venerdì, agosto 29, 2008

[RK] Il debito

di Bifo - da rekombinant

Sull'Herald del 2 agosto un articolo di David Brooks intitolato "Missing Dean Acheson".
Sottotitolo: "Il nostro nuovo mondo pluralistico ha dato origine a una globosclerosi, incapacità di risolvere un problema dopo l'altro."
Il tema è quello della impossibilità di decidere. Brooks ricorda con nostalgia i bei tempi in cui il gruppo dirigente americano prendeva decisioni sulla base dei suoi interessi e li imponeva senza tante storie, con le buone o con le cattive (generalmente con le cattive) a tutto il mondo dominato.
A partire dagli anni '40 il potere è stato fortemente concentrato nelle mani della classe dirigente occidentale, ma oggi il potere è disperso. "La dispersione dovrebbe in teoria essere una buona cosa, scrive Brooks, ma in pratica multipolarità significa potere di veto sull'azione collettiva. In pratica questo nuovo mondo pluralistico ha dato origine alla globosclerosi, incapacità di risolvere un problema dopo l'altro."
Poi il caro David viene al punto che più lo addolora: "Questa settimana per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, un tentativo di liberalizzare il mercato globale è fallito. Il Doha round ha subito un collasso perché il governo indiano non voleva offendere i piccoli contadini in previsione delle prossime elezioni."
A David Brooks dei piccoli contadini indiani non gliene può fregare di meno. Il suo problema è la fine della capacità di decisione economica da parte delle grandi potenze occidentali.
In effetti, nel corso dell'estate 2008 abbiamo avuto tre segnali impressionanti della fine della decisione politica, della fine del globalismo e della fine dell'egemonia occidentale. Il G8, il WTO, ed infine la NATO sono entrati in una sorta di paralisi.

All'inizio di luglio c'è stato il summit G8 di Hokkaido. Posti di fronte alla necessità di decidere qualcosa a proposito di processi che avanzano con velocità impressionante e distruggono il futuro del pianeta e dell'umanità (cambiamento climatico, crisi alimentare, crisi finanziaria) i capi delle potenze mondiali hanno fatto come suol dirsi scena muta. Dovevano decidere qualcosa sul cambiamento climatico. La risoluzione finale relativa al cambiamento climatico dichiara semplicemente che nel 2050 le emissioni inquinanti saranno la metà di quelle attuali. Questo è quello che hanno stabilito i "Grandi". Come accadrà questo dimezzamento? Nessuno lo sa, nessuno lo ha detto. Ma tanto chi se ne frega, nel 2050 saremo tutti morti (probabilmente a causa del cambiamento climatico) quindi nessuno potrà recriminare.

Alla fine del mese di luglio c'è stato l'incontro di Ginevra del Doha Round del World trade organisation, dove è definitivamente fallito l'accordo sulla liberalizzazione del commercio internazionale - che per gli occidentali significa libertà di penetrazione nei mercati altrui e difesa protezionistica dei mercati propri. Il WTO, l'organismo contro cui ci battemmo a Seattle nel 1999, quando il movimento no-global venne alla luce del sole, sembra defunto, non certo per la forza dei movimenti di contestazione, ma a causa dell'emergere di contrasti d'interesse inconciliabili, per il rifiuto che le nuove potenze economiche oppongono al globalismo a senso unico occidentale.

Poi c'è stata la guerra in Georgia. La lunga onda dell'89 è finita, ora rifluisce.
La Nato non ha potuto difendere in nessuna maniera il suo alleato georgiano, dimostrando che la presidenza Bush ha portato il sistema militare americano all'impotenza.
E l'Unione europea si trova ormai spaccata in due: da una parte coloro che per timore dell'aggressività russa vogliono puntare le armi contro Mosca, e dall'altra coloro che per timore della potenza energetica russa vorrebbero trovare un compromesso.

Sullo sfondo, mentre i vertici globali falliscono uno dopo l'altro, la guerra euroasiatica tende a saldarsi in un fronte variegato nel quale l'occidente perde tutte le battaglie. La battaglia iraqena è ormai perduta da anni, la battaglia afghana sta diventando un inferno.
La battaglia iraniana volge a favore dell'oltranzismo nazional-islamista di Ahmadinejad e Khamenei, e la bomba sciita si delinea all'orizzonte mediorientale come una minaccia sempre meno immaginaria. La battaglia libanese diventa ogni giorno più pericolosa per Israele, con il saldarsi di un fronte Siria-Hezbollah.
E per finire, più spaventosa di tutte, la battaglia pakistana sta rivelandosi un rovescio per gli americani. Il generale protetto dalla Casa Bianca deve andarsene, e Ahmad Gul, l'uomo forte dell'esercito, dichiara che il principale nemico del paese sono gli Stati Uniti d'America (e l'India dove la mettiamo?). Ah... dimenticavo: Kim Iong Il ha appena comunicato che la Corea del Nord riprende la produzione della bomba nonostante i mezzi accordi otenuti dall'amministrazione Bush qualche emse fa. Il clan Bush è riuscito in un capolavoro impensabile: la più grande potenza del mondo si è messa progressivamente in condizione di minorità militare e di paralisi politica. Com'è potuto accadere?

Occorre una nuova descrizione del mondo. Quelle di cui disponiamo non valgono più.
Fino al 1989 disponevamo di una descrizione del mondo che si era formata nel secondo dopoguerra, e delineava il futuro sulla base dell'opposizione tra capitalismo e socialismo.
Nel 1989 quella descrizione bipolare venne sostituita con una descrizione unipolare, fondata sull'egemonia della NATO e sul predominio di un nuovo modello di espansione capitalista.
Per un ventennio l'egemonia militare ha messo l'occidente in una posizione di predominio, che permetteva alla popolazione americana di indebitarsi illimitatamente, di mantenere un tenore di vita largamente superiore alla forza produttiva americana, e di consumare le risorse senza alcuna considerazione per il futuro del pianeta né per la sopravvivenza della specie umana.

L'undici settembre del 2001, con un'azione di eccezionale efficacia strategica, qualcuno (poco mi importa qui sapere chi) ha spinto la più grande potenza militare di tutti i tempi a compiere una serie di azioni completamente insensate, autodistruttive, di cui sette anni dopo, si misurano a pieno gli effetti. Dopo 911 il presidente degli Stati Uniti, che qualche mese prima non conosceva il nome del presidente golpista del Pakistan, decideva di lanciare una guerra poi un'altra guerra, senza considerarne le implicazioni geopolitiche, culturali, religiose, militari. Io non so se questo sia dovuto all'ignoranza sbalorditiva del gruppo dirigente americano, o al cinismo di gruppi economici come la Halliburton la Bechtel la Texaco ecc che hanno considerato più importante il loro interesse economico immediato che la disfatta strategica del loro paese (non lo so nè qui mi interessa, per quanto si tratti di una questione appassionante). Mi limito a constatare l'evidenza: le guerre euroasiatiche scatenate dagli anglo-americani si sono risolte in una successione di sconfitte strategiche irrimediabili. L'egemonia militare dell'occidente è finita. Per sempre, credo.

Ma la sconfitta militare sta provocando una crisi di credibilità che ha risvolti finanziari ed economici. Il popolo americano ha potuto appropriarsi delle ricchezze del pianeta grazie all'(apparente) superiorità militare della NATO. Ora, dopo la disfatta strategica dell'occidente nel continente euroasiatico, il gioco è scoperto. L'occidente non dispone più della sua forza di ricatto. Ora il pianeta gli presenta il conto. Temo che sarà salato. Non si può più contare sul debito illimitato.

Il 15 agosto è uscito sulla Repubblica un articolo di Nouriel Roubini, professore alla Stern school della New York University. Titolo: "La tempesta perfetta".
Il quadro che descrive Roubini è quello di una recessione generalizzata, profonda, e di lungo periodo. Questo non è così grave, di recessioni ne abbiamo viste tante nel corso del novecento, prima o poi se ne esce. Il problema è che stavolta la recessione coincide con la fine del predominio occidentale sul pianeta.
L'occidente può accettare un ridimensionamento, che significa prima di tutto una riduzione del consumo energetico, e del consumo in generale? Gli americani accetteranno di rinunciare al privilegio economico e finanziario di cui hanno goduto negli ultimi venti anni? Saranno capaci di farlo?

Dopo il crollo del sistema di credito immobiliare, si sta aprendo il problema delle carte di credito. Dopo la bolla dei mutui sulla casa, è sul punto di esplodere anche la bolla dell'indebitamento privato . Mi pare che qui ci sia un nucleo essenziale della crisi finanziaria che si sta trasformando in recessione di lungo periodo: la fine della possibilità di indebitarsi indefinitamente puntando una rivoltella alla tempia del creditore. Ora il creditore ha scoperto che la rivoltella è scarica.
Accetterà l'occidente, accetterà il popolo americano di pagare il suo debito?
Il debito. Ciò che dobbiamo agli altri.
Oppure sceglierà di usare l'arma estrema, la violenza impensabile, per riaffermare il proprio diritto di depredare il futuro di tutti? Il pericolo che si delinea all'orizzonte è senza precedenti. Non è vero che sia tornata la guerra fredda. Magari.
La Guerra fredda era fredda perché gli americani non avevano l'acqua alla gola e perché l'Unione sovietica era un sistema totalitario, ma il gruppo dirigente del PCUS aveva una logica politica diversa da quella della mafia e del KGB coalizzati.

Foto di Marcio Eugenio [Small houses], con licenza Creative Commons da flickr

lunedì, agosto 25, 2008

Turbolence No. 4: 'Who can save us from the future?'

Today, the very act of thinking about the future has become a problem. What both capitalism and ‘really existing socialism’ had in common was the belief in a future where infinite happiness would spring from the infinite expansion of production: sacrifices made in the present could always be justified in terms of a brighter future. And now? The socialist future has been dead since the fall of the Berlin wall.

After that we seemed to live in a world where only the capitalist future existed (even when it was under attack). But now this future, too, is having its obituaries composed, and impending doom is the talk of the town. The ‘crisis of the future’ – that is, of our capacity to think about the future – is born out of these twin deaths: today it is easier to imagine the end of the world than the end of capitalism.


With this in mind we’ve assembled a collection of articles that, in different ways, speak to us about futures. As much as we didn’t want people’s ten-point programmes when, in June 2007 we asked ‘What would it mean to win?’, our interest here has nothing to do with futurology. There are no grand predictions. No imminent victory, because comfort-zone wishful thinking is the last thing anyone needs now; but no apocalyptic doom either. Neither are there any forward-view mirrors where capitalism recuperates everything and always gets the last laugh. We must have the modesty to recognise that the future is unknown, not because today is the end of everything or the beginning of everything else, but because today is where we are. What we do, what is done to us, and what we do with what is done to us, are what decide the way the dice will go. This requires the patient and attentive work of identifying openings, directions, tendencies, potentials, possibilities – all of which are things that amount to nothing if not acted upon – and of finding out new ways in which to think about the future.

Contents

Introduction: Present Tense, Future Conditional by Turbulence
Today I See the Future by Turbulence
1968 and Doors to New Worlds by John Holloway
Starvation Politics: From Ancient Egypt to the Present by George Caffentzis
Six Impossible Things Before Breakfast by The Free Association
Global Capitalism: Futures and Options by Christian Frings
The Measure of a Monster: Capital, Class, Competition and Finance by David Harvie Et tu Bertinotti? by Sandro Mezzadra, with an Introduction by Keir Milburn and Ben Trott
There is No Room for Futurology; History Will Decide by Felix Guattari, with an Introduction by Rodrigo Nunes and Ben Trott
This is Not My First Apocalypse by Fabian Frenzel and Octavia Raitt
The Movement is Dead, Long Live the Movement! by Tadzio Mueller
Network Politics for the 21st Century by Harry Halpin and Kay Summer


PDF available here.

To get hold of a copy, click here.

Inside art work by Octavia Raitt. Cover art by Kristyna Baczynski.

domenica, agosto 17, 2008

1971, Holland: Foucault vs Chomsky






Vedi anche sullo stesso dibattito Della natura umana in finoaquituttobene

martedì, agosto 12, 2008

Milano sotto l'expo

di Marco Philopat
da il manifesto - 9 agosto 2008

C'era una volta la Darsena, il porto milanese dove centinaia di barconi rifornivano giornalmente i cittadini con materie prime, viveri e manufatti. La Darsena era il fulcro di una fitta rete di canali che collegavano la città al bacino del lago Maggiore, attraverso il Ticino e il Naviglio Grande, e a quello del lago di Como con l'Adda e il canale della Martesana. In questo slargo acquatico artificiale costruito durante la dominazione spagnola, confluivano anche le acque di ben 19 fiumi o torrenti, tra cui l'Olona, il Seveso e il Lambro, che ancora oggi scorrono nel sottosuolo milanese. Un sistema di trasporto unico al mondo. A metà dell'Ottocento la Darsena era uno dei più funzionali e capienti porti italiani. 85.000 mila tonnellate di merci per 8300 imbarcazioni all'anno. La zona circostante, il quartiere Ticinese, era il centro degli scambi commerciali e culturali di Milano e per secoli il punto di approdo di milioni di bifolchi che tentavano la fortuna in città. I bifolchi, uomini grezzi che coltivavano la terra, erano naturalmente odiati dalla ricca e opulenta borghesia meneghina, e non trovando molto spazio all'interno delle mura spagnole concentravano le loro relazioni sociali attorno alla Darsena. Qui nel corso dei secoli si sono susseguiti i clochard più bizzarri, ogni genere di artista, dal più blasonato al fallito totale e i più orgogliosi rappresentanti della Ligera, la piccola mala locale con i suoi traffici facilitati dai numerosi passaggi sconosciuti nelle case forate tra il naviglio Grande e quello Pavese. Infatti secondo alcune leggende il quartiere era chiamato dei furmagiatt non solo per le tante botteghe per la produzione del formaggio, ma anche per i buchi nelle case dove poter trasportare e contrabbandare la merce.

