Quando il 25 Aprile dell'anno in corso il Presidente della Repubblica Napolitano si recò a rendere omaggio alle vittime della Divisione Acqui trucidati a Cefalonia dalle truppe tedesche dopo l'armistizio dell'8 settembre la cosa non mi convinse fino in fondo.
Certo, ammetto con convinzione che sono altamente allergico alla retorica resistenziale che si è formata in quaranta-cinquant'anni di repubblica, una retorica tesa a cristallizzare donne, uomini e sacrifici in eroi (si, solo al maschile...) e a trasfigurare questa poliforme umanità in qualcosa di statico, freddo, qualcosa che è stato allontanato dalle esperienze quotidiane per smorzare la nostra empatia nei confronti di quell'umanità giovane e ribelle.
E la scelta di Napolitano mi sembrava contigua a questa retorica resistenziale disumanizzata, confermata dalla scelta di Cefalonia - Soldati prigionieri/già trucidati/nel mare e le cisterne/furon gettati. Quelli che han combattuto/e torneranno/la sorte dei compagni/vi narreranno - la cui importanza per la rappresentazione della Liberazione non va messa in dubbio, ma certo lascia un pò a disagio per una certa calcolata ed evidente strumentalità.
Si, perché Cefalonia è conosciuta, "commercializzata" da Il mandolino del Capitano Corelli (oltre che da una fiction mi pare...) e quindi buona alla "riappacificazione delle memorie", alla costruzione di una storia italica monolitica e in cui le differenze, le distinzioni scompaiono dileguate nella retorica che tira in ballo le "giovani generazioni" e altri espedienti retorici tesi allo stesso risultato: nessuna anomalia italyana, altro che guerra di liberazione+guerra civile+guerra rivoluzionaria.
L'Italia che ci racconta Napolitano - e non solo lui... - è tutt'altra, è l'Italia dell'esercito fatto dagli "italiani brava geente" e come tale va revisionata la storia della resistenza, per rendere omaggio all'esercito italiano oggi non poi molto amato visto le scorribande armi in pugno in giro per il mondo. Questo mio sentimento di diffidenza verso la commemorazione presidenziale del 25 Aprile viene a galla solo oggi poiché - per altri motivi - mi è capitata sotto gli occhi una lettera pubblicata sulla rivista Camicia Rossa (la rivista dell'Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini).
Mi sembra chiarisca meglio di come spiego io il punto della questione. E' per me una questione importante anche perché le mie "radici" nella vicenda richiamata nella lettera affondano le loro più profonde punte, nell'esperienza della Divisione Partigiana Garibaldi.
L’incontro del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con le delegazioni delle associazioni combattentistiche e d’arma alla vigilia del 25 Aprile o la visita a Cefalonia, il giorno della ricorrenza della Liberazione, potevano essere l’occasione propizia –purtroppo non lo è stata - per far giustizia di una dimenticanza durata oltre sessant’anni. Mi riferisco alla vicenda, nel quadro della Resistenza dei militari italiani all’estero all’indomani dell’8 settembre ’43, delle divisioni “Taurninense” e “Venezia” divenute il 2 dicembre di quello stesso anno “Garibaldi” che, è bene sempre precisare e ricordare, fu italiana e partigiana allo stesso tempo, si batté duramente contro i tedeschi ed i loro alleati in Montenegro, Bosnia, Erzegovina, Serbia, Sangiaccato, lasciando sul campo in diciotto mesi di guerriglia oltre 8.000 tra morti accertati e dispersi. Fu unica grande unità dell’Esercito italiano all’estero che rimase tale pur alleandosi con i partigiani titini e da questi operativamente dipendente, unica a rientrare in Italia alla fine della seconda guerra mondiale, decimata ma in armi ed efficiente.
Per l’onore d’Italia, è stato giustamente scritto, i militari italiani della “Garibaldi” disobbedendo agli ordini superiori non accettarono la resa e decisero volontariamente di continuare la guerra a fianco di chi combatteva il nazismo, lottarono in terra ostile, sconosciuta, difficile e le loro peripezie sono state raccontate in memorie, diari, romanzi, e in qualche libro. Ma di loro nessuno si è più di tanto accorto, né gli accademici, né i giornalisti, né i mezzi di comunicazione, né i politici. Perché? Qualcuno ha scritto che si è trattato di una ‘strana’ divisione: aveva combattuto con i partigiani di Tito, portava il fazzoletto rosso come simbolo garibaldino, ma figurava nei resoconti di molta parte della stampa come la divisione dei “partigiani del re” o dei partigiani con le stellette. Chi ha sospettato, soprattutto negli ambienti militari, una scelta ideologica dei soldati e ufficiali delle divisioni “Taurinense” e “Venezia” all’8 settembre, sbagliava: la loro fu scelta di campo, non di parte.
La nostra storica Associazione che accoglie, quali garibaldini soci effettivi, i reduci di quella formazione militare, si è molto adoperata, soprattutto attraverso questa rivista attraverso appelli e memoriali, a sollecitare un giusto riconoscimento, senza effetti di sorta.
Solo Cefalonia ha avuto risalto, ma non può essere considerata solo la Divisione “Acqui”, eroica e sfortunata, il simbolo della Resistenza degli italiani all’estero. I sacrifici e le perdite dei garibaldini d’Jugoslavia sono altrettanto meritevoli: per illustrare queste ragioni il presidente Bortoletto ha chiesto udienza al Capo dello Stato ricordandogli che un altro Presidente, Sandro Pertini, inaugurò nell’83 un monumento ai caduti della “Garibaldi” a Pljevlja, in Montenegro, là dove caddero tanti italiani.
Qualche giorno fa parlando a telefono con l’anziano presidente della sezione di Genova dell’Anvrg prof. Domenico Misitano, che fu ufficiale della “Garibaldi”, percepivo tutto il disappunto e l’amarezza di un tenace combattente per la libertà per questa che lui giustamente ha chiamato “congiura del silenzio”, offesa alla memoria delle migliaia di giovani morti per la libertà di un popolo, quello jugoslavo, e per l’onore di un altro, quello italiano. E come lui gli altri reduci ancora in vita, anziani e spesso in precarie condizioni di salute, si appellano alle Istituzioni del nostro Paese perché il sacrificio di quei giovani, che non fu inutile ma di grande significato per la ricostruzione morale e politica dell’Italia, venga una buona volta valorizzato come si deve.
Sergio Goretti
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