mercoledì, novembre 28, 2007

Siamo tutti sospettati - Intervista a Giorgio Agamben a cura di Andrea Cortellessa

da La Stampa - 27 novembre 2007

Le statistiche dicono che i delitti effettivamente perpetrati diminuiscono eppure nell’opinione pubblica cresce un senso di insicurezza. Perché la questione sicurezza è oggi la più sentita?

«Come già lo Stato di eccezione, oggi la Sicurezza è divenuta paradigma di governo. Per primo Michel Foucault, nel suo corso al Collège de France del 1977-78, ha indagato le origini del concetto mostrando come esso nasca nella pratica di governo dei Fisiocratici, alla vigilia della Rivoluzione francese. Il problema erano le carestie, che sino ad allora i governanti si erano sforzati di prevenire; secondo Quesnay occorre invece quella che definisce appunto "Sicurezza": lasciare che le carestie avvengano per poi governarle nella direzione più opportuna. Allo stesso modo il discorso attuale sulla Sicurezza non è volto a prevenire attentati terroristici o altri disordini; esso ha in realtà funzioni di controllo a posteriori. Nell’inchiesta seguita ai disordini di Genova per il G8, un alto funzionario di polizia dichiarò che il Governo non voleva l’ordine, voleva piuttosto gestire il disordine. Le misure biometriche, come il controllo della retina introdotto alle frontiere degli Stati Uniti del quale ora si propone l’inasprimento, ereditano funzione e tipologia di pratiche introdotte nell’Ottocento per impedire la recidiva dei criminali: dalle foto segnaletiche alle impronte digitali. I governi sembrano considerare tutti i cittadini, insomma, come terroristi in potenza. Ma questi controlli non possono certo prevenire i delitti: possono semmai impedire che vengano ripetuti».

Tanto più inefficaci di fronte a un kamikaze. Che per definizione agisce una volta sola!
«Una democrazia che si riduca ad avere come unici paradigmi lo Stato di eccezione e la Sicurezza, non è più una democrazia. All’indomani della Seconda guerra mondiale politologi spregiudicati come Clinton Rossiter giunsero a dichiarare che per difendere la democrazia nessun sacrificio è abbastanza grande, compresa la sospensione della stessa democrazia. Così oggi l’ideologia della Sicurezza è volta a giustificare misure che, da un punto di vista giuridico, possono essere definite solo come barbare.»

Il delitto Reggiani a Roma ha avuto come conseguenza l’abbattimento di campi Rom e, di fatto, la messa in discussione del principio della libera circolazione delle persone, che è tra i fondamenti dell’Unione Europea, di cui la Romania fa parte a pieno titolo. Ma cosa pensare di provvedimenti del genere, che oltretutto lasciano all’opinione pubblica solo un giorno per riflettere?
«Il dato di fatto più preoccupante, di fronte a misure che violano i più elementari principi di diritto, è il silenzio dei giuristi. All’interno del pacchetto sulla Sicurezza annunciato ci sono disposizioni - come quelle nei confronti della pedofilia on line - che di fatto istituiscono il reato d’intenzione. Ma nella storia del diritto l’intenzione può costituire un’aggravante; non può essere mai un crimine in sé. È solo un esempio della barbarie giuridica cui siamo di fronte: abbiamo assistito a dibattiti sull’opportunità o meno di praticare la tortura. Se uno storico confrontasse i dispositivi di legge esistenti durante il Fascismo e quelli in vigore oggi, ho paura che dovrebbe concludere a sfavore del presente. Sono ancora vigenti leggi, emanate durante i cosiddetti anni di piombo, che vietano di ospitare una persona in casa propria senza denunciarne la presenza all’autorità di polizia entro ventiquattro ore. Norma che nessuno applica, e della quale la maggior parte delle persone neppure è a conoscenza; ma che punisce tale comportamento con un minimo di sei mesi di reclusione!»

Questo stato di cose deforma anche la nostra percezione del tempo. Sia i controlli proposti come preventivi e invece tardivi, sia l’intenzione sessuale che al contrario punisce reati non ancora commessi (così realizzando un racconto di Philip K. Dick portato al cinema da Spielberg), istituiscono un falso presente. Non crede sia entrato in crisi l’unico fra i valori della Rivoluzione francese che sembrava ancora avere un qualche appeal, e cioè quello della Libertà?
«Questo in larga misura è già un dato di fatto. Le limitazioni della libertà che è disposto ad accettare oggi il cittadino dei paesi cosiddetti democratici sono incredibilmente più ampie di quelle che avrebbe accettato solo vent’anni fa. Prendiamo il progetto di un archivio del DNA: una delle cose più aberranti, ma anche più irresponsabili, di questo famoso pacchetto Sicurezza. Fu l’accumulo di dati anagrafici a permettere ai nazisti, nei paesi occupati, di identificare e deportare gli ebrei. Possibile che non ci si chieda che cosa avverrà il giorno che un dittatore potrà disporre di un archivio genetico universale? Ma basta pensare a come sia passata l’idea che gli spazi pubblici siano costantemente monitorati da telecamere. Un ambiente simile non è una città, è l’interno di una prigione! Le ditte che fabbricano i dispositivi biometrici suggeriscono di istallarli nelle scuole elementari e nelle mense studentesche, in modo da abituare sin dall’infanzia a questo tipo di controlli. L’obiettivo è formare cittadini completamente privi di libertà e, ciò che è peggio, che non se ne rendono affatto conto.»

Tutto ciò in nome della democrazia. Mistificazione anzitutto linguistica, proprio come quella del 1984 di Orwell: Guerra è Pace, Schiavitù è Libertà. Parla chiaro la storia linguistica delle pratiche di guerra condotte negli ultimi quindici anni. In questo modo non le pare che la politica, intesa come dibattito delle opinioni, non abbia più alcuno spazio?
«Come le guerre vengono presentate come operazioni di polizia, così la democrazia diventa sinonimo di una mera pratica di governo dell’economia e della sicurezza. È quella che nel ‘700 si chiamava "scienza di polizia" per distinguerla dalla politica. Sempre più si afferma l’idea, equivalente a un vero e proprio suicidio del diritto, che sia possibile normare giuridicamente tutto, compreso ciò che riguarda l’etica, la religione e la sessualità. Una parte importante viene svolta dai media che, perdendo ogni funzione critica, sono sempre più a loro volta organo di governo».

lunedì, novembre 26, 2007

finalmente nessuno mi chiede di fare la "testuggine" - di Anna Simone

Sabato le cronache hanno registrato un corteo numeroso e rumoroso, colorato e determinato. La giornata contro la violenza sulle donne ha visto dunque il materializzarsi di un forte movimento che ci fa sperare bene per il futuro. La querelle su "uomini sì-uomini no" montata - in parte ad arte - nei giorni scorsi mi ha lasciato piuttosto freddo, ritengo infatti del tutto legittimo la richiesta fatti agli uomini di non partecipare e meno legittima la reazione di stizza di molti di questi: c'è spazio ogni giorno per contrastare il machismo da dentro la pancia del mostro. Così come mi è sembrata completamente giustificata la reazione decisa di un corteo che non aveva intenzione di cedere alle dirette televisive e ai commenti delle "politiche" la determinazione della propria identità.

Il contributo che segue è stato postato sulla mailing-list precog da Anna Simone e mi sembra bene esprima ciò che è successo sabato per le vie di Roma. (frnc)


Rosa, giallo, blu, celeste...no pink come pensate che siamo. Tutte, tante, colorate, felici di poterci abbracciare, convinte della scelta "separatista" che non abbiamo vissuto in quanto tale. Infatti, non si trattava di questo ma di ben altro. Diventare visibili, dire che ci siamo come movimento specifico e autonomo di contro-condotta.
E infatti la manifestazione è stata autonoma, autonoma dai partiti, autonoma dalle ministre che all'ultimo momento hanno cercato di prendersi la piazza mettendosi d'accordo con la 7, autonome da chi ci chiede di fare e compattare la "testuggine" mettendoci dietro, avanti o accanto, sole ma felici di esserlo perchè eravamo 150.000 mila e quando si elevava la nostravoce era sensuale, piacevole, bella, autonome da chi ci chiede di leggere dei testi piuttosto che degli altri, altrimenti non si sta nell'attempato star system di chi non ha più nulla da dirci, autonome da chi non ci ascolta incollandoci addosso gli stereotipi, autonome da chi ci stupra e ci violenta, autonome da chi ci vuole cucire addosso leggi che non vogliamo, autonome da tutto...

Non pink, ma gialle, rosse, verdi, brune, bionde, grigie, tutte bellissime! Soprattutto le ventenni minigonna, calze a righe e rabbia mista a gioia, divertimento e incazzature.
Loro ieri erano il nostro futuro, veloci hanno attaccato il palco della sette che non aveva rispettato gli accordi, li hanno costretti ad andarsene perchè noi, come recitava uno degli innumerevoli cartelli, "saremo pure galline, ma mai pollastrine", perchè noi non crediamo nè nello Stato, nè nelle donne che firmano il pacchetto sulla sicurezza. Applausi, commozione,
abbracci, un grido unanime si è elevato da Piazza Navona, "fuori le ministre, fuori il potere".
Le ragazze occupano il palco, la piazza applaude, le ministre se ne vanno, i giornalisti de la 7 chiedono l'intervento della polizia ma non riescono ad avvicinarsi. Ancora urla: "poliziotti che cè venite a fà, a casa ce sò i piatti da lavà". Accettano e non raggiungono il palco. Compagni di amiche e compagne venuti a vedere ridono, approvano e applaudono in silenzio, una volta tanto lontani dalle luci della ribalta...La gioia della piazza di nuovo nostra è immensa, contagiosa, viva come un grande amore.

E poi stupende le donne rom, le loro bambine, le loro adolescenti con lustrini e paiellettes che ballano la danza del ventre... e le donne marocchine, le metalmeccaniche...

No pink. Bionde, brune, grigie, rosse, tutte bellissime... I bigodini vanno molto di moda, una compagna sexy schoc si è fatta addirittura un'acconciatura di bigodini che mostra spavalda contro chi ci vuole "così" (mostra un'immagine di una bambola gonfiabile).

E poi nessuna bandiera... e ancora un urlo unanime, NO al pacchetto sicurezza, "chiediamo telecamere nell'ingresso di casa e ruspe per bonificare il bagno di casa dal macho" paraculano cartelli... Veltroni razzista... ma che cè famo de stò pacchetto... e innumerevoli altre.

Anche la prima pioggia ci ha aiutate. Senza di essa una compagna non avrebbe "ombrellettato" sapientemente la Prestigiacomo e i suoi Body Guard allampanati e palestrati. Ancora un coro unanime e sensuale da Corso Cavour: "Fuori, fuori"...
Le vecchie politically correct si incazzano e dicono: "siamo tutte donne, non dovevamo cacciarle", alcune si difendono e dicono che non è questo il punto, non è la donnità ad accomunarci, ma l'antifascismo di cui il primo anello è il patriarcato...E hanno ragione. Le vecchie si arrabbieranno anche durante la cacciata delle ministre Turco, Melandri etc. ma le ventenni grideranno, di nuovo a giusto titolo, "morte alle vecchie"...

Bellissimo, insomma. Sapevo che sarebbe stata grossa ma temevo nel solito serpentone anonimo e trasversale, un pò buonista e invece no. Le ventenni de "Le mele di Eva", tantissime dietro il loro sound con Donna Summer mi hanno insegnato che abbiamo un futuro, che il femminismo o il femminile (come vogliamo chiamarlo) non è morto, nè tantomeno alberga solo nei circoli delle élite intellettuali. Che è sì spostato sulla decostruzione della norma
eterosessuale, ma non per diventare "neutri" in un mondo di "neutri". Anche perchè laddove c'è il neutro c'è sempre il patriarcato e quindi il separatismo, quello vero...

Questo movimento c'è, è forte, bello, giovane... lasciamolo crescere e agire.
Il suo demone sensuale abbatterà ogni frontiera... anche quelle dell'identità.

giovedì, novembre 22, 2007

Quale futuro per i lavoratori della conoscenza?

Il 15 novembre scorso Esc Atelier e la Rete per l'autoformazione hanno organizzato un convegno a Roma dal titolo Quale futuro per i lavoratori della conoscenza? Precarietà, formazione, welfare in occasione della presentazione del libro Ceti medi senza futuro? di Sergio Bologna.

Interessante la partecipazione dell'autore accompagnata dalla presenza di Toni Negri, Mario Tronti, Massimo Paci, Benedetto Vecchi, Augusto Illuminati e molti altri a discutere di temi quanto mai attuali e scottanti.
Bè, per chi fosse interessato sul sito-archivio di Radio Radicale potete trovare la registrazione dell'intero convegno (qui).

25 Novembre 2007, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne

da maschileplurale

"La violenza contro le donne ci riguarda, prendiamo la parola come uomini”, così affermava l'appello che un anno fa ha raccolto centinaia di adesioni rilanciando una presa di parola pubblica maschile contro la violenza e dando vita a molte esperienze di scambio e confronto sia tra uomini, sia con le donne.
Oggi, contro la violenza sessuata non ci sono più soltanto le donne. E’ cresciuto nel nostro paese un impegno di uomini, singoli, gruppi e associazioni, contro la violenza sessuale e per un cambiamento culturale e sociale nei modelli maschili e nei rapporti tra i sessi. Una presa di coscienza maschile che però stenta a divenire visibile e a determinare scelte politiche e comportamenti coerenti. Troppo spesso la denuncia della violenza contro le donne da parte della politica e dei mezzi di informazione tende ad occultare questa necessità e veicola messaggi e valori ostili alla libertà delle persone di progettare la propria vita oltre gli stereotipi e le rappresentazioni dei ruoli sessuali, gerarchiche e fisse.

In vista della Giornata internazionale contro la violenza alle donne del 25 novembre, torniamo a chiedere agli uomini di assumersi le responsabilità e l’impegno per un cambiamento che riguardi la nostra vita quotidiana, le nostre famiglie, gli ambienti di lavoro e di studio. Il percorso che abbiamo fatto con altri uomini ci porta a dire che non basta essere genericamente contro la violenza: è necessario denunciarne le radici in una cultura condivisa e diffusa. Sentiamo il rischio che questa giornata si riduca a un rito pacificatore fine a se stesso, nascondendo la necessità di aprire un conflitto esplicito con luoghi comuni, pregiudizi e culture, complici della violenza o quantomeno suo retroterra naturale.


La violenza maschile contro le donne è un dato strutturale della nostra vita sociale, delle relazioni tra donne e uomini nelle nostre famiglie, nei luoghi di lavoro e di studio, nelle nostre città; dello stesso segno è la violenza che si dirige contro tutto ciò che non rientra nel tradizionale stereotipo di maschile/femminile, come la violenza omofoba. Per sradicare queste violenze, è necessario rompere con la cultura diffusa che le produce. Alimentare l’immagine di uno “stato di eccezione” che richieda provvedimenti di emergenza è un modo per allontanare la consapevolezza di questa realtà. Le ricerche e le statistiche evidenziano che nella stragrande maggioranza dei casi gli autori delle violenze sessuali e degli omicidi sono i partner, i familiari, gli ex, o i colleghi; mass media e rappresentanti politici continuano invece a rappresentare la violenza contro le donne come opera di stranieri e sconosciuti. In questo modo si occulta il fatto che la violenza contro le donne è trasversale alle culture e attraversa profondamente la nostra stessa società e gli stessi spazi domestici e familiari. A questo proposito, denunciamo l’uso strumentale di questi episodi per fomentare campagne mediatiche e politiche a sfondo xenofobo, che sottraggono responsabilità ai maschi italiani e aggiungono violenza a violenza, anziché aiutarci ad affrontare insieme i nodi di fondo della violenza maschile che attraversano le relazioni quotidiane.

La violenza maschile non è un “corpo estraneo” da espellere perché riguarda la nostra stessa cultura: crediamo che la xenofobia, la negazione della differenza, il ricorso alla violenza per imporsi, la difesa virile dell'italianità e l'ergersi muscoloso “a difesa delle proprie donne” siano parte dello stesso universo culturale maschilista in cui cresce anche la violenza contro le donne.
La violenza, inoltre, rimanda al rapporto tra potere, libertà e autonomia tra donne e uomini. Spesso le violenze sono la reazione a scelte autonome di determinazione, di crescita personale, di donne che si muovono con diritto da sole. Eppure le campagne contro la violenza tendono a riproporre un'immagine delle donne come soggetti deboli da porre sotto la tutela dello Stato. L’autonomia delle donne è per noi non una minaccia a cui reagire con violenza, ma un’opportunità. Come uomini abbiamo un grande guadagno possibile da un cambio di civiltà: una maggiore ricchezza e intensità nell’esperienza del nostro corpo, della nostra sessualità, del nostro desiderio, delle nostre emozioni; una nuova capacità di cura di sé, dei propri cari, dei propri figli; una qualità migliore delle relazioni, tra noi uomini e con le donne; una vita meno ossessionata dalla competizione, meno segnata dalla violenza; un mondo di donne e uomini più civile e pacifico, più capace di rispondere a una nuova domanda di senso che attraversa la vita di moltissimi uomini.

Donne e uomini contro la violenza. In occasione del 25 novembre si svolgeranno molte iniziative promosse da donne appartenenti a diverse culture politiche e a diversi livelli istituzionali. E’ stata anche indetta una manifestazione nazionale delle donne contro la violenza il 24 novembre a Roma. Il percorso collettivo che come uomini abbiamo vissuto fino ad oggi ci porta a non limitarci a solidarizzare con questa mobilitazione delle donne. Molti di noi si sono attivati con iniziative contro la violenza organizzate nelle diverse città italiane. Vogliamo contribuire con la nostra autonoma riflessione e domanda di cambiamento, ma vogliamo anche intrecciare con queste iniziative un dialogo che valorizzi il lavoro comune fatto e che vada oltre la giornata del 25 novembre creando occasioni di cambiamento di sé e delle relazioni sociali tra donne e uomini.

Chiamiamo tutti gli uomini a esprimersi, assumersi con noi la responsabilità di un impegno attivo per un cambiamento culturale che, crediamo, è l’unica condizione per contrastare la violenza ma anche un’occasione di libertà per noi uomini.

martedì, novembre 20, 2007

Quel patto di mutuo soccorso per la «classe creativa» è in rete - di Anna Curcio

da il manifesto - 14 novembre 2007

Ci sono figure del lavoro che rivelano la portata delle trasformazioni produttive avvenute nel sistema capitalistico; e ci sono esperienze organizzative che stanno sfidando le forme tradizionali della rappresentanza. Il variegato universo del «lavoro autonomo di seconda generazione» - a cui Sergio Bologna ha dedicato una nuova raccolta di scritti, Ceti medi senza futuro?, al centro del seminario «Quale futuro per i lavoratori della conoscenza?» che si terrà domani all'Università La Sapienza di Roma - è appunto tra questi. O almeno è questa la scommessa di Freelancers Union, organizzazione no-profit di New York che si è sviluppata all'interno della costellazione del lavoro «indipendente» statunitense (oltre il 30% della forza lavoro), offrendo a figure disperse nei mille rivoli della metropoli risorse organizzative e strumenti rivendicativi. La union si batte quindi per garantire le protezioni sociali a un «ceto medio» precarizzato e impoverito. Allo stesso tempo, fornisce strumenti di comunicazione e connessione, nonché svolge un ruolo di intermediazione con lo stato e le imprese. La Freelancer Union è dunque espressione dell'irreversibile crisi della rappresentanza. Tema che viene spesso affrontato quando viene svolge una critica agli orientamenti del labor movement e della sinistra americana. Il problema, dunque, è interrogare l'esperienza di chi tenta di andare oltre quella crisi, proponendo forme di autotuela e organizzazione che con la rappresentanza tradizionale hanno poco a che fare per analizzarne la ricchezza e le potenzialità, ma anche per segnalarne i limiti. Ne abbiamo discusso con Sara Horowitz, saggista e avvocata del lavoro, direttrice della union dei freelancers newyorchesi.

Nei decenni passati abbiamo assistito a grandi trasformazioni produttive, processi di individualizzazione e frammentazione della forza lavoro, mentre le organizzazioni tradizionali del labor movement sono in crisi. Può spiegarci come, in tale contesto, nasce l'esperienza di «Freelancers Union?»
Il modello di business che si è affermato negli Stati Uniti scarica la maggior parte degli oneri sui lavoratori. L'obiettivo che ci siamo prefissi è lo sviluppo di tutele per i lavoratori indipendenti e garantire la loro sicurezza economica.

Per dirla in altri termini, state sperimentando una forma organizzativa capace di innovare, o forse superare il sistema della rappresentanza. Quali sono gli strumenti d cui vi siete dotati?
Il primo passo da fare è la presa di coscienza che i lavoratori indipendenti sono una forza lavoro che hanno diritti negati. È un passaggio necessario, visto che la sinistra tradizionale americana continua a proporre un ritorno al sistema fordista per affrontare le sempre più pesanti condizioni di vita e lavoro degli «indipendenti» o di quella forza-lavoro che spesso in Europa chiamate precaria. Il passaggio successivo sta nel promuovere forme organizzative adeguate a figure lavorative con caratteristiche molto diverse da quelle che hanno invece costituito le organizzazioni sindacali tradizionali.
Sono cresciuta in una famiglia di sindacalisti e ho appreso dai miei genitori la difficoltà e l'importanza di «fare sindacato negli Stati Uniti». Oggi, tuttavia, le forme classiche dell'organizzazione sindacale sono superate. Nel vecchio modello produttivo gli uomini e le donne lavoravano in una spazio fisico - la fabbrica o l'ufficio - ben preciso. Il sindacato non doveva fare altro che andare lì e provare a organizzare i lavoratori. Adesso a New York molti lavoratori non vivono questa condizione. La nuova forza lavoro è atomizzata, individualizzata e frammentata. Abbiamo così cominciato a parlare tra di noi perché è meglio ritrovarsi insieme che stare ciascuno per conto proprio. Abbiamo così scoperto che ciò che accadeva a ognuno di noi non era un problema individuale ma rispecchiava una condizione generale. Freelancers Union è quindi da considerare un'associazione di mutuo soccorso, di cooperazione....

In che senso....

L'obiettivo è individuare gli strumenti per raggiungere una condizione di sicurezza e stabilità per i lavoratori. Dopo la fase iniziale in cui abbiamo creato lo strumento per incontrarci e discutere, ci stiamo concentrando sull'allargamento della membership e sui nuovi strumenti di democrazia, orientandoci alla costruzione di uno spazio economico di cooperazione. Dico questo perché ci siamo accorti che senza uno spazio economico comune la base politica sarebbe risultata fregile.

Vuoi dire che Freelancers Union oltre che organizzare i lavoratori è anche una piccola attività economica che fornisce dei servizi ai lavoratori?
Non proprio. Noi abbiamo lavorato allo sviluppo di un forte network informale che si avvalga della dimensione virale della comunicazione. Questo è stato possibile attraverso il web e i blog. Inoltre a New York - dove si trova la maggior parte dei nostri membri - abbiamo iniziato una campagna di promozione nella metropolitana che, agendo sui flussi di attraversamento della metropoli, ci ha permesso di raggiungere ogni giorno migliaia di viaggiatori. È però ovvio che se un lavoratore chiede un servizio noi lo forniamo.
Ha descritto alcuni dei punti di discontinuità rispetto al modello organizzativo del labor movement. Ma come si pone «Freelancers Union» rispetto agli strumenti di mobilitazione classici come lo sciopero, utilizzati anche dagli autori dei programmi televisivi?
I lavoratori indipendenti lavorano in differenti company e l'idea di uno sciopero in una sola azienda in cui lavori per sei ore un giorno a settimana non è una delle nostre principali strategie. Ma la questione non è stabilire come un apriori se lo sciopero in quanto strumento di lotta vada bene o meno. Lo sciopero va bene se è efficace, perché lo sciopero è infatti uno strumento, non l'obiettivo di una lotta. È a partire dalla nostra membership che dobbiamo costruire strumenti di lotta e rivendicazioni.

Chi compone la «membership» di Freelancers Union?
Abbiamo cinquantaseimila iscritti nella città di New York e la fascia di redditi più ampia è quella tra i 25 e i 40.000 dollari all'anno. Lavoriamo in settori produttivi tra loro eterogenei: dall'arte ai media, alla finanza, le tecnologie, il no-profit, la salute ed il lavoro domestico. L'ambito del lavoro creativo è quello più consistente. Benché la composizione sia eterogenea, ciascuno ricava benefici dall'essere parte del gruppo perché c'è l'opportunità di condividere e mettere in comunicazione le esperienze, le informazioni su questa o quell'impresa, su come evolve il mercato del lavoro in un settore. Tra gli iscritti c'è un numero uguale di donne e di uomini, mentre quella della race non è una problema rilevante nella nostra organizzazione. A chi si iscrive alla Freelancers Union non chiediamo il colore della pelle.

Su quale terreno si concentrano le rivendicazioni della union?

Con regolarità emerge il tema della proprietà intellettuale. Il rispetto del diritto d'autore o i limiti delle attuali leggi sono spesso argomento che discutiamo, ma il problema più scottante è senza dubbio quello della disoccupazione. Il nostro obiettivo è individuare un processo di tutele e garanzie per i freelancers. Bisogna aggiornare le protezioni sociali degli anni '30: se in passato erano legate al lavoro, oggi le cose sono cambiate, non possiamo delegare la risposta allo Stato. Il governo dovrebbe soltanto aiutare a costruire organizzazioni come la nostra.

Negli Stati Uniti ci si focalizza soprattutto sul ruolo dello Stato come garante o meno dei servizi sociali, mentre credo che si dovrebbe puntare a strategie che contrastino anche il modello del business corporation. Guardiamo, ad esempio, con molto interesse all'esperienza delle cooperative di lavoro e di consumo italiane.

Crede cioè che il sistema delle cooperative sia la soluzione? In Italia le cooperative sono state indicate come un espediente per per rendere meno tutelato il lavoro....
Sono stata in estate in Emilia Romagna e ho apprezzato come vengono affrontati alcuni dei problemi che hanno i lavoratori indipendenti negli Stati Uniti. Mi riferisco al pagamento delle tasse, ai contributi pensionistici. È un modello di gestione del «capitale» a cui guardiamo con interesse perché qui da noi esiste solo venture capital o charity capital. Per me, la coalizione tra diverse figure lavorative è indispensabile per per rafforzare le diverse figure lavorative della coalizione in relazione ai continui mutamenti del sistema economico.

Negli Stati Uniti c'è un ampio dibattito sul concetto di «creative class» proposto dallo studioso Richard Florida. In Italia abbiamo invece assistito al rischio di scivolamento del lavoro creativo verso un agire di lobby...
L'aspetto più rilevante nelle tesi di Florida è laddove scrive del ruolo economico del lavoro creativo, un aspetto tradizionalmente sottovalutato dal labour movement. Negli Usa, gli artisti non sono considerati granché, mentre il discorso di Florida permette di far comprendere ai policymakers quanto questi siano un gruppo economico importante. A noi, tuttavia, non interessa separare la forza lavoro in differenti gruppi. Semmai il nodo da sciogliere è come usare la creatività per costruire un'organizzazione dei lavoratori indipendenti o precari. Può sembrare paradossale, ma è importante sottolineare il fatto che la forza lavoro in generale ha cominciato ad avere sempre più cose in comune con gli artisti, alemno nelle forme e nelle condizioni del lavoro: non avere l'assistenza sanitaria, avere dei redditi intermittenti e che non consentono di programmare la tua vita; non poter godere di nessuna delle protezioni create dal governo negli anni '30. Questo per noi è l'argomento potente del discorso sulla creative class.

giovedì, novembre 15, 2007

Il triangolo nero

Violenza, propaganda e deportazione. Un manifesto di scrittori, artisti e intellettuali contro la violenza su rom, rumeni e donne.

La storia recente di questo paese è un susseguirsi di campagne d'allarme, sempre più ravvicinate e avvolte di frastuono. Le campane suonano a martello, le parole dei demagoghi appiccano incendi, una nazione coi nervi a fior di pelle risponde a ogni stimolo creando "emergenze" e additando capri espiatori.

Una donna è stata violentata e uccisa a Roma. L'omicida è sicuramente un uomo, forse un rumeno. Rumena è la donna che, sdraiandosi in strada per fermare un autobus che non rallentava, ha cercato di salvare quella vita. L'odioso crimine scuote l'Italia, il gesto di altruismo viene rimosso.

Il giorno precedente, sempre a Roma, una donna rumena è stata violentata e ridotta in fin di vita da un uomo. Due vittime con pari dignità? No: della seconda non si sa nulla, nulla viene pubblicato sui giornali; della prima si deve sapere che è italiana, e che l'assassino non è un uomo, ma un rumeno o un rom.

Tre giorni dopo, sempre a Roma, squadristi incappucciati attaccano con spranghe e coltelli alcuni rumeni all'uscita di un supermercato, ferendone quattro. Nessun cronista accanto al letto di quei feriti, che rimangono senza nome, senza storia, senza umanità. Delle loro condizioni, nulla è più dato sapere.

Su queste vicende si scatena un'allucinata criminalizzazione di massa. Colpevole uno, colpevoli tutti. Le forze dell'ordine sgomberano la baraccopoli in cui viveva il presunto assassino. Duecento persone, tra cui donne e bambini, sono gettate in mezzo a una strada.

E poi? Odio e sospetto alimentano generalizzazioni: tutti i rumeni sono rom, tutti i rom sono ladri e assassini, tutti i ladri e gli assassini devono essere espulsi dall'Italia. Politici vecchi e nuovi, di destra e di sinistra gareggiano a chi urla più forte, denunciando l'emergenza. Emergenza che, scorrendo i dati contenuti nel Rapporto sulla Criminalità (1993-2006), non esiste: omicidi e reati sono, oggi, ai livelli più bassi dell'ultimo ventennio, mentre sono in forte crescita i reati commessi tra le pareti domestiche o per ragioni passionali. Il rapporto Eures-Ansa 2005, L'omicidio volontario in Italia e l'indagine Istat 2007 dicono che un omicidio su quattro avviene in casa; sette volte su dieci la vittima è una donna; più di un terzo delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita, e il responsabile di aggressione fisica o stupro è sette volte su dieci il marito o il compagno: la famiglia uccide più della mafia, le strade sono spesso molto meno a rischio-stupro delle camere da letto.
Nell'estate 2006 quando Hina, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre e dai parenti, politici e media si impegnarono in un parallelo fra culture. Affermavano che quella occidentale, e italiana in particolare, era felicemente evoluta per quanto riguarda i diritti delle donne. Falso: la violenza contro le donne non è un retaggio bestiale di culture altre, ma cresce e fiorisce nella nostra, ogni giorno, nella costruzione e nella moltiplicazione di un modello femminile che privilegia l'aspetto fisico e la disponibilità sessuale spacciandoli come conquista. Di contro, come testimonia il recentissimo rapporto del World Economic Forum sul Gender Gap, per quanto riguarda la parità femminile nel lavoro, nella salute, nelle aspettative di vita, nell'influenza politica, l'Italia è 84esima. Ultima dell'Unione Europea. La Romania è al 47esimo posto.
Se questi sono i fatti, cosa sta succedendo?

Succede che è più facile agitare uno spauracchio collettivo (oggi i rumeni, ieri i musulmani, prima ancora gli albanesi) piuttosto che impegnarsi nelle vere cause del panico e dell'insicurezza sociali causati dai processi di globalizzazione.

Succede che è più facile, e paga prima e meglio sul piano del consenso viscerale, gridare al lupo e chiedere espulsioni, piuttosto che attuare le direttive europee (come la 43/2000) sul diritto all'assistenza sanitaria, al lavoro e all'alloggio dei migranti; che è più facile mandare le ruspe a privare esseri umani delle proprie misere case, piuttosto che andare nei luoghi di lavoro a combattere il lavoro nero.

Succede che sotto il tappeto dell'equazione rumeni-delinquenza si nasconde la polvere dello sfruttamento feroce del popolo rumeno.
Sfruttamento nei cantieri, dove ogni giorno un operaio rumeno è vittima di un omicidio bianco.
Sfruttamento sulle strade, dove trentamila donne rumene costrette a prostituirsi, metà delle quali minorenni, sono cedute dalla malavita organizzata a italianissimi clienti (ogni anno nove milioni di uomini italiani comprano un coito da schiave straniere, forma di violenza sessuale che è sotto gli occhi di tutti ma pochi vogliono vedere).
Sfruttamento in Romania, dove imprenditori italiani - dopo aver "delocalizzato" e creato disoccupazione in Italia - pagano salari da fame ai lavoratori.

Succede che troppi ministri, sindaci e giullari divenuti capipopolo giocano agli apprendisti stregoni per avere quarti d'ora di popolarità. Non si chiedono cosa avverrà domani, quando gli odii rimasti sul terreno continueranno a fermentare, avvelenando le radici della nostra convivenza e solleticando quel microfascismo che è dentro di noi e ci fa desiderare il potere e ammirare i potenti. Un microfascismo che si esprime con parole e gesti rancorosi, mentre già echeggiano, nemmeno tanto distanti, il calpestio di scarponi militari e la voce delle armi da fuoco.

Succede che si sta sperimentando la costruzione del nemico assoluto, come con ebrei e rom sotto il nazi-fascismo, come con gli armeni in Turchia nel 1915, come con serbi, croati e bosniaci, reciprocamente, nell'ex-Jugoslavia negli anni Novanta, in nome di una politica che promette sicurezza in cambio della rinuncia ai principi di libertà, dignità e civiltà; che rende indistinguibili responsabilità individuali e collettive, effetti e cause, mali e rimedi; che invoca al governo uomini forti e chiede ai cittadini di farsi sudditi obbedienti.
Manca solo che qualcuno rispolveri dalle soffitte dell'intolleranza il triangolo nero degli asociali, il marchio d'infamia che i nazisti applicavano agli abiti dei rom.

E non sembra che l'ultima tappa, per ora, di una prolungata guerra contro i poveri.

Di fronte a tutto questo non possiamo rimanere indifferenti. Non ci appartengono il silenzio, la rinuncia al diritto di critica, la dismissione dell'intelligenza e della ragione.
Delitti individuali non giustificano castighi collettivi.
Essere rumeni o rom non è una forma di "concorso morale".
Non esistono razze, men che meno razze colpevoli o innocenti.

Nessun popolo è illegale.


Proposto da: Alessandro Bertante, Gianni Biondillo, Girolamo De Michele, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Monica Mazzitelli, Marco Philopat, Marco Rovelli, Stefania Scateni, Antonio Scurati, Beppe Sebaste, Lello Voce, Wu Ming.

martedì, novembre 13, 2007

"Categorie": insieme di cose o persone che hanno caratteristiche o proprietà comuni


Ora, per me non fa differenza se uno è in macchina e sta andando allo stadio, a pesca, o chissà dove. Mi spaventa che un individuo sulla sua macchina si ritrovi con un foro di proiettile nel collo e la sua vita chiusa in un decimo di secondo. Certo, un ultrà si dice. Certo, dico io, il poliziotto dal grilletto facile lo ha categorizzato nella sua testa come un ultrà, pericoloso, e quindi come "nemico". Io non vado allo stadio da dieci anni, ma non vorrei che un gentile tutore dell'ordine decida nella sua testa bacata che a guardarmi, anche da lontano, mentre pisolo in macchina gli ricordo qualche altro tipologia di "nemico dello Stato". Perché si sa la lista è lunga.

Nel frattempo l'unica cosa sensata su quel che succede in questi giorni lo trovo come sempre in sti casi nelle parole del compianto Valerio Marchi. Non c'è da stare allegri.

«Il ritratto dell'ultrà, e con esso i suoi legami con la politica, tende di solito a rimanere racchiuso in questa tesi asfittica, vagamente complottistica, in cui un fenomeno sociale che nel giro di trent'anni, contando solo l'Italia, ha coinvolto e coinvolge tuttora centinaia di migliaia di persone, viene ridotto alle malevole attività di un manipolo di malintenzionati. Gli si nega ogni valenza sociale, per quanto contraddittoria o addirittura distruttiva, elaborando teoremi in cui gli ultrà vengono manovrati come burattini senza fili da oscuri gerarchi».

da Il derby del bambino morto

venerdì, novembre 09, 2007

La fuga in avanti


di Manolo Morlacchi (coedizione Agenzia X / Cox 18 Books)

…e non ci vengano a parlare di fuga in avanti, gli specialisti delle fughe all’indietro…

da un volantino del gruppo “Luglio ’60”

La leggenda racconta che le case popolari costruite negli anni trenta per realizzare il nuovo quartiere Giambellino, erano state progettate sulla pianta topografica di un grande fascio littorio. Nel 1939 furono accolti in quella zona decine di famiglie di ex immigrati italiani espulsi dalla Francia per motivi politici. Inizia così la storia popolare di un quartiere rivoluzionario. Dopo la guerra molti antifascisti provenienti da tutta Milano furono spostati in quelle case e nei primi anni cinquanta vennero consegnati alla famiglia Morlacchi tre appartamenti nel cuore del Giambellino. Tra fratelli, sorelle, nonni e nonne, i Morlacchi erano allora in 18 persone.

Le speranze deluse dei partigiani che avevano combattuto per una società diversa portarono i Morlacchi e molti proletari della loro zona in aperto contrasto con i vertici cittadini del Pci. Poi con gli anni sessanta e la ripresa delle lotte operaie il Giambellino si trasformò in una sorta di cittadella liberata. Nel 1970 la fondazione del primo nucleo delle Brigate Rosse e infine la sconfitta...
Attraverso le vicende della famiglia Morlacchi, uno spaccato di quella Milano proletaria, fiera e ribelle, che faticava e si batteva contro i fascisti e i padroni. Oggi la stessa fatica, ma senza quartieri e luoghi dove riconoscersi e lottare. Soli nell’isolamento, con l’ossessione della sicurezza e la paura del diverso, ognuno in preda all’incubo catodico. E nessun sol dell’avvenire. Eppure nelle pietre della città sono incise le tracce di storie, lotte, saperi e creazioni sociali che continuano a vivere e che aspettano solo di essere riscoperte…



giovedì, novembre 08, 2007

C'E' CHI DICE Gods.





La free free press dei precari e delle precarie torna per lo sciopero generale e generalizzato dei sindacati di base del 9novembre007.

In questa uscita:

- Il pacchetto in-sicurezza sociale;
- In difesa del Made in Italy: Pacciani, Franzoni, Bilancia;
- Come chiudere un quotidiano calcistico e lasciare i giornalisti in panchina;
- Tutto sui maiali olimpici in Cina;
- La cospirazione solare dei precari e delle precarie;
- Si può essere contessa, modella e giornalista allo stesso tempo?
- Reportage tragicomico del 20 ottobre: "Abbattiamo il precariato";
- Ritorno a Genova. Togliamoci qualche sasso dalla scarpa;
- Professione cecchino: dibattito Placanica - Spagnoli. Terrazzo o defender?;

La free&press precaria torna nelle strade... con un inserto speciale de
Il Sole 24 ore!
Edizioni locali di Milano, Roma, Bergamo, Monza, Livorno.

City of Gods.
Parole che s/colpiscono la storia.
L'attualità è passeggera. La storia è per sempre.

Continua su IP

Leggi City of Gods in versione digitale

Sulla caccia ai Rumeni - Wu Ming

di Wu Ming - da wumingfoundation

Atmosfera da pogrom. Nel 1997 accadde qualcosa di molto simile con gli Albanesi - se non peggio, perché in quel caso non c'era nemmeno un omicidio con stupro a fare da detonatore, soltanto disperati che fuggivano in massa da un futuro di merda.

Siamo andati a ripescare gli articoli di allora: governo Prodi, Veltroni vicepremier, fiumi di inchiostro sul popolo di sinistra che si scopre razzista e tutto sommato non diverso dall'elettorato della Lega Nord, un decreto xenofobo varato su pressione del centrodestra e condannato dalla comunità internazionale (in quel caso la possibilità, per la nostra Marina, di bloccare navi albanesi anche fuori dalle acque territoriali italiane), infine una strage (terribile, più di cento albanesi morti annegati nel canale d'Otranto, quasi certamente speronati da una nave italiana, caso immediatamente insabbiato e rimosso dalla coscienza collettiva).

***

La sovrapposizione totale tra Rom e cittadini della Romania è un processo di "identificazione" che lascerebbe attoniti, se qualcosa fosse ancora in grado di attonarci.

I Rom non sono tutti rumeni e non tutti i cittadini rumeni sono Rom. I Rom in Romania sono il 2,46% della popolazione. Il nome "Romania" deriva dalla storia delle conquiste imperiali romane, mentre il termine "rom" nella lingua romané (lingua di ceppo indo-ariano) significa "uomo", anzi, più precisamente significa "marito" (e "romni" significa "moglie"). Esistono individui di etnia Rom in quasi tutti i paesi dell'Europa sud-orientale, e molti vivono anche in altri continenti.

L'identificazione surrettizia tra etnia e cittadinanza (oramai accettata anche "a sinistra") emana sempre un fetore nazista: gli ebrei non potevano essere tedeschi, polacchi, russi, italiani... erano ebrei e basta, quindi "allogeni", e il corpo sociale andava depurato da quella tossina. E una nazione che tollera un gran numero di allogeni non può che essere allogena essa stessa.

Peccato che in Romania gli unici veri "allogeni" siano i padroni italiani che hanno chiuso baracca e burattini in Italia per andar là a sfruttare una manodopera sottopagata e priva di diritti. Categoria di cui si è fatto rappresentante, poche settimane fa, il demagogo Beppe Grillo.

***

Sulla base di cosa, poi? Del fatto che i Rom/rumeni sono delinquenti, stupratori, assassini che hanno valicato i "sacri confini" della Patria e oggi seminano il terrore.

Peccato che stupro e ginocidio (= assassinio di donne) siano una specialità molto italiana. Secondo dati ISTAT del 2005, nel 20,2% dei casi denunciati (che a loro volta sono solo il 43% dei casi segnalati) lo stupratore è il marito della vittima; nel 23,8% il colpevole è un amico; nel 17,4% è il fidanzato; nel 12,3% è un conoscente. Soltanto nel 3,5% dei casi il colpevole è un estraneo.

Lo ripetiamo perché suona vagamente importante: soltanto nel 3,5% dei casi denunciati il colpevole di stupro è un estraneo.

E secondo il Soccorso Violenze Sessuali della Clinica Mangiagalli di Milano, il 50% delle vittime di stupri che avvengono in strada sono donne straniere.

Ma ovviamente fa notizia soltanto il caso (terribile ma sporadico) della donna italiana aggredita dallo straniero, dal barbaro, dall'allogeno.

Quanto agli omicidi, poco tempo fa il Procuratore di Verona Guido Papalia ha dichiarato: "Oramai uccide più la famiglia che la mafia."

In Italia i carnefici delle donne sono sei volte su dieci italiani, italianissimi, e agiscono tra le mura domestiche, con armi da fuoco o coltelli da cucina, strangolando o picchiando a sangue, appiccando il fuoco o annegando nella vasca da bagno.
La media italiana è di 100 uxoricidi all'anno.

Però il problema sono i rumeni.

Che razza di paese è quello dove il Palazzo e la Piazza si scontrano/incontrano/aizzano a vicenda sulla base della stessa condivisa ignoranza, senza pudore, senza rispetto, obnubilati da un razzismo e provincialismo ottuso, che fa sembrare Peppone e Don Camillo due illuminati cosmopoliti?

E' l'Italia. Non c'è modo di definirlo. Questo posto è unico al mondo e non regge paragoni, fa categoria a sé, ogni aggettivo è inadatto, superato dalla notizia di domani.

E nel frattempo?
Aspettiamo la strage?
Va bene, purché sia Democratica.

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"Un topo, credendo che la nave stesse per fare naufragio, si tuffò in mare. Ma la nave non affondava. Il topo la inseguì a nuoto, protestando, e già pensava di fondare un partito nuovo, ma un pescecane lo inghiottì."
(Gianni Rodari)

Romania fa rima con etnia? - Valerio Evangelisti

di Valerio Evangelisti - da carmillaonline

L’identità dei rumeni è tale da rendere difficoltose le campagne d’odio razziste cui siamo ormai abituati. Sono di pelle bianca. Sono in maggioranza di fede cristiana (sia pure nelle variante greco-ortodossa). Parlano una lingua che discende in linea diretta dal latino. Fanno parte dell’Unione Europea.
Non si possono applicare loro, insomma, i consueti alibi che giustificano il razzismo dilagante in questa porcheria di paese: lo “scontro di civiltà”, la “lotta al terrorismo”, la differenza di culture, e via delirando. I rumeni si chiamano così proprio per l’impronta lasciata loro dall’annessione a Roma – ammesso che simili argomenti abbiano un senso. Anzi, quando l’impero romano era ormai scomparso, là se ne teneva vivo un brandello. Dico questo per prevenire le obiezioni delle canaglie fasciste, sempre pronte ad asservire la storia per giustificare i propri delitti. Non vi serve cercare Dna particolari. La Romania era ed è più latina di quanto non lo sia l’ipotetica “Padania”. Se siete fascisti, siatelo fino in fondo. Se siete “padani”, andate affanculo. Da bravi barbari, vi bevete l’acqua del dio fiume, con larve annesse. Prosit!

Veniamo al caso che invade le cronache. Un rumeno, per la precisione un Rom, violenta e uccide una povera donna. Dove abito io, l’ultima violenza carnale di una lunga serie è stata commessa, se ricordo bene, da un calabrese ubriaco. Non mi risulta che, per questo, la Regione Emilia-Romagna abbia rotto le relazioni con la Regione Calabria, né che si sia scatenata una caccia al calabrese.
Invece, se le cronache dicono il vero, il governo Prodi avrebbe richiamato l’ambasciatore in Romania. Non so se la notizia sia fondata, però ho visto Walter Veltroni, segretario del futuro Partito Democratikkko e sindaco di Roma, lamentare a Ballarò che i rumeni in Italia sono troppi (riecheggiando Beppe Grillo, altra brava persona), e rivendicare con orgoglio la distruzione delle loro baracche (dove siano finite le famiglie degli “sfollati” non si sa). Intanto, grazie anche alle indirette istigazioni dello stesso Veltroni, squadre di “giustizieri” sprangavano rumeni qualsiasi mentre, carichi di borse, uscivano da un supermercato, e distruggevano un negozio di “specialità dalla Romania”. Il Giornale applaudiva questa reazione spontanea delle masse.
A mia conoscenza, mai il governo degli Stati Uniti ha convocato diplomatici italiani per rinfacciare loro ciò che stavano facendo, in territorio americano, gli affiliati alla Mano Nera o a Cosa Nostra. Pescava i colpevoli, se ci riusciva, e li sbatteva in galera.

Solo da noi si fa ricadere un crimine su un popolo intero, e si prende a pretesto un delitto per criminalizzare una nazionalità nel suo complesso. Che i rumeni si consolino. Prima era già accaduto agli albanesi, ai nordafricani, ai polacchi, agli “slavi” in genere, ai meridionali. Nel Medioevo, i Veltroni di allora (o i Fini, o i Casini, o i Berlusconi, o i leghisti del tempo) imprecavano contro gli ebrei, che dissanguavano bambini cristiani. La - da me non tanto - compianta Oriana Fallaci inveiva contro i somali, rei di sporcare Firenze. Ogni epoca ha il suo stronzo, e la sua vittima.
Tornando ai rumeni, delinquenti per vocazione genetica, cos’abbiamo fatto noi a loro? Una qualche reciprocità esiste.

Era appena caduto il regime di Ceausescu e già migliaia di “imprenditori” italiani (chiamiamoli con il loro nome: “padroni” e “padroncini”) si fiondavano in Romania, come in altri paesi dell’Est, alla ricerca di manodopera sottopagata. L’avvilente epopea di questi tristi avventurieri è appena stata narrata da Andrea Bajani in un bellissimo romanzo, altamente consigliabile: Se consideri le colpe, Einaudi, 2007. I “portatori di progresso” italiani si rendevano complici di un doppio crimine: togliere lavoro in Italia e instaurare lavoro schiavistico altrove. Intanto un paese, sottratto a una dittatura ma lasciato nelle braccia del neoliberismo più brutale, assisteva a un degrado progressivo, e diventava tra i massimi esportatori di delinquenti e, soprattutto, prostitute. Nessuno, come i clienti di queste ultime, apprezza i benefici del capitalismo. D’altronde la merce è varia: un volo aereo e c’è, alla periferia di Timisoara, un bordello in cui sono in vendita minorenni dei due sessi. I padroncini vi si affollano.
Fa comodo la miseria altrui, purché resti a casa propria. Se viene qua, si trasformerà in puro accidente o in scelta criminale.

Che schifo! Che paese (o etnia, a questo punto?) di merda è diventato l’Italia!

mercoledì, novembre 07, 2007

lunedì, novembre 05, 2007

Posse is on line! La classe a venire

E' uscita un nuovo numero di Posse in formato digitale, liberamente scaricabile... qui.

N
el nuovo numero:

I movimenti e l’impolitico · La Redazione
Classe e moltitudine · Sandro Mezzadra L’ammortamento del corpo macchina · Christian Marazzi
Il rapporto capitale/lavoro nel capitalismo cognitivo · Antonio Negri, Carlo Vercellone
Uscire dal vicolo cieco! · Sergio Bologna
Lungo la linea del colore · Anna Curcio
Contro la creative class · Alberto De Nicola, Carlo Vercellone, Gigi Roggero
Donne e lavoro · Cristina Morini
Il compromesso postfordista · Antonio Conti
La città e la metropoli · Giorgio Agamben
Anti-città · Stefano Boeri

Sui divenire cyborg della (post)metropoli · José Pérez de Lama Osfa
Per favore rimanete! · Aiwa Ong
Centri Sociali contro la metropoli · Marcello Tarì

Politica della radicalità sociale · Antonio Negri, Giorgio Cremaschi

Ai bordi del politico · Sandro Chignola

Il pianeta degli slum · Agostino Petrillo

Politiche della restaurazione · Judith Revel

Esempio Rostock · La Redazione
La transizione è finita · La Redazione

Noi, quelli di Via Tolemaide

E’ vero. Vi è una storia delle lotte, dei movimenti, delle persone, e una storia del potere. Su questo non vi è dubbio, e Genova lo conferma. La storia del potere è spesso scritta per via giudiziaria. I Pubblici Ministeri che hanno accusato di devastazione e saccheggio 25 manifestanti e che mantengono, per ora, nei loro cassetti centinaia di procedimenti aperti contro altrettanti partecipanti alle manifestazioni contro il G8, sintetizzano bene nelle loro requisitorie questa pratica. Riscrivere, modificare, stravolgere ciò che è accaduto per tentare non solo di cambiarne il senso, ma anche per rimuovere quelle anomalie che rappresentano il segno tangibile della crisi di un sistema.

Riscrivere la storia a proprio uso e consumo, infatti, non è solo un vecchio vizio di chi comanda: è anche la misura di quanto questa democrazia in crisi profonda e irreversibile in ogni sua articolazione, abbia la necessità estrema di creare artificiosamente attorno a sé quella legittimazione che non c’è più. Le roboanti parole, scelte con sapienza da questo o quel servitore dello Stato, pronunciate nelle aule di un Tribunale, dovrebbero coprire quello che centinaia di migliaia di persone hanno vissuto, e che milioni già conoscono. Quelle parole, diventeranno storia ufficiale quando saranno scritte nero su bianco in calce a condanne di anni di carcere per chi ha avuto la sfortuna di essere stato scelto come capro espiatorio, e la colpa di essere stato a Genova il 19, 20 e 21 luglio del 2001 a contestare il G8.

L’archiviazione dell’omicidio di Carlo Giuliani, è stato il primo capitolo della storia di Genova, scritta per il potere dai tribunali.
Tuttavia commetteremmo un grave errore a pensare che la questione si esaurisca così, in maniera semplificata. Nella requisitoria dei pubblici ministeri, e nella gestione del processo di Genova, traspare ben di più che la sola conferma di un vecchio assunto, con cui tutti i movimenti di lotta hanno avuto a che fare. Innanzitutto per un fatto molto semplice: la storia del potere e quella “sociale”, non viaggiano parallele, ma si scontrano, confliggono. Ed è la forza con cui avviene questo impatto, che determina il risultato. Se si lascia spazio a ciò che il “sistema democratico”, dal parlamento ai tribunali, vuole produrre su Genova, ecco che il risultato sarà sempre a favore del mantenimento del potere. E di chiusura per i movimenti, quelli di allora, e soprattutto quelli che vengono dopo.

Il secondo grave errore sarebbe pensare che anche la storia di movimento sia scritta nero su bianco. Sia statica, depositata, perenne. Non è così. Questa storia è viva, a differenza di quella scritta dai tribunali, e cresce, oppure diventa invisibile, carsica, frantumata, insieme a chi l’ha vissuta. Dopo le giornate di Genova, nessuno di noi, di quelli che in maniere diverse hanno contribuito a costruire quella strordinaria insorgenza, che come tutte le cose vere ha fatto i conti anche con le tragedie, ha saputo riprendere parola con forza. Alcuni perché, dopo quell’esperienza di rivolta, molto semplicemente hanno preferito tornare, o saltare, nel solco della politica ufficiale, nei parlamenti e nei partiti. Altri perché a volte la ricerca dei movimenti, ti porta in strade nuove, difficili da sperimentare, piene di dubbi ed incertezze. In generale non siamo stati capaci di assumere i processi contro alcuni di noi, come fatto politico fondamentale, e abbiamo troppo spesso permesso quindi, che la nostra storia fosse scritta da altri.

Ma cosa significa riprendere la parola con forza? Crediamo che abbia poco a che fare con il semplice parlare, denunciare, testimoniare. Questo, certo, è il minimo, ma come abbiamo visto, se non vi è qualcosa in più, qualcosa che diventi motore di tutto il resto, anche quello che si da per scontato, viene inghiottito in una routine che diventa in fretta incapacità.
E’ un’idea forza che ha prodotto Genova, non la sommatoria di chi vi partecipava. Ed è dalla nostra idea forza, quella di Via Tolemaide, che noi vogliamo contribuire a rimettere al centro ciò che Genova ci ha consegnato.
In questi giorni i pubblici ministeri hanno chiarito bene qual è la chiave che lo stato vuole usare per la criminalizzazione del movimento di genova. Il nodo di via Tolemaide, che è stato anche il corteo più partecipato di quei giorni, è l’anomalia che chi riscrive la storia dal punto di vista del potere, deve attaccare.

Attorno alla moltitudine degli oltre ventimila di via Tolemaide e del Carlini, a ciò che ha generato l’attacco dei carabinieri, ruotano tutti i fatti del 20 di luglio, compreso l’omicidio di Carlo.
Quella moltitudine aveva fatto una scelta precisa. Di disobbedire all’imposizione della zona rossa, che era il simbolo concreto di tutto il potere esercitato dal G8 in quei giorni. Ma questa scelta, era stata resa pubblica. La disobbedienza, la violazione della legge, era divenuta spazio pubblico e direttamente costituente per quella enorme comunità di soggetti, singoli e collettivi. Vedendo oggi ciò che stanno facendo i compagni di Copenhagen, o quello che è successo a Rostock, si ha la dimensione, spaziale e temporale, di quanto quella scelta, rinnovata ed arricchita, sia divenuta pratica di movimento. E non si tratta della "forma di lotta", anche se le tecniche, ad esempio quella degli scudi, le abbiamo viste ormai ovunque utilizzate, ma del paradigma della disobbedienza. La scelta di violare la zona rossa, di dichiararlo pubblicamente e quindi di non "clandestinizzare" né le pratiche né il processo di costruzione di questo percorso, è parte di questa anomalia attaccata dai tribunali e dallo stato.
I ventimila di via Tolemaide sono stati possibili grazie a questo. E questa scelta, l’essere in tanti e costituirsi a partire da una pratica condivisa e non da altro, oggi la ritroviamo in molte esperienze di resistenza che accompagnano movimenti veri che si battono contro le basi o contro il Tav.

Ma aver trasformato il proprio obiettivo in uno spazio pubblico costituente, porta ad un’altra incompatibilità per lo stato, che poi i giudici nei tribunali tentano di criminalizzare: il consenso. Il corteo di via tolemaide, e l’esperienza del Carlini, potevano contare di un appoggio, anche solo in termini di opinione, che andava molto oltre il numero dei partecipanti. E’ possibile per il potere ammettere questa stranezza? Si può essere cattivissimi, ferocissimi, ma bisogna essere pochi, isolati da tutti, costituenti solo della propria sconfitta: questo è compatibile. Anzi, al di là della volontà dei protagonisti, alcune volte generosi e riempiti di anni di carcere, lo stato assegna un ruolo a tutto ciò, come lo assegna alla testimonianza e alla denuncia. L’importante è che il risultato finale rafforzi le istituzioni, e il loro precario legame con legittimità e consenso.
Ma se il consenso si incardina per un attimo a qualcosa che prelude a una non accettazione delle leggi, dell’ordine costituito, e lo pratica collettivamente? Via Tolemaide era anche questo.
E un altro nodo, fondamentale, è ciò che è accaduto dopo l’attacco dei carabinieri. L’esercizio di un diritto di resistenza, spontaneo, diretto, diffuso. La disobbedienza non si è trasformata in un gioco di ruolo, appunto. Nelle distorsioni spesso operate da chi, anche all’interno di quel percorso, parlava di disobbedienza ma pensava al governo, la disobbedienza ha rischiato di morire rinsecchita varie volte. Prima perdendo la sua originalità legata al contesto che l’aveva prodotta, e richiamandosi a modelli "storici". Come dire che la nonviolenza dei movimenti birmani è la stessa cosa di quella propagandata da certi parlamentari italiani, che votano le guerre tralaltro. Poi rischiando di diventare un feticcio, un’identità chiusa e pesante, fondata sulle tecniche di lotta più che su un sentire comune.
Via Tolemaide, con l’esercizio da parte della disobbedienza, del diritto di resistenza, ha spazzato via tutti i tentativi di questo tipo. La disobbedienza non poteva più essere considerata né un modello, né una forma.

Oggi in Italia ed in Europa ci sembra dimostrato che si tratta dell’assunzione di un percorso, che può avere forme e modi diversi ed articolati, e trova il suo fondamento in alcune linee di tendenza. Dal Carlini si è partiti per agire con la disobbedienza, un obiettivo. Ci si è ritrovati a resistere, con ogni mezzo possibile, alla furia cieca e di annientamento, che nessuno aveva potuto prevedere in quei termini, che carabinieri e polizia hanno scaricato contro quel corteo. Questo è stato un passaggio naturale, ed è per questo che la resistenza di quel corteo, rivendicata collettivamente fino in fondo, è per lo stato, i tribunali e le istituzioni, difficile da digerire. Ed è in quel contesto che va letto l’omicidio di Carlo. In assenza quindi di facili strumentalizzazioni possibili, in quel caso lo stato ha scelto l’archiviazione.
E’ questo il nodo che si tenta di annullare con il processo di Genova. Perché parla agli altri movimenti, quelli di oggi e quelli di domani, e lo fa con speranza e determinazione, con rabbia e lucidità. Via tolemaide ha messo in difficoltà il potere, e per questo bisogna tentare di riscriverne la storia, facendola rientrare in un contesto compatibile. A Genova con l’assunto: “In Via Tolemaide erano tutti violenti”, a Cosenza con l’imputazione di “associazione sovversiva composta da oltre ventimila aderenti”.

Con questa idea forza dobbiamo riprendere la nostra corsa che è stata interrotta lì, in quella via di Genova, in quella piazza poco distante bagnata del sangue di uno di noi. Altri hanno ripreso a correre, in Germania, in Danimarca, in Val di Susa, a Vicenza. Sappiamo da dove partire per raggiungerli. Dalla difesa di tutti i compagni sotto processo, dal riconoscere ciò che ci ha consegnato Genova, da Via Tolemaide.

Sottoscriviamo quanto sopra per prendere un impegno. Quello di organizzare, durante il ritiro in camera di consiglio dei giudici del processo di Genova, una mobilitazione. La sentenza, cioè il tentativo di riscrivere la storia dal punto di vista del potere, deve trovare un contrasto diretto da parte di tutti coloro che in quei giorni del 2001 scesero in strada nonostante le minacce, l’arroganza, la violenza scatenata contro chi voleva cambiare. Iniziamo noi, con i nostri nomi e cognomi, perché innanzitutto qui vi è la scelta, personale e politica, di continuare a batterci per una verità che non sia addomesticata, che non sia occasione per chiudere ulteriormente gli spazi dei movimenti e del dissenso in questo paese. Ma facciamo da subito appello a tutti, singoli e realtà collettive, perché costruiscano insieme a noi le iniziative che sono oggi necessarie. Perché tutti i compagni processati a Genova siano liberi, perché la storia del potere non sia un ostacolo alla corsa di tutti, quelli che c’erano e quelli che verranno, verso la libertà. Con Carlo nel cuore.

Per le adesioni vedi qui.

Stranieri? - Gérard De Mai

Quella che segue è una traduzione adattata - curata da A.P. per Carmillaonline - di un breve intervento uscito su molti blog francesi scritto da Gérard De Mai.

Per me è straniero l’egoista mascalzone che respinge l’affamato lontano dalla propria tavola, l’assetato lontano dal proprio pozzo, la miseria del mondo lontano dal proprio confort.

Mi è estraneo l’uomo capace, per servire il proprio interesse, di trattare gli esseri umani come bestiame, come attrezzi o merci.

Per me è straniero chi, per calcolo economico o per strategia politica, raccoglie gli uomini, gli infermi, gli asserviti, e li respinge verso una sorte crudele, verso la miseria, l’umiliazione, la paura, il dolore, la morte.

Mi è estraneo colui che serve, come una macchina, questa politica; colui che “amministra”, raccoglie le informazioni, redige le schedature, timbra, arresta, ammanetta, malmena ed espelle.

Per me è straniero chi, per sostenere questa politica, punta sulla paura e l’ignoranza, sull’invidia e sulla vigliaccheria; chi incita all’odio contro uomini che hanno un colore, una lingua e delle maniere di vivere differenti.

Mi è estraneo chi inventa e diffonde le menzogne che alimentano questo odio.

Le uniche frontiere che riconosco necessarie sono quelle che proteggono gli uomini dai pescecani e dalle iene che indossano una faccia da uomo, dall’avvoltoio e dal robot, dallo sfruttatore e dal mascalzone.

Frontiere che sono determinato a difendere con fermezza, respingendo gli assalti di questi barbari stranieri.