha segnato un importante punto di rottura nella cultura occidentale: mettendo le merci in vetrina soggette al giudizio (visivo) del consumatore, che per la prima volta si trova solo davanti alla merce, si sono poste le basi per la spettacolarizzazione degli individui e delle società: gli individui - da quel momento in poi - hanno imparato attraverso il diffondersi di questo fenomeno sociale una fondamentale modalità di rapporto con il mondo.

Torniamo all'estratto che vi propongo di seguito. Si tratta di un brano in cui Codeluppi analizza da questo punto di vista un fenomeno attualissimo e significativo per riflessioni riguardanti la dimensione della costruzione d'identità - i blog - fornendo spunti molto interessanti.

Buona lettura.


"Dal 1997 in America hanno iniziato a prendere piede i blog personali. In Italia sono circa 250000, ma nel mondo il sito Technorati.com ne conta oltre 27 milioni. Un blog è più di una pagina personale, è una sorta di diario costantemente aggiornato e aperto a tutti, con pensieri, immagini, filmati video e qualsiasi cosa la fantasia consenta di esprimere. Chi lo fa
non pensa di appartenere al sistema dei media o di riempire semplicemente no spazio con dei contenuti. Pensa invece di comunicare con altre persone e in effetti i lettori di blog sono moltissimi: ogni giorno oltre cento milioni di persone.

Persino i militari americani impegnati sul fronte iraqueno realizzano. E lo fanno anche i condannati a morte [...]. Giustamente Derrick de Kerckhove ha sottolineato che "il blog non è la pubblicazione del diario ma è la pubblicazione del diario ma è la pubblicazione del network, del mio network. Ci troviamo di fronte, cioè, a una creatura profondamente connettiva: non collettiva, non privata, ma profondamente connettiva". In questo sta probabilmente anche la ragione del successo del blog. Esso è infatti la realizzazione concreta della posizione in cui si trova oggi l'individuo nelle società ipermoderne: perfettamente al centro tra la dimensione privata e quella pubblica.

Un ulteriore punto di forza dei blog consiste nel fatto che, a differenza degli altri strumenti di comunicazione disponibili su Internet, essi "ragruppano i contenuti per persona, fornendo
agli individui uno strumento di identificazione fortissimo. Questo facilita la relazione sia tra soggetti che già si conoscono, sia con soggetti che iniziano da zero un nuovo contatto" (Granieri).

Insomma, il blog è una forma di rafforzamento dell'identità personale rispetto al processo di "anonimizzazione" che caratterizza il funzionamento della Rete, perché contribuisce a stabilizze nel tempo la presenza degli individui. In questo modo, si stabilizzano anche le relazioni interpersonali e si aprono dei confronti che portano allo sviluppo delle idee e ad un arricchimento delle conoscenze possedute dalla società nel suo complesso. La tecnologia dunque rafforza le possibilità personali di esprimersi e di affermarsi in un contesto dove ciò appare sempre più difficoltoso. Consente, insomma, di essere più visibili all'interno della grande vetrina sociale."

sabato, maggio 19, 2007

All'inizio era Panzieri

Enrico Pugliese - il manifesto 17 maggio 2007

Nel dopoguerra la ricerca sociale in Italia vede una ripresa significativa che porterà al consolidamento, anche in sede accademica, della sociologia come disciplina. Gli stimoli a questa ripresa sono moltissimi, così come diversi sono i filoni culturali che si oppongono all'affermazione della ricerca sociale e della sociologia. Questi provengono dalla tradizione idealistica - sia nella versione crociana che in quella gentiliana - ma anche dal filone marxista più ortodosso, incapace di assorbire le innovazioni gramsciane sul piano dell'analisi sociale e culturale. Gli stimoli alla ripresa, invece, arrivano dalla crescente influenza della cultura americana, che proprio in quegli anni vede un consolidamento delle scienze sociologiche, psicologiche e antropologiche. Ma accanto a questo filone più accademico si sviluppa in molti ambienti una più diffusa attività di ricerca legata al bisogno di comprendere la realtà sociale di quegli anni, in profondo movimento, e soprattutto la condizione delle classi subalterne.

Vi si impegnano studiosi di varie discipline e intellettuali legati al movimento operaio o alla tradizione meridionalista, che nel dopoguerra riprende con vigore e forte carica innovativa in ambiti politici molto diversi. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, nuclei di studiosi legati a riviste, intellettuali legati ad Adriano Olivetti (come Ferrarotti e altri), docenti impegnati nella scuola di servizio sociale Cepas, gruppi locali impegnati nella ricerca e nella pratica sociale come l'Arn a Napoli, intellettuali interni al sindacato conducono e promuovono inchieste importanti e innovative. Ed è proprio la ricerca non accademica che dà contributi fondamentali alla conoscenza delle metamorfosi della società italiana. Basti ricordare i contributi di Rocco Scotellaro, Carlo Levi, Danilo Montaldi, Danilo Dolci e tanti altri. Si studiano così i contadini, le comunità locali, gli emigranti meridionali e veneti, gli immigrati nelle grandi città industriali. La nuova classe operaia della grande fabbrica, a partire dalla fine degli anni Cinquanta diventa oggetto di interesse di una ricerca sociale fortemente impegnata. Un ruolo determinante è svolto dai Quaderni Rossi, fondati e diretti da Raniero Panzieri, che pongono al centro del lavoro politico e culturale la classe operaia, della quale si intende comprendere condizioni, orientamenti, cultura e aspettative.

Torino - sede della più importante concentrazione operaia italiana - diventa centro di aggregazione culturale. Raniero Panzieri e il gruppo di giovani raccolti intorno a lui rappresentano un nucleo di impegno politico e sindacale innovativo sul piano della ricerca per orientamento, metodo e contenuti. Alla scuola dei Quaderni Rossi si formano studiosi di scienze sociali e le tematiche sostantive e gli aspetti di metodo caratterizzanti il loro lavoro avranno un'influenza molto vasta per gli studi sulla classe operaia. Il metodo è quello dell'inchiesta, dove ricerca e pratica sociale, impegno scientifico e volontà di cambiamento si intrecciano.
Al contributo dato da questi filoni di ricerca è dedicato il convegno. I tre termini indicati - orientamenti, contenuti e metodi - si riferiscono agli aspetti caratterizzanti la ricerca. I contenuti sono innovativi e affrontano aree e problematiche sociali trascurate dai filoni di ricerca accademici. Volendo indicare gli ambiti più significativi, si può dire che, oltre alla condizione operaia e alle sue espressioni sociali, politiche e culturali, l'attenzione è stata rivolta agli strati marginali della società e alla realtà delle istituzioni totali. Proprio grazie al metodo dell'inchiesta, l'attenzione è stata rivolta alle realtà locali e alle specificità dei contesti rurali e urbani, dando così anche un rinnovato impulso alla ricerca meridionalista: non solo alle condizioni di braccianti e contadini, ma anche al proletariato precario nei quartieri popolari come a Napoli. Tutto questo, con un impegno per la trasformazione sociale a vantaggio delle classi subalterne e per un loro avanzamento nella società.

In questo clima culturale, agli inizi degli anni Settanta nasce la rivista Inchiesta, che affronta temi non toccati dalla tradizionale ricerca sociologica accademica, ma che si impone anche in ambito scientifico per l'originalità dei contributi dati dagli studiosi che vi scrivono: giovani ricercatori provenienti dall'ambito accademico ma anche da altri contesti, quale ad esempio quello sindacale. Si stabilisce così un nesso forte tra studiosi e sindacato in diversi ambienti, per cui il lavoro di inchiesta dà elementi di conoscenza e stimoli all'azione sindacale, mentre la comunità di intenti tra sindacato, operai e ricercatori allarga l'orizzonte conoscitivo della ricerca sociale in Italia.


Dei limiti della sociologia tradizionale e dell'esigenza di aggiornamento si prende atto anche in ambiente sociologico con il convegno su "La crisi del metodo", mentre si afferma con forza il metodo dell'inchiesta che supera l'alternativa schematica tra approccio quantitativo e approccio qualitativo e scava in terreni nuovi individuando rapporti di potere, ingiustizie sociali, forme di oppressione economica e culturale, discriminazioni, ma anche aspettative di cambiamento e trasformazioni sociali e culturali. Infine, più che teorizzare l'approccio interdisciplinare, la pratica dell'inchiesta pone fianco a fianco studiosi di diversa formazione che beneficiano del confronto reciproco e dell'arricchimento che viene dal rapporto con il contesto sociale e umano della ricerca. Si pone in primo piano la condizione umana, analizzata attraverso il rapporto diretto con le persone nella loro quotidianità, mettendo a confronto l'approccio dello studioso con il punto di vista direttamente espresso dai soggetti interessati.

Il dibattito sul mercato del lavoro, che trova nel centro di Portici (Università di Napoli) a metà degli anni Settanta uno dei momenti di più attivo confronto, è espressione di questo incontro di discipline e ruoli diversi, grazie alla partecipazione di sindacalisti e operatori sociali. Questo stesso approccio porterà ad analisi più ricche e articolate delle problematiche territoriali dello sviluppo che, partendo dall'analisi del lavoro a domicilio e del decentramento produttivo (che proprio nella rivista Inchiesta trovano la principale sede di confronto), affrontano il ruolo della piccola impresa e delle istituzioni locali per lo sviluppo economico. Il gruppo di giovani economisti che nel corso degli anni Settanta si forma a Modena, dà contributi innovativi in questo senso e il lavoro di Sebastiano Brusco diventa un punto di riferimento per l'analisi delle nuove forme di organizzazione produttiva nell'epoca della crisi della produzione di massa. La minuziosa indagine empirica e la continua attenzione alle caratteristiche socio-economiche del contesto e al ruolo delle istituzioni sono l'aspetto caratterizzante.

In questo lungo processo di sviluppo della ricerca sociale e di affermazione della pratica dell'inchiesta, Giovanni Mottura è stato uno dei protagonisti, a partire dagli anni Cinquanta con il suo impegno (e le inchieste) tra i contadini siciliani presso il centro di Danilo Dolci, il lavoro di ricerca e di impegno politico nei Quaderni Rossi con Raniero Panzieri, gli studi presso il Centro di Ricerche Economico-Agrarie per il Mezzogiorno (Università di Napoli) e all'Università di Modena, a Bologna presso l'Archivio Storico della Camera del lavoro, nel sindacato con i lavori sugli immigrati per l'Ires-Cgil. Il convegno è in occasione del suo settantesimo compleanno.

venerdì, maggio 18, 2007

Appunti di un consumatore psicoATTIVO

In queste settimane in Italia si stanno sprecando parole senza senso sulla “droga” (ma che è poi?), affermazioni talmente deviate, talmente miopi, talmente criminali che appaiono quasi surreali.

In Spagna è passato senza problemi un disegno di legge che autorizza la coltivazione di cinque piante di marijuana per uso strettamente personale consentendo così al consumatore di non dare immense fortune alle narcomafie e di non assumere erba realmente pericolosa a causa del suo taglio. Insomma senza dubbio dal punto di vista statale è una scelta responsabile che leva soldi al cancro della mafia e giova alla condizione psicofisica dei cittadini e quindi alle casse dello Stato su cui ricade la tutela della loro salute.

In Italia all’incirca nello stesso periodo si gridava allo scandalo, alla follia criminale verso l’innocua (e inutile) “proposta Turco” di aumentare alla comunque ridicola soglia di 1g il limite massimo di principio attivo detenibile(quindi circa 10g di sostanza lorda) per non incorrere in sanzioni penali dai 6 ai 20 anni. Al di sotto di questo insensato limite però non si può certo stare tranquilli, in ogni caso ci sono pesanti sanzioni amministrative che possono anche arrivare al sequestro della patente o al ritiro del passaporto. Il provvedimento del Ministro della salute aveva quindi una portata molto limitata, e non cambiava la sostanza della legge che è totalmente folle.

A questo punto è utile fare una riflessione sulla differenza tra spaccio e spacciatore: l’ex-ministro Giovanardi (a cui dobbiamo insieme al simpatico Fini l’attuale legge sulle droghe) con un’ingenuità sospetta difendeva qualche mese fa il sistema delle tabelle facendo un parallelo tra il consumatore e lo “spacciatore” di sigarette. Infatti per il ministro si è nel primo caso quando si hanno fino a tre o quattro pacchetti in tasca ma non lo si è più dal momento che si hanno 20 stecche a casa. Sorvolando sul fatto che non mi risulti esserci un limite al numero di sigarette detenibili legalmente, questo confronto cannabis/tabacco reggerebbe solo se ognuno di noi potesse andare in un negozio e comprare tranquillamente un paio di grammi d’erba da fumare, ma quando provo a chiedere un articolo del genere al mio tabaccaio di fiducia la risposta non è positiva. È molto importante quindi nel nostro contesto distinguere tra colui che spaccia e lo spacciatore. Moltissime persone (soprattutto tra i più giovani) per necessità vendono una piccola parte della propria “droga” a causa dei prezzi altissimi causati dal proibizionismo, per questo enorme numero di persone i ruoli spacciatore/consumatore si intrecciano e si alternano senza nessun lucro se non quello di fumare gratis. Ben diversa è invece la situazione di chi fa del commercio di droga la sua principale occupazione e fonte di reddito. E se c’è qualcuno che la legge Fini/Giovanardi non tocca è proprio quest’ultima categoria, quella che andrebbe più punita per stroncare il narcotraffico. Questa sottile distinzione è estremamente importante perché lo stato attuale delle cose non consente a molte persone di avere soltanto la proprio “dose personale”,

Altro commento molto pressante da parte di tutte le forze politiche è sul “preoccupante” aumento del consumo di droga “tra i giovani” (per usare termini roboanti tanto cari ai mass-media) imputato, in un crescendo di paradossi, ad una presunta politica lassista e antiproibizionista sugli stupefacenti. L’aumento del consumo non sarebbe quindi “colpa” di una delle leggi più proibizioniste d’Europa che è ormai pienamente in vigore da 444 giorni ma ad una non meglio precisata moribidezza legislativa sul tema (sic!). Da questo visionario presupposto (che acido usano?) partono le esternazioni condivise trasversalmente da centrosinistra/destra di inasprire ancora di più una situazione oltremodo repressiva (i cui danni si sono visti e si stanno vedendo) ripenalizzando addirittura il consumo, distribuendo Kit “da 1984” che permettono di capire se il proprio figlioletto sia un drogato, e tornando indietro sui più basilari punti della riduzione del danno come l’accesso a siringhe pulite per i tossicodipendenti.

Oltre un anno fa gli antiproibizionisti segnalarono come le tabelle della legge Bossi/Fini favorissero in maniera insolita il consumo di cocaina con una soglia massima detenibile molto alta in relazione al suo prezzo e che questo avrebbe portato ad un aumento dello spaccio di questa sostanza (guadagni semplici e minori rischi rispetto, ad esempio, alla cannabis), quindi ad una diminuzione del prezzo e ad una diffusione più capillare. Puntualmente questo è avvenuto ed anche le istutuzioni se ne sono accorte senza però riuscire a capire quanto sia necessario un cambiamento di tendenza rispetto a questa folle legislazione proibizionista visti gli inequivocabili risultati a cui ci sta portando.

E’ necessario un segnale di discontinuità. Le droghe non sono tutte uguali. E non è demagogia questa ma medicina. L’ abbattimento di una distinzione legale tra le varie “droghe! ha portato ad una percezione distorta dei reali danni delle varie sostanze psicoattive.

Inoltre è necessario distinguere tra due comportamenti molto lontani per lo Stato. Infatti è molto diverso (e questo vale per ogni droga, legale e non legale) alterare la propria percezione senza che questo rappresenti un pericolo per gli altri oppure farlo e poi, ad esempio, mettersi alla guida o fare una rissa. Infatti se in quest’ultimo caso lo Stato è legittimato ad intervenire nel primo non lo è affatto anzi è obbligato dalle libertà costituzionali a non farlo in nessun modo. Lo Stato non è autorizzato a limitare le scelte libere e consapevoli del cittadino, quando lo fa si parla di autoritarismo.

E’ necessario che lo Stato favorisca comportamenti responsabili come quello dell’autoproduzione che consentirebbe l’abbattimento di un mercato illegale su cui le narcomafie lucrano tra 312 e 390 miliardi di euro ogni anno. Senza contare la nostra salute, che ne trarrebbe giovamento non dovendo più subire il taglio (spesso più dannoso della sostanza stessa) che viene dato ad ogni droga reperibile sul mercato.

Se lo scopo dei proibizionisti è davvero quello di diminuire il consumo e abbattere le narcomafie (ma ne dubito molto) il fine non è stato raggiunto. Punto.

Chi associa l’antiproibizionismo a criminalità, droga ovunque e morti di overdose è un bugiardo. Dalla liberalizzazione di tutti gli stupefacenti lo Stato ha solo da guadagnare: azzeramento dei reati legati alla droga, maggiori entrate fiscali, maggior controllo sul consumo, duro colpo alla mafia, miglioramento della salute dei cittadini, meno morti per le strade, meno ignoranza, possibilità di impiegare le forze dell’ordine su fronti ben più importanti. L’antiproibizionismo storicamente non ha colore politico: è una scelta responsabile e necessaria.

Invece se c’è qualcosa che unisce partituncoli italiani di ogni schieramento è la deriva verso lo stato salutista che maschera l’interesse delle varie lobby e mafie che premono perchè il mercato degli stupefacenti rimanga sommerso

Siamo stanchi di essere criminali, siamo stanchi di essere perquisiti per due cannette, siamo stanchi di colloqui col Prefetto, siamo stanchi di alimentare le narcomafie, siamo stanchi di dover essere spacciatori, siamo stanchi di assumere sostanze di cui non possiamo sapere la provenienza né la composizione.

C’è bisogno di un cambiamento di tendenza. E non una lieve virata tra qualche anno, serve un inversione di rotta e serve adesso perché il proibizionismo continua a mietere le sue vittime.

Lorenzo - studente del Virgilio.[da .0ic]

martedì, maggio 15, 2007

Nostalghia ;-p




Questo video saltato fuori dallo scrigno di YouTube è stato per me una sorpresa, un amico me lo ha segnalato e vorrei ora omaggiare quei tempi, con cui guardo con nostalghia e tanta simpatia.
Mi ricorda i tempi in cui arrivai a Trento, con le cassettine nell'autoradio del tipo Italian Posse, Onda Rossa Posse e via dicendo.
Ero già in ritardo, era già il 1995 e da lì a poco uscì Conflitto - il disco di Assalti Frontali che più mi ha "segnato" - e le posse già stavano perdendo la dimensione molto roots e genuina che le caratterizzò quando esplosero come fenomeno. Ma anche se avevo sentito quei pezzi alscoltandoli e riascoltandoli passò ancora parecchio tempo prima che uscissero dalle nostre hit.

Le nostre hit, di quella banda che si formò convivendo nello stesso studentato al primo anno d'università che oggi è il C.S.O. Bruno, un'esperienza bella e piena che spero potrà ancora per molto ravvivare la vita trentina. E per tornare al old school italyco delle posse, dedico il video all'esperienza viva del Bruno che ha riaperto le porte del vecchio studentato...

Buon ascolto e buona visione! Isola Posse All Star!

Quel divino ministero per gli affari della vita terrena

di Toni Negri (il manifesto 09.05.07)

Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo di Giorgio Agamben (Neri Pozza, pp. 288, euro 30. Ne ha già scritto Marco Pacioni su Alias del 28 Aprile) è da considerare uno degli degli intermezzi fra l'antropologia filosofica di Homo Sacer e un quarto volume, «dedicato alle forme di vita» e al chiarimento del «significato decisivo dell'inoperosità come prassi propriamente umana e politica», che non è ancora venuto alla luce, ma sul quale qui già si comincia a lavorare e che è annunciato come prossimo venturo. In questa serie, il secondo volume, nel quale era svolta una critica ravvicinata del potere statale moderno, era Stato di eccezione. Ora, Il regno e la gloria costituisce idealmente la seconda parte di questo volume di Homo Sacer. In realtà questo saggio racchiude due libri. Il primo (Il Regno) conduce a termine l'operazione iniziata dal filosofo tedesco Carl Schmitt di riduzione del politico a teologia politica, e perciò coerentemente si collega a Stato di eccezione, passando tuttavia dall'analisi sulla natura della sovranità a quella dell'esercizio del governo. La seconda parte (La Gloria) è invece un'analisi del «consenso nello Stato moderno», un fenomeno qui assunto in termini di storia sacra. E se nel passato, il consenso era inscritto nelle forme dell'«acclamazione» e dell'entusiasmo, oggi viene presentato nei termini dell'alienazione dei/nei regimi di opinione pubblica «democratica». Per questo tema e le sue caratteristiche, La Gloria andrebbe dunque collegata al libro su Auschwitz che, della serie Homo Sacer, rappresenta il terzo volume.

Genealogia dell'economico

Il regno e la gloria è un libro eccezionale di archeologia della politica moderna. Degno dei grandissimi scavi del «teologico-politico» iniziati nel '600 e proseguiti fino a Kantorowicz. Esattamente come avviene in quegli studi (a partire da Spinoza), esso si collega alla propria contemporaneità. Non a caso, archeologia, genealogia e critica si traducono qui in discorso politico. Quest'opera - nella linea diretta del radicalismo politico di Ag
amben - permette di toccarne alcuni elementi, sui quali discutere ed eventualmente segnalare accordo o disaccordo. Sia dunque permesso - piuttosto che raccontare che cosa ci sta dentro a questo inesauribile studio (fra l'altro, esso è copyleft, quindi leggibile e riproducibile in ogni forma) - definire criticamente un campo tematico critico che meglio permetta di discuterlo. Nellla prima parte del volume, quella del Regno, Agamben costruisce una configurazione genealogica, teologico-politica, dell'economico, in parallelo con quello che aveva fatto in Stato di eccezione, dove la figura teologico-politica era stata forgiata per rappresentare l'esercizio della violenza statuale. In questo libro, c'è un importante passo avanti, in particolare modo quando Agamben pone in stretta relazione economia, teologia politica e biopolitica. Ora, nota l'autore, a partire dalla Patristica cristiana l'economia si rappresenta come articolazione del biopolitico, laddove il linguaggio della «gestione della casa» è tradotto in chiave di definizione della Trinità, per l'ecclesia vivente. Oikonomia rappresenta, dunque, l'originale ricomposizione teologico-politica della vita nella divinità, o, meglio, l'articolazione della divinità nel biòs. Lo sviluppo di questa tesi è ricchissimo. Si potrebbe dire che, dopo aver distrutto ogni articolazione della violenza del politico moderno spingendone al limite massimo, estremo, la decisione (operazione compiuta in Stato di eccezione), qui Agamben mostra come l'economia divenga una semplice agenzia del potere teologico-politico: un esercizio, quindi, della violenza nella riproduzione mondana della vita sociale. Si badi bene, nell'economico, all'opposto di quanto avviene nel politico, quest'estrema forza può essere silenziosa, invisibile, infinitamente mediata. La «governamentalità» in atto è il luogo ed il dispositivo politico-teologico dell'intervento degli «angeli» (ministri, amministratori, poliziotti) nella vita sociale quand'essa sia prefigurata nel movimento e/o nell'immaginazione della divinità. Non di meno, anche a fronte del regime sincronico della decisione politica, l'economia agambeniana resta uno stato d'eccezione nel quotidiano.

Il soggetto perduto


Vorrei da subito notare che questo svuotamento del biopolitico economico è, come minimo, molto dubbio. Nel situazionismo (alle cui conclusioni politiche Agamben giunge tanto vicino), lo svuotamento di ogni articolazione del comando economico dentro l'assolutezza del dominio politico non perde, in ogni caso, il senso della denuncia dello sfruttamento. Il soggetto, per quanto schiacciato, c'era ancora - al limite, al margine, là in fondo o dietro la porta... ma c'era. D'altra parte, non è neppure detto che l'«angelogia» debba darsi in questa forma univoca. Per esempio, l'angelogia biblica non toglie a Giobbe la capacità di esistere né la volontà di resistere - anche se Geova concede
all'angelo Satana terribili poteri. Qui invece il riassorbimento teologico dell'economia - la considerazione della Divinità, dello Stato e del Capitale, ovvero quella trinità delle R che il poeta tedesco Heinrich Heine insultava: Richelieu, Robespierre e Rothschild - crea un quadro dove l'azione del potere si esprime omologamente. Dove sono i sudditi, ovvero i soggetti economici? Non penso che Agamben ritenga che lavorare costituisca i soggetti immediatamente e necessariamente come sudditi (se così fosse, una concezione economicista della società non sarebbe mai stata tanto decisamente affermata). E allora, dove vuole condurci? In un mondo nel quale la singolarità non sia in nessun caso definibile come lavoro (e tanto meno come rifiuto del lavoro), né come resistenza (e tanto meno come lotta)? Senza essere teologi, si può benissimo pensare che lo sforzo di comprendere la produzione (la creazione) dentro il circolo teologico, potrebbe anche restituirla non come impotenza e sterilità ma come resistenza ed attività. La «teologia della liberazione» ha sfiorato questa verità dell'ateismo.

Un estremismo angelico

Nell'Homo Sacer c'era un'apologia negativa del potere. Ne veniva fuori che il salariato povero non trovasse sbocco per la sua azione produttiva ed il proletario non riuscisse a rendere consistente la resistenza contro la sovranità. Ora, ne Il Regno, questo Uno del potere si divide in due: ovvero, nell'insieme della strategia agambeniana, da un lato si presenta lo «stato di eccezione», dall'altro «il regno»; da un lato «il campo» e dall'altro «la gloria»; da un lato il Sovrano, dall'altro il governo. Nello Stato di eccezione, l'apologia politica dell'assoluto del potere si poteva leggere in termini schmittiani esasperati. Nell'economia di ec
cezione, questo estremismo non è confermato e mediazione angelica e potenze di governo entrano in gioco. E se lo «Stato di eccezione politico», dentro quella sua eccedenza di decisione, negava il «nemico», nello «stato di eccezione economico» l'attore, il soggetto produttivo, per quanto assoggettati, non possono non esserci: economia e sfruttamento mal (o forse mai) si separano. Ho l'impressione, insomma, che, malgrado il mutamento dei presupposti, Agamben non riesca a modificare le regole del gioco. Come accadeva in Stato di eccezione, ne Il Regno, l'economico è proiettato su una tela, sulla quale non c'è soggetto produttore, non c'è operaio - esistono solo il suddito e il macchinico, l'alienazione pura. Come potrà quindi funzionare l'economia senza il soggetto produttore? L'archeologia non può confonderne il concetto.

La violenza dell'accumulazione

Nell'economia capitalistica, a quell'atto politico eccessivo e fondante che è l'eccezione, corrisponde l'atto dell'accumulazione originaria, della presa di possesso. Ora, quale che sia la violenza con la quale quell'atto originario sia stato compiuto, resta il fatto che l'«accumulazione primitiva», il porre il «possesso» alla base del «diritto», sono operazioni che, lungi dal ricomporre l'unità del potere, lo separano. «Espropriazione primitiva significa separa
zione del lavoratore e degli strumenti di lavoro», scrive Marx, «inaugurando», per così dire, la lotta di classe. Qui non c'è più né unità né trinità: c'è solo il due. E poi viene la Gloria. I sudditi cantano il potere: Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat. L'unica mediazione che il potere concede è allora quella di stargli all'interno come qualcosa che esso raccoglie come sua propria espressione dialettica, meglio, economica. Sembra che Agamben ripeta qui, nella denuncia dell'entusiasmo teologico, la critica dell'entusiasmo aufklärische di Adorno e Horkheimer. Debord faceva più o meno lo stesso ragionamento, vedeva nella luce del potere infrangersi ogni capacità di resistenza ed ogni condizione alienata diventare, per così dire, normale. E, tuttavia, muovendosi sul terreno della dialettica negativa, egli immaginava (a livello di totalità) l'insorgenza improvvisa ed inattesa della resistenza assoluta, l'esplosione della negazione. Nella teologia politica di Agamben qualsiasi tipo di resistenza viene invece completamente meno. Si intravede qui ancora il riflesso - speriamo per l'ultima volta - di quella benjaminiana Teoria della violenza, che nel suo apocalittico movimento ha fatto tanti danni.

La profanazione del nulla


Come si esce da questa situazione? Dopo che lo Stato di eccezione ha invaso anche lo spazio della riproduzione della vita, dell'economico e, soprattutto, quello del suo pubblico? Attendiamo il quarto volume agambeniano per poterlo meglio comprendere, anche se ci sono accenni nel volume. È l'inoperosità, quello che Agamben ci promette come dispositivo etico per liberarsi dalla schiavitù totalitaria di un potere sempre eccezionale. È una resistenza che s'interiorizza ma non si realizza mai in opere concrete, che diverrebbero (insinua Agamben) esse stesse strumenti del biopotere. Ma perché la Gelassenheit heideggeriana (che qui tanto risuona) non potrebbe collegarsi a - meglio, trasmutare in - un dispositivo di valore? Per ora, comunque, l'introduzione all'inoperosità sembra consistere solo nella profanazione del nulla.
Ciò detto, restano due acquisizioni genealogiche, definitive per la teoria politica, al termine di questo libro. La prima è che «il vero problema, l'arcano centrale della politica non è la sovranità, ma il governo, non è Dio, ma l'angelo, non è il re, ma il ministro, non è la legge, ma la polizia - ovvero, la macchina governamentale che essi formano e mantengono in movimento». Vale a dire che l'eccezione che sta alla base di ogni potere, meglio è prenderla «in movimento». La seconda, definitiva acquisizione è che l'economia classica, ovvero il liberalismo (insomma, la teoria economica che si forma tra Quesnay e Adam Smith), usano un modello provvidenziale assoluto. Di conseguenza, Agamben può concludere: «in questa immagine grandiosa, in cui il mondo creato da Dio si identifica col mondo senza Dio e contingenza e necessità, libertà e servitù sfumano l'una nell'altra, il centro glorioso della macchina governamentale appare in piena luce. La modernità, togliendo Dio dal mondo, non soltanto non è uscita dalla teologia, ma non ha fatto,in un certo senso, che portare a compimento il progetto dell'oikonomia provvidenziale». Feuerbach e Marx non l'avevano detto meglio: per distruggere lo stato dei padroni bisognava distruggere il loro Dio. Sia l'Uno che il Trino. Aspettiamo Agamben ad un definitivo passaggio critico: ci dica infine chi è il soggetto che soffre, vive, muore, resuscita, vince dentro questa lotta di liberazione e dove sta (se ancora ci sta) questo soggetto nel teologico-politico. Un auspicio sembra possibile: il rinnovamento del teologico-politico alla maniera spinoziana. Agamben ne sarebbe capace.

mercoledì, maggio 09, 2007

Ah, le France...

Ah, la Francia... tante volte guardando alla Francia abbiamo spinto il nostro morale un pò più in alto, non tanto per le dinamiche della politica istituzionale – che sono messin forse peggio che in Italya, con un numero infinito di piccoli partitini e leader della sinistra “estrema” – ma peri forti movimenti sociali che più o meno regolarmente prendono forma al di là delle Alpi. Basti pensare al movimento contro il contratto di lavoro capestro sul primo impiego, alla rivoltra nelle banlieus, per arrivare a ritroso al movimento dei lavoratori intermittenti, ai sans papier...

Con meno convinzione io guardai alla Francia quando il referendum sulla Costituzione Europea fu bocciato, mettendo insieme le resistenze dei sovranisti di destra e di sinistra. Ora, dopo aver fatto sperare in una prima donna Presidente della Repubblica, ci ritroviamo con Sarkòzy – ex torvo ministro degli interni – eletto e il nostro morale rotola rotola sempre più giù. Perché? Perché la sua elezione allontana e sprofonda l’idea d’Europa come entità forte su cui giocare di sponda con sempre maggiori rivendicazioni, mentre si fa largo l’Europa rozza, liberista, atlantista e – aihmè! – cristiana. Sarà un Europa ad uso e consumo degli stati nazione che la compongono e dei loro interessi, mentre io – ed altri, of course – credo che l’Europa dovrebbe essere attenta ai bisogni dei cittadini europei e non delle élite nazionali.


Vabbé, prendiamo fiato e quanto meno continuiamo a sognare nelle nostre teste l’Europa che vorremmo.

NO ALL'EUROPA STATO DI POLIZIA!


Dalla lista neurogreen giro questa segnalazione che non fa presagire nulla di buono in vista dell'antiG8 in Germany... la polizia, manco a dirlo, tutta uguale...



La polizia federale tedesca ha fatto irruzione stamane nei centrisociali e negli uffici dove sono alloggiate le strutture politiche einformazionali di dissent e interventionist left le due retiprincipali che stanno organizzando la logistica delle proteste controil vertice G8 di Rostock-Heiligendamm. Fra gli obiettivi i centrisociali Bethanien di Berlino e Rote Flora di Amburgo (converge centerper il block g8). Molti degli spazi colpiti partecipanoall'euromayday.Il mandato recita l'articolo 129a "organizzazione terrorista perimpedire lo svolgimento del G8". Solo il 2% delle perquisizioniintentate in base a tale articolo sono risultate in condanne penali.L'intento persecutorio è evidente. Il server dove è ospitatoindymedia.de e gipfelsoli.org è stato sequestrato. Stanno cercando diattentare all'infrastruttura di comunicazione che ha già resopossibile una mobilitazione in Germania senza precedenti e chepreannuncia unapartecipazione gigantesca da Est e Ovest alle proteste per bloccare ilG8. Mobilitiamoci contro grave atto autoritario che si inserisce nellarecente sequela di aggressioni securitarie agli spazi sociali daCopenhagen a Oslo, da Trento a Salonicco.




lunedì, maggio 07, 2007

Usciamo dal vicolo cieco!

E' uscito pochi giorni dopo la MayDay un deciso e intenso intervento di sergio Bologna dal titolo Uscire dal vicolo cieco! che prova a intuire una via d'uscita dal dilagare di condizioni di vita indegne, per rilanciare una lotta nei confronti della precarietà. Una lotta da rimettere in piedi dopo aver sgombrato dal campo le tante novelle dell'intellighenzia di sinistra - che si dica moderata o estrema - sul lavoro dei nostri tempi e su quel fenomeno che chiamiamo - anche lor signori, dopo anni di battage dei movimenti a nominare questo fenomeno sociale - precarietà. Bologna cerca di costruire un ragionamento che segue le tappe di quello che fu il sistema di pensiero dell'operaismo - lontano da attenzioni modaiole - messo alla prova con le condizioni socioeconomiche del postfordismo. Uno ad uno cadono tutti i cardini dell'opposizione lavorista alla precarietà, che siano di provenienza partitica, sindacale o anche di movimenti - di parti di movimenti.

Bologna ci racconta una nuova storia, una rappresentazione della precarietà che diverge da quella diffusa dai sindacati in questi anni, che al contrario con le loro politiche sembrano aver alimentato la caduta della dignità del lavoro in Italya: alimentando un'idea oramai diffusa, o meglio "inoculata" nelle menti dei precari per cui la loro condizione non dipende da rapporti di forza e contrattazione (come per definizione è per qualsiasi rapporto di lavoro) ma da una condizione generale ed endemica, caricando sulle spalle dei precari tutto il peso di non sentirsi all'altezza e di illudersi che la "formazione" possa essere una via di fuga.

Essendo abbastanza lungo non posto direttamente l'intervento nel blog, lo potete trovare in uno dei blog linkati di seguito.

http://www.humanitech.it/

http://www.salgalaluna.com/?p=214

Con la promessa, da parte mia, di tornarci.

venerdì, maggio 04, 2007

Sacrificial Wolfie

di Naomi Klain (da nologo.org)

It's not the act itself, it's the hypocrisy. That's the line on Paul
Wolfowitz, coming from editorial pages around the world. It's neither: not the act (disregarding the rules to get his girlfriend a pay raise) nor the hypocrisy (the fact that Wolfowitz's mission as World Bank president is fighting for "good governance").First, let's dispense with the supposed hypocrisy problem. "Who wants to be lectured on corruption by someone telling them to 'do as I say, not as I do'?" asked one journalist. No one, of course. But that's a pretty good description of the game of one-way strip poker that is our global trade system, in which the United States and Europe–via the World Bank, the International Monetary Fund and the World Trade Organization–tell the developing world, "You take down your trade barriers and we'll keep ours up." From farm subsidies to the Dubai Ports World scandal, hypocrisy is our economic order's guiding principle.

Wolfowitz's only crime was taking his institution's international posture
to heart. The fact that he has responded to the scandal by hiring a celebrity lawyer and shopping for a leadership "coach" is just more evidence that he has fully absorbed the World Bank way: When in doubt, blow the budget on overpriced consultants and call it aid. The more serious lie at the center of the controversy is the implication that the World Bank was an institution with impeccable ethical credentials–until, according to forty-two former Bank executives, its credibility was "fatally compromised" by Wolfowitz. (Many American liberals have seized on this fairy tale, addicted to the fleeting rush that comes from forcing neocons to resign.) The truth is that the bank's credibility was fatally compromised when it forced school fees on students in Ghana in exchange for a loan; when it demanded that Tanzania privatize its water system; when it made telecom privatization a condition of aid for Hurricane Mitch; when it demanded labor "flexibility" in the aftermath of the Asian tsunami in Sri Lanka; when it pushed for eliminating food subsidies in post-invasion Iraq. Ecuadoreans care little about Wolfowitz's girlfriend; more pressing is that in 2005, the Bank withheld a promised $100 million after the country dared to spend a portion of its oil revenues on health and education. Some antipoverty organization.

But the area where the World Bank has the most tenuous claim to moral
authority is in the fight against corruption. Almost everywhere that mass state pillage has taken place over the past four decades, the Bank and the IMF have been first on the scene of the crime. And no, they have not been looking the other way as the locals lined their pockets; they have been writing the ground rules for the theft and yelling, "Faster, please!"–a process known as rapid-fire shock therapy. Russia under the leadership of the recently departed Boris Yeltsin was a case in point. Beginning in 1990, the Bank led the charge for the former Soviet Union to impose immediately what it called "radical reform." When Mikhail Gorbachev refused to go along, Yeltsin stepped up. This bulldozer of a man would not let anything or anyone stand in the way of the Washington-authored program, including Russia's elected politicians. After he ordered army tanks to open fire on demonstrators in October 1993, killing hundreds and leaving the Parliament blackened by flames, the stage was set for the fire-sale privatizations of Russia's most precious state assets to the so-called oligarchs. Of course, the Bank was there. Of the democracy-free lawmaking frenzy that followed Yeltsin's coup, Charles Blitzer, the World Bank's chief economist on Russia, told the Wall Street Journal, "I've never had so much fun in my life."

When Yeltsin left office, his family had become inexplicably wealthy,
while several of his deputies were enmeshed in bribery scandals. These incidents were reported on in the West, as they always are, as unfortunate local embellishments on an otherwise ethical economic modernization project. In fact, corruption was embedded in the very idea of shock therapy. The whirlwind speed of change was crucial to overcoming the widespread rejection of the reforms, but it also meant that by definition there could be no oversight. Moreover, the payoffs for local officials were an indispensable incentive for Russia's apparatchiks to create the wide-open market Washington was demanding. The bottom line is that there is good reason that corruption has never been a high priority for the Bank and the IMF: Its officials understand that when enlisting politicians to advance an economic agenda guaranteed to win them furious enemies at home, there generally has to be a little in it for those politicians in bank accounts abroad.
Russia is far from unique: From Chile's dictator Augusto Pinochet, who accumulated more than 125 bank accounts while building the first neoliberal state, to Argentine President Carlos Menem, who drove a bright red Ferrari Testarossa while he liquidated his country, to Iraq's "missing billions" today, there is, in every country, a class of ambitious, bloody-minded politicians who are willing to act as Western subcontractors. They will take a fee, and that fee is called corruption–the silent but ever-present partner in the crusade to privatize the developing world.

The three main institutions at the heart of that crusade are in crisis–not
because of the small hypocrisies but because of the big ones. The WTO cannot get back on track, the IMF is going broke, displaced by Venezuela and China. And now the Bank is going down. The Financial Times reports that when World Bank managers dispensed advice, "they were now laughed at." Perhaps we should all laugh at the Bank. What we should absolutely not do, however, is participate in the effort to cleanse the Bank's ruinous history by repeating the absurd narrative that the reputation of an otherwise laudable antipoverty organization has been sullied by one man. The Bank understandably wants to throw Wolfowitz overboard. I say, Let the ship go down with the captain.

(immagine tratta da http://www.incisione.com)

martedì, maggio 01, 2007

1° maggio 1886

"Alla fine di marzo del 1886, il sindaco Carter Harrison annunciò che a partire dal 1° maggio tutti i dipendenti della città non avrebbero lavorato più di otto ore al giorno. "Primo maggio" divenne subito un motto nazionale, e le associazioni operaie di ogni credo ideologico si uniro per organizzare in quella data uno sciopero generale allo scopo di creare un'adesione sempre più ampia alla causa delle otto ore. All'alba di quel giorno tanto atteso non c'era una sola nuvola in cielo e l'aria era fresca. In tutto il paese trecentomila persone abbandonarono il proprio posto di lavoro rispondendo all'invito a sfilare. A Chicago, ottomila persona si riunirono per marciare entusiaste alla nella zona del centro. Poliziotti armati, Pinkerton e uomini della milizia si appostarono sui tetti; stando alle voci, 1350 uomini della Guardia nazionale erano pronti a intervenire dalle armerie della città. La famiglia Parsons, con Albert Junior di sei anni e Lulu Eda di quattro, marciava in testa al corteo. I bambini si stancarono subito, ma a turno Lucy e Albert li presero in braccio, e il gelato e l'acqua di seltz acquistati dagli ambulanti per strada servirono a reprimere gli sbadigli e ricaricarne le energie. L'Associazione dei cittadini, che nelle speranze di Albert avrebbe dato prova di un carattere progressivo, decise che il corteo siglava l'inizio della rivoluzione e che Chicago sarebbe potuto "cadere nelle mani del comunismo". Di conseguenza, i membri più in vista dell'associazione sa appostarono in punti strategici lungo il tragitto del corteo in modo che, al primo segnale di disordine, avrebbero potuto avvisare immediatamente la polizia. Ma ebbero ben poco da riferire. Oltre alle fanfare e ai canti festosi, al buon umore e ai visi sorridenti, al picnic di una folla allegra sul prato di Ogden Grove, alle manifestazioni sportive e ai discorsi infervorati."

Questa è un breve ricordo degli albori del 1° maggio, festa dei lavoratori. E' tratto da Haymarket, Chicago di Martin Duberman che già avevo segnalato sul blog.
La festa descritta si tramutò in qualcosa di molto più tragico alla sera di quel giorno, quando la polizia attaccò senza motivo gruppi di operai che uscivano dalla fabbrica McCornick per aderire allo sciopero. Da lì s'innescò una spirale folle che portò allo scoppio di una bomba in piazza di cui vennere accusati di essere i mandanti i principali leader del movimento operaio di Chicago, fra cui il citato Parsons.
Finì ancora peggio. Al termine del processo pendevano dalla corda 4 innocenti: Spies, Fischer, Engel, Parsons.