sabato, marzo 24, 2007

Il ritorno...


Ecco il ritorno del blogger. In fretta, estemporaneamente torno ascrivere su finoaquituttobene.


Sono senza una Rete a cui appoggiarmi a casa, ho cambiato lavoro e ancora devo riuscire a ritagliarmi il mio spazio... e in questo mese ne sono successe tante, ed io avrei voluto proporvi da qui molto materiale, perché i cinquanta anni d'Europa sono caduti proprio poche settimane dopo i riot di Cophenagen, perché la generazione dei giovani europei ribelli ha ripreso a farsi vedere per le strade, e la città in cui vivo - Trento - ha iniziato a farci i conti...


Insomma, non ci sono stato, ma questa volta con malincuore, quindi non diperate: se scompaio ogni tanto ricordatevi che poi il ritorno del blogger è assicurato, basta pazientare...


mercoledì, marzo 07, 2007

La Casa dei Giovani e la rivolta di Copenhagen

di Nikolaj Heltoft



Demolire la storia


Il palazzo del 1897 al centro della rivolta di Copenhagen si chiamava originariamente chiamato Folkets Hus (Casa del Popolo) e venne eretto dal movimento operaio internazionale. Fu lì che nel 1910 la Seconda Internazionale e Clara Zetkin proclamarono l'8 marzo la giornata internazionale di lotta delle donne. Anche Vladimir Lenin e Rosa Luxemburg tennero conferenze nella Casa e la grande manifestazione del 1918 contro la disoccupazione che giunse a occupare la borsa danese partì proprio da lì. Dopo la seconda guerra mondiale, la Casa fu usata per ospitare profughi tedeschi, ma a mano a mano che il tessuto socialista mutava, venne sempre più lasciata a se stessa fino a essere definitivamente abbandonata negli anni '60. Rimase chiusa fino a che l'ondata punk non portò un gruppo di giovani squatter del quartiere a occuparla all'interno della campagna per ottenere un centro sociale giovanile autogestito a Copenhagen. Nel 1982, l'allora sindaco di Copenhagen Egon Weidekamp destinò la casa a uso giovanile e l'edificio venne ribattezzato Ungdomshuset (Casa dei Giovani): "Loro si prendono la casa, e noi otteniamo un po' di pace," dichiarò il sindaco prima di consegnare le chiavi. Queste parole avrebbero assunto il loro vero significato 25 anni più tardi.

Per più di due decenni, Ungdomshuset ha svolto la funzione di tempio dell'underground danese e di rifugio per tutti quei ragazzi che non si sentivano accettati altrove. Lenin e Luxemburg lasciarono presto il posto al punk rock e a visioni politiche libertarie che contestavano la minaccia nucleare e rifiutavano la vecchia sinistra in toto. Ungdomshuset era comunque soprattutto giovane. Generazioni di giovanissimi, compreso il sottoscritto hanno fatto le loro prime esperienze politiche, imparato l'etica del "do it yourself", oppure a suonare la batteria, negli spazi della Ungdomshuset.

La lista di icone pop che hanno fatto concerti alla Casa dei Giovani è lunga. Björk e Nick Cave ci hanno suonato prima ancora che nessuno conoscesse chi fossero. E nel 1991 un gruppo teenage punk americano chiamato Green Day suonò nella Casa prima di schizzare nell'orbita del successo mondiale. Ma la Casa rimaneva una spina del fianco di molti politici locali di destra; i giovani rimanevano fuori controllo e molte azioni e manifestazioni politiche partivano dalla Ungdomshuset.
Per anni le grida stridule dei conservatori hanno chiesto lo sgombero della Casa, ma dato che il municipio di Copenhagen è ininterrottamente socialdemocratico da 106 anni, ci voleva un socialdemocratico per riuscire a raggiungere l'obiettivo.


"Il prezzo è basso, ma ci sbarazziamo di un problema"


Nel 1999 i socialdemocratici decisero di votare assieme alla destra e di mettere la Casa in vendita. La ragione ufficiale per la vendita è cambiata in continuazione. L'edificio fu messo in vendita a un prezzo notevolmente basso. Come un assessore commentò: "Il prezzo che chiediamo è basso, ma ci stiamo sbarazzando di un problema."

Pochi però erano disposti all'acquisto, e l'offerta di una setta cristiana fondamentalista chiamata Faderhuset (Casa del Padre) fu declinata perché la maggioranza in municipio la considerava "un
acquirente poco serio". D'un tratto però spuntò l'offerta di una società per azioni fino allora ignota chiamata Human A/S. L'amminstratrice, un avvocato di nome Inger Loft, affermò che voleva
aiutare i giovani della città. L'offerta della misteriosa società venne accettata e i giovani della Casa vennero svenduti contro la loro volontà. Presto si scoprì che la donna aveva avuto una posizione amministrativa in municipio fino a poco tempo prima. e si inizio a parlare di manovra socialdemocratica sotto mentite spoglie. Dopo un anno di silenzio, l'avvocata decise di vendere le azioni della sua società proprio alla setta Faderhuset guidata dalla pastoressa Ruth Evensen. Un giorno prima della vendita, il mistero s'infittì ulteriormente, quando si seppe che un prestito, con la Casa data in garanzia, era stato concesso alla setta dalla "Sarah Lee Jones Corporation", finanziaria con sede a Panama. Gli investitori della Sarah Lee Jones sono rimasti ignoti, malgrado le numerose inchieste giornalistiche. Quindi la casa è finita nella mani della setta fondamentalista che era stata giudicata inaffidabile. Perché un giro finanziario così elaborato per cedere la Casa dei Giovani alla Casa del Padre? Forse non lo sapremo mai.