Il Ticinese era anche un pullulare di poeti da strapazzo, ubriaconi visionari, attivisti politici e sobillatori anarchici. Le sorti di tale ciurma rispecchiavano gli alti e i bassi delle diverse fasi storiche della città e dei capricci dei suoi dominatori. Spagnoli, austriaci, il brevissimo periodo di esaltazione rivoluzionaria con i francesi e la restaurazione austriaca. Poi i carbonari, le Cinque Giornate, i garibaldini, i moti di piazza del 1898, la cosiddetta protesta dello stomaco e la strage di Bava Beccaris. Quella volta, i cannoni del generale spararono ai rivoltosi uccidendone più di settecento. Dopodiché nei dintorni della Darsena, nonostante guerre e crisi economiche, si respirò una certa aria di libertà fino agli anni di Mussolini, quando a quella marmaglia di bifolchi fu proibito di girare impunita lungo i canali dell'Amsterdam padana. Nell'ottobre del 1926 fu approvato il piano regolatore in cui era prevista la copertura dei navigli, che avvenne nel 1929. Da quel momento la Darsena e il suo popolo si accontentarono di fare scorrere le acque e i suoi tumulti nel triangolo delimitato dal naviglio Grande e da quello Pavese. Triangolo urbano che rimaneva di basilare importanza sociale, perché il suo vertice era situato alle Colonne di San Lorenzo, a due passi da Piazza del Duomo, mentre le sue lunghe braccia navigabili raggiungevano le periferie dell'estremo hinterland a sud ovest, da Baggio a Rozzano. Un percorso diretto dall'inferno periferico al paradiso del salotto cittadino. I bombardamenti della Seconda guerra mondiale sfiorarono il Ticinese che, anche se sfiancato dal terribile Ventennio, trovò la forza per coniare l'intramontabile ritornello ribelle di «ciao, bella, ciao». La parola d'ordine con cui i partigiani si facevano riconoscere dalla Dosolina dei navigli, l'ex bifolca della Valtellina, ex puttana per amore, esperta in contrabbando prima e in seguito in smazzo d'armi per i Gap...

Nel dopoguerra in Darsena rimasero le chiatte che trasportavano ghiaia e sabbia per la ricostruzione. Nessuno toccò più il microclima del Ticinese, almeno fino al termine degli anni settanta in cui, proprio in questo triangolo di mappa milanese, si concentrò un numero di sedi politiche extraparlamentari senza paragoni. Quasi 40 tra collettivi, comitati, redazioni, librerie e cooperative. Ma sappiamo come sono andate le cose nel decennio successivo, il riflusso guidato dai craxiani portò troppi ex operai a cimentarsi come bottegai del divertimento nel futuro luna park notturno lombardo. A quei tempi anch'io abitavo alla base periferica del triangolo, siccome non c'erano i mezzi prendevo la bicicletta, scavallavo un paio di ponti sul naviglio e alla fine dei conti facevo veloce ad arrivare in Darsena. Ricordo che cominciai ad appassionarmi al quartiere non solo per la presenza della Libreria Calusca e degli anarchici di via Conchetta che si stavano trasferendo in via Torricelli, ma anche grazie ad alcuni amici di Corsico, altro paese alla base del triangolo, che tenevano viva la mitologica epoca dei furmagiatt con i taxisti inesperti. Cioè si facevano portare davanti a un portone sul naviglio Grande. «Vado su a prendere i soldi dalla mamma» dicevano all'autista, poi ripercorrendo gli stessi buchi dei contrabbandieri e carbonari si ritrovavano in pochi passi dall'altra parte, sul naviglio Pavese e se non bastava sul Corso San Gottardo o ancora più in là, sulla ormai lontana via Pietro Custodi. Nella primavera del 1988 anarchici, comunisti, punk, cyberpunk, tifosi del Milan, motociclisti, artistoidi e clochard residenti allargarono la vecchia sede libertaria di via Conchetta inglobando nell'occupazione l'adiacente ristorante abbandonato, dove qualche anno prima andava a cenare il vertice del partito socialista. Nacque così, con vista sulla chiusa della conchetta, lungo il naviglio Pavese, il centro sociale autogestito Cox 18. In Darsena non si faceva più niente se non la fiera di Senigallia ogni sabato, tuttavia intorno ai mille locali che stavano trasformando la tipica cultura del dialogo tra le diversità in semplice cultura del profitto, vennero effettuate diverse occupazioni di centri sociali e case sfitte. Via Gola, lo Squott, la casa delle donne di via Gorizia, via Lagrange, via Torricelli e più avanti l'Orso.

Ancora una volta i bifolchi s'erano ritagliati dello spazio e un po' di ossigeno in quartiere.
Gli anni zero del duemila hanno portato la grande siccità. Al posto di capire l'ineguagliabile e storico laboratorio umano che si annida in Ticinese, gli amministratori cittadini hanno deciso di costruire un bel parcheggione al posto della Darsena e distruggere così uno dei più significativi siti della genialità e dell'efficienza milanese. Ma dalle viscere della terra sono spuntati fuori importanti reperti archeologici, così i lavori si sono bloccati... Se vi capita di fare un giro da quelle parti noterete una grande area abbandonata, sporca e maleodorante come una fogna a cielo aperto. Rovi, ortiche e ammassi di terra zozza nascondono le mura del 1600 rinvenute durante gli scavi per il parcheggio. Un cantiere bloccato da anni che si sta trasformando in una discarica in pieno centro città. Uno schifo tremendo.
«La Darsena è ferma all'archeologia, mura spagnole e conca di Leonardo. Ultimi segni del tempo: topi e punkabbestia. Il cantiere dei box è bloccato da un anno e mezzo, Comune e impresa non sono d'accordo su soldi e piani dell'autosilo (due o tre?)». Così scriveva Armando Stella sulle pagine del Corsera il 4 luglio scorso. A cosa si riferiva il giornalista quando parlava di topi è abbastanza chiaro, ma cosa intendeva a proposito dei punkabbestia? Oltre allo sclerotico stile conformista della borghesia nostrana nel definire i bifolchi d'ogni d'epoca al pari dei sorci, il giornalista tentava, malgrado l'impostazione, di denunciare lo sfacelo in atto presentando così il degrado in cui è caduta l'area dell'ex Darsena. Se avesse parlato con quei punkabbestia, avrebbe capito che sono gli stessi che occupano e gestiscono l'Approdo Caronte, le porte dell'inferno... Uno spazio piccolissimo appoggiato su ciò che rimane degli antichi moli della Darsena, e che tra l'altro rappresenta l'unico ostacolo al tunnel dell'orrore sub-umano che potrebbe scatenarsi da un momento all'altro in quel comatoso cantiere posizionato esattamente nel centro della movida milanesotta.

L'Approdo Caronte nasce circa otto anni fa, ma non si tratta di un'occupazione vera e propria, piuttosto di una normale entrata in un minuscolo pertugio urbano dimenticato dal dio denaro. È il casotto degli attrezzi del porto che fu, dove si depositavano martelli, corde, vanghe, scope e secchi di vernice. Sono tre mura addossate all'argine sud della Darsena, quello sulla via Gorizia. Un casotto che racchiude una stanza di quattro metri per dieci, al massimo dodici... La strada, che poi è un ponte sull'imbocco del naviglio Grande, corre ben al disopra del suo tetto catramato, per raggiungerlo è necessario scendere una scala diroccata in pietra, oppure utilizzare quella di ferro a pioli che porta sul tetto piatto a da lì scavalcare il muro di cemento per accedere al marciapiede della carreggiata. All'interno c'è una pedana che fa da palco con due grandi casse acustiche ai lati. All'entrata una tavola in legno per il bar restringe la stanza. Da tre anni, un gruppo di giovani con attitudine punk organizza concerti di hardcore con band da tutta Europa, ma anche mostre, serate letterarie e feste quasi tutte le sere, l'ingresso è sempre gratuito e il bere, comprato al discount, costa un quarto di come lo vende qualsiasi altro locale limitrofo. Soprattutto durante il week end, il posto e tutto l'antico molo circostante si riempiono di gente ben diversa da quella che cammina sopra le loro teste lungo la patinata viale Gorizia. Sul ponte si aggirano i giovani belli, ricchi e professionalmente inseriti sfoggiando lo stirato look dello show-room più in del momento. Su dieci giovani solo uno è l'altolocato, gli altri nove s'atteggiano tali ma in realtà sono bifolchi. Spremuti come limoni acerbi dall'industria pubblicitaria e dal suo enorme indotto, guadagnano bene, ma sono totalmente inconsapevoli di ciò che gli accadrà dopo i 35 anni, quando quell'unico altolocato gli scoreggerà in faccia.

Sotto il ponte, all'Approdo Caronte, i reietti, gli emarginati, ma anche tutti coloro che non sopportano più questa moda dell'apparire ciò che non si potrà mai essere... Bifolchi orgogliosi di esserlo... Infatti quando li vado a trovare due di loro, un ragazzo e una ragazza sui vent'anni, mi accolgono con grande disponibilità e la prima cosa che mi dicono è la loro provenienza: Corsico, il paese al bordo del solito triangolo... Lui mi racconta che una volta frequentavano i centri sociali, quello di via Gola e l'Orso, ma poi li hanno sgomberati e comunque non si sentivano troppo bene, preferivano provare una loro strada... «Siamo aperti a qualsiasi proposta che chiunque ci viene a fare. Insieme alla gente dei centri sociali abbiamo fatto il murales per Dax qui di fianco, poi ce l'hanno cancellato, l'abbiamo rifatto e ricancellato... Adesso non ci mettiamo più storie così direttamente politiche così ci lasciano fare, tanto qui non ci scende mai nessuno, è un posto di merda, un cesso... Va... Va com'è messa 'sta fogna...» Mi fa segno giù dai bordi dei moli, dove una volta scorreva l'acqua della Darsena... «Adesso è meglio, perché la settimana scorsa con i nostri amici senegalesi l'abbiamo ripulita un po', altrimenti non ti puoi immaginare lo schifo... Noi organizziamo soprattutto concerti hardcore, ma anche quell'ambiente si sta montando la testa, parlano sempre di musica. Al Caronte dobbiamo affrontare un sacco di problemi, i problemi della strada, perché qui ci viene di tutto...» «Sì, non è facile» interviene lei... «Tante volte non riesci a far rimanere calma la gente... Siamo un po' la carta moschicida per ogni caso umano che non ci sta più dentro là sopra...» «E il rapporto con i migranti come lo vivete?» le chiedo. «Per fortuna che ci sono! Con loro andiamo d'accordo, figurati che quando cuciniamo il barbecue abbiamo abolito la carne di maiale, così ci sono un sacco di sere che mangiamo tutti insieme intorno al fuoco... Poi due mesi fa, laggiù, c'era la vecchia baracca in latta del cantiere che era diventata la tana per un casino di scoppiati. Un pomeriggio con i magrebini e i senegalesi lo abbiamo raso al suolo a picconate... Ora va un po' meglio...» «Devo dirti» continua lei «che non si sta poi così male, qui sotto... Siamo ai bordi della Darsena, è bellissimo! Sono dei matti se ci fanno veramente il parcheggio...»

Quando esco dal Caronte percorro il molo e salgo le scale diroccate. Prima di raggiungere via Gorizia alzo lo sguardo sull'enorme cartello pubblicitario, 20 per 15, piazzato in mezzo limite del cantiere. Da una parte, quella davanti che vedono tutti, è sempre occupata dalle grandi multinazionali dell'intrattenimento o della moda, ora c'è la pubblicità del concerto di Madonna. Dall'altra parte, quella alle spalle del cantiere che vedono solo i frequentatori del Caronte, il Comune di Milano si è sprecato. Ha attaccato una foto seppiata con la scritta: «La Darsena porto commerciale di Milano - com'era negli anni 60 e 70». Nella foto si vede il porto ancora in piena attività, con le chiatte e i serbatoi di metallo per la ghiaia addossati alla via D'Annunzio... Ora tutto è cambiato e fa ancora più tristezza vedere come si è ridotta la Darsena. Però qualcosa è rimasto intatto. In basso a sinistra della foto, noto che il casotto degli attrezzi è lo stesso, posizionato nello stesso identico posto. E' l'Approdo Caronte, l'unica cosa sopravvissuta a questa Milano da Expo.

Ps. Mentre rileggevo l'articolo mi ha telefonato la ragazza che avevo intervistato. «Stamattina abbiamo trovato un foglio che ci avverte che il nostro spazio sarà abbattuto...». «Ma è firmato dal Comune?». «No, sembra quello della ditta che fa i lavori...» Per topi, bifolchi e punkabbestia è inutile sprecare carta bollata... L'ordine è stato eseguito la mattina del 4 agosto, l'Approdo Caronte non è sopravvissuto alla Milano da Expo.

Foto di mellowiz [Hanging out to dry], con licenza Creative Commons da flickr

giovedì, agosto 07, 2008

Millennio desiderante - Proposte per un pensiero politico postmoderno

di Benedetto Vecchi
da il manifesto - 6 agosto 2007

Viviamo in un mondo che ha conosciuto una radicale mutamento delle forme di vita, dei modi di produzione e delle forme politiche e di governo. Viviamo cioè in un'epoca postmoderna, che occorre interpretare per potere trasformare, mettendo a dura critica le categorie della modernità capitalista. È questo uno dei temi ricorrenti della Fabbrica di porcellana (Feltrinelli, pp. 156, euro 16, traduzione di Marcello Tarì), un volume che raccoglie dieci lezioni tenute da Toni Negri al Collège International de Philosophie di Parigi tra il 2004 e il 2005 e che costituiscono al tempo stesso una messa a fuoco dei nodi teorici emersi nella discussione attorno ai noti Impero e Moltitudine (entrambi pubblicati negli anni scorsi da Rizzoli), i due volumi scritti da Negri assieme a Michael Hardt. Ma la fabbrica di porcellana è da intendere anche come un deposito di materiali da sviluppare ulteriormente in un lavoro di ricerca più organico di quanto possa essere un ciclo seminariale. Eppure è proprio questo carattere «provvisorio», seminariale, dialogico che rende questo libro un utile strumento per comprendere meglio il laboratorio culturale di Toni Negri.

Un mondo unificato

In primo luogo la scelta della lezione come forma di socializzazione dei materiali teorici costringe l'autore a una continua precisazione dei concetti presentati. Così, l'illustrazione dell'impero deve tener presente delle critiche a cui è stato sottoposto tale concetto e anche degli eventi che hanno segnato il presente. L'attentato alle Torri gemelle e la strategia della guerra preventiva attuata dall'amministrazione statunitense diventano due momenti che cambiano il corso della storia, nel senso che più che rallentare il processo di costruzione dell'impero, l'accelerano, modificando tuttavia la sua traiettoria. Allo stesso modo le prove di guerra bassa intensità contro il movimento no-global, che ha avuto il suo apice a Genova nel 2001, non bloccano lo smottamento politico in America latina, continente che Negri guarda con attenzione per quel rapporto di condizionamento e di autonomia che i movimenti sociali hanno stabilito con i «governi amici». Infine, la perdurante recessione economica non coincide con la fine della globalizzazione neoliberista: semmai ne mette in evidenza come le situazioni di crisi abbiano sempre il carattere costituente di un nuovo ordine economico e politico. Ed è per questo motivo che l'autore non nega che continuino a vigere i rapporti di sfruttamento, appropriazione delle risorse, di creazione di nuovi mercati tipico dell'imperialismo. E tuttavia Negri sostiene che, a differenza del passato imperialista, nell'impero viene a scomparire la distinzione tra mondo capitalista e società non capitaliste. L'impero è dunque una realtà unificata caratterizzata dal capitalismo globale che, come in un work in progress, modifica incessantemente le gerarchie di poteri e una nuova divisione internazionale del lavoro al suo interno. Emerge così una lettura meno lineare dello sviluppo capitalistico. Individuare la tendenza in atto non significa quindi chiudere gli occhi sulle contraddizioni, le aporie, le controtendenza che caratterizzano i processi storici.

La tendenza dell'impero è sostenuta tuttavia non solo dalle logiche interne al capitale, ma anche da quella costellazione di singolarità, di forme di vita definita da Negri, è ormai noto, come moltitudine. Anche in questo caso, l'autore chiarisce che la discontinuità operata con la tradizione marxiana sulle classi sociali non va interpretata come una negazione dei rapporti di sfruttamento che qualificano il capitalismo contemporaneo. La moltitudine diviene quindi il termine per indicare tutte le figure lavorative presenti nella realtà contemporanea che ha come elemento dominante il lavoro cognitivo. Ma più che parlare di elemento dominante, credo sia più aderente parlare di una pluralità di forme lavorative accomunate tuttavia dalla centralità della dimensione relazionale, dialogica, della messa in comune del sapere e della conoscenza in quanto fattori innovativi del processo lavorativo: fattore strategico, quest'ultimo del capitalismo contemporaneo. La forza-lavoro deve cioè alimentare quella macchina dell'innovazione che è la cooperazione produttiva.

È però partendo da una torsione della categoria marxiana di lavoro vivo che Negri risponde alla critiche che i filosofi francesi Etienne Balibar e Pierre Macherey hanno rivolto al concetto di moltitudine. Il primo ha espresso il dubbio che la moltitudine possa essere presentata come forza antisistemica, mentre Macherey ha sostenuto che la moltitudine difficilmente possa passare all'azione proprio per quella resistenza che presenta a manifestarsi come soggetto collettivo. Negri sostiene invece che la moltitudine è lavoro vivo che esprime resistenza al capitalismo cognitivo. Da qui le lezioni dedicate al «politico», che spaziano da una rilettura critica del pensiero di Max Weber, Carl Schmitt, Lenin, Michael Foucalt e Gilles Deleuze.

La democrazia assoluta
Vengono così introdotti e approfonditi i temi del biopotere, della biopolitica e della governance, con interessanti incursioni negli studi postcoloniali, intesi in questo volume come griglia analitica con cui analizzare proprio i processo di «soggettivazione politica» della moltitudine. E se il biopotere è inteso come strategie di governo della vita da parte del potere costituito attraverso strategie di governance, la biopolitica diviene l'orizzonte in cui collocare l'azione della moltitudine nel suo processo di defezione e esodo dal potere costituito.
Un libro, dunque, che presente tutti i temi della riflessione di Toni Negri negli ultimi anni. E che ha l'indubbio pregio nel carattere seminariale che lo contraddistingue. La lezione che problematizza meglio di altre le tesi del filoso italiano è quella che porta il titolo «Dal diritto di resistenza al potere costituente». È noto che il diritto di resistenza è elemento fondante del pensiero politico moderno. Ma Negri non è un democratico liberale. La sua prospettiva è una democrazia radicale. Meglio: spinozianamente assoluta che ha nel potere costituente della moltitudine il suo viatico. È su questo crinale che l'insistenza sulla cesura del postmoderno acquista consistenza. La presa di congedo dal pensiero politico della modernità è quindi da intendere non tanto come la constatazione di una evoluzione della società capitalistica, quanto come l'affermarsi di un capitalismo che ha trasformato l'attività intellettuale in mezzo di produzione. Viviamo dunque in un'epoca che vede il capitale come elemento parassitario della cooperazione produttiva sviluppata dalla forza-lavoro, dato che il sapere e la riflessività, direbbe il sociologo tedesco Ulrich Beck, «appartiene» al singolo. La rilevanza del capitale finanziario non è quindi da intendere come «squilibrio temporaneo», ma come fattore qualificante l'attuale capitalismo. Il capitale perde così le caratteristiche produttive, imprenditoriali e si presenta come un elemento parassitario del lavoro vivo. Il puzzle del moderno va così in pezzi e con esso il pensiero politico moderno.

Il potere costituente
La moltitudine e il potere costituente sono quindi da intendere come le coordinate indispensabili per un'azione politica radicale che punti al superamento del capitalismo stesso. La moltitudine per la sua resistenza a qualsiasi processo di eterodirezione della volontà politica; il potere costituente come un potere che non si cristallizza in istituzioni basate sul meccanismo della rappresentanza, bensì su istituzioni che hanno la capacità di prendere decisioni, di attuarle e di modificare se stesse rispondendo così al mutare delle azioni della moltitudine. Una lezione, questa settima, squisitamente politica, quasi una proposta di vademecum per i movimenti sociali che da Seattle in poi hanno prospettato l'altro mondo possibile. Ma visto che ci troviamo di fronte a un work in progress, è indubbio che alcuni elementi problematici vanno comunque sottolineati. La fabbrica di porcellana, cioè la possibilità di un'azione politica radicale, deve misurarsi con una crisi del capitalismo che ha la capacità di trarre comunque linfa vitale proprio dai suoi limiti.

Così l’impero vede un doppio movimento: da una parte il ruolo dirimente di alcune economie e stati nazionali - gli Stati Uniti e la Cina, ad esempio -, dall’altra l’accresciuta influenza di organismi sovranazionali e regionali come l’Unione europea, l’Asean e il tanto bistrattato Nafta, l’accordo di libero commercio tra Canada Usa e Messico, e il nascente Mercosur in America latina. È quindi un impero che ha si nella governance il dispositivo per dirimere i conflitti geopolitici e geoeconomici al suo interno, delegittimando talvolta l’operato del Wto, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, cioè le istituzioni principe della «prima» globalizzazione. Inoltre, il carattere parassitario del capitale deve essere misurato alla luce di quel regime della proprietà intellettuale che garantisce innovazione e un ruolo non residuale al sistemadi macchine dell’organizzazione capitalistica della produzione. Per questo, il sistema della formazione, università compresa, diviene il campo dove l’addestramento di una forza-lavoro flessibile si accompagna a una «messa in produzione» di un sapere tecnico-scientifico mediata dal sistema di macchine. Ma ciò che è davvero rilevante è la crisi dei movimenti sociali. Crisi a geometria variabile, ovviamente. In America latina è difficile parlare di crisi radicale, ma in Europa, negli Stati Uniti e in Asia la recessione economica alimenta il lessico politico della destra populista. Allo stesso tempo, «l’unità d’azione della moltitudine corrisponde alla molteplicità delle espressioni di cui essa è capace» di cui parla Negri rimane imbrigliata in una ambivalenza che il conflitto non riesce a sciogliere. E forse ciò che indica l’autore come problema irrisolto - quello dell’organizzazione politica della moltitudine - è il nodo teorico su cui misurare le capacità di un pensiero politico che assume la cesura postmoderna come scommessa e parte del problema da risolvere.