La setta però aveva piani molto chiari. Nella sua concezione di risveglio cristiano, il peccato deve essere combattuto stando sempre all'offensiva. La pastoressa disse che Dio le era comparso in visione dicendole di comprare Ungdomshuset e di sbarazzarsi dei giovani, per poter combattere "i musulmani che stanno si impossessando di Copenhagen" e scendere in campo contro l'omosessualità. Anni di proteste, cause, processi, un cambio di amministrazione, imprenditori culturali e una fondazione di avvocati a sostegno della Casa dei Giovani non sono riusciti a impedire lo sgombero effettuato giovedì mattina in stile Rambo da forze speciali del governo. Il comune aveva permesso che uno dei centri più vividi di attività culturale della capitale cadesse nelle mani di una risma di crociati e non si degnava neanche di dare ai ragazzi un'altra casa, come il comune aveva originariamente promesso. La sindaca si limitò a offrire ai sostenitori della Ungdomshuse di comprare dal comune una sistemazione alternativa. Prezzo: 1,9 milioni di euro. A questo punto la scena era pronta per le decine di ore di scontri e barricate dello scorso weekend. L'intensità, la diffusione e, in certi casi, l'irrazionalità della ribellione urbana che ne è risultata ha sorpreso anche gli attivisti che difendono la Casa.


"Non ti preoccupare; oggi non vanno in cerca di arabi"


Ciò che è accaduto giovedì e venerdì notte va ben oltre il classico scontro fra forze di polizia e attivisti politici. Come notato dal Manifesto, la lotta in difesa dell'Ungdomshuset ha assunto un significato ben più vasto di quello di occupanti relativamente isolati che lottano per difendere un centro sociale. La minaccia di sfratto di ampie sezioni della storica città libera di Cristiania entro l'anno ha certamente aumentato il livello di tensione e portato molti più giovani in strada pronti allo scontro con la polizia. La ribellione ha portato allo scoperto un livello di tensione e agitazione sociale fra i giovani di Copenhagen che va ben oltre la difesa degli spazi occupati. Camminando attraverso le strade di Nørrebro fitte di barricate in fiamme, o attorno a Christiania, non si poteva fare a meno di notare quanto fossero eterogenee le folle che si scontravano con la polizia. Giovedì notte, centinaia di ragazzi di origine araba si sono uniti agli scontri, aggiungendo elementi e rivendicazioni loro proprie. Anni di marginalizzazione e discriminazione hanno spinto anche questi ragazzi a riprendersi le strade. Ho sentito un ragazzo palestinese rivolgersi ai suoi amici con queste parole, prima di unirsi alla ribellione: "Non vi preoccupate, oggi non vanno in cerca di arabi; stanotte arrestano solo ragazzi bianchi." Questa osservazione assolutamente pregnante consente di inquadrare la contestazione politica e culturale in Danimarca oggi. A partire dalle elezioni del 2001 che l'hanno portata al potere, la destra al governo ha lanciato una "battaglia culturale". Si tratta di un ampio programma di controriforma che intende aggredire la presunta egemonia sessantottina su università e televisione culturale, nonché discriminare i musulmani considerati come un blocco omogeneo contro cui bisogna mobilitare "i nostri valori comuni". Si è trattato di un brusco spostamento dell'asse politico danese; non solo la Danimarca è diventata arcignamente atlantista, ma la destra ha introdotto il neoconservatorismo culturale all'interno del dibattito politico. Dalla crisi delle vignette su Maometto dell'anno scorso alla più recente e contestatissima "riforma" del welfare, fino ad arrivare a Christiania e Ungdomshuset, si è diffuso fra la gioventù alternativa danese il sentimento di essere di fronte a politiche autoritarie tese all'uniformità culturale. Il radicale rifiuto della politica e della cultura dello stato d'emergenza è riconoscibile oggi in tutta Europa: la giovane generazione europea ha manifestato con forza solidarietà all'Ungdomshuset e alla ribellione di Copenhagen da Venezia ad Amburgo, da Bologna a Istanbul, per arrivare a Oslo, New York, e perfino in Nuova Zelanda. Ieri migliaia di frequentatori dell'Ungdomshuset piangevano nelle strade di Nørrebro, mentre le ruspe guidate da uomini incappucciati sventravano e demolivano la Casa dei Giovani e del Popolo. Oggi pomeriggio bloccheranno il centro di Copenhagen con feste e concerti per chiedere un altro spazio autogestito. E sabato, tutti gli attivisti d'Europea sono invitati a unirsi all'enorme manifestazione pacifica che protesterà contro l'enorme arroganza del potere danese, simboleggiata dalla demolizione dell'Ungdomshuset e dalla spietata repressione che ha già colpito 600 persone.

La vendetta degli sconfitti da Erba a Baghdad

di Marco Bascetta - da il manifesto


Cosa hanno in comune gli sterminatori adolescenti di Colombine e gli attentatori suicidi palestinesi, i coniugi assassini di Erba e i Talebani in Afghanistan? Hans Magnus Enzensberger, uno dei più brillanti intellettuali tedeschi del dopoguerra, azzarda una sua risposta: si tratta in tutti questi casi, pur così diversi e distanti tra loro, di «perdenti radicali» (Il perdente radicale, Einaudi, pp. 79, euro 8). Soggetti, cioè, che le vicende di un mondo globalizzato o localizzato, ma sempre fondato su una competizione senza esclusione di colpi, hanno messo fuori gioco, sospinto ai margini, privato agli occhi degli altri, e soprattutto ai propri, di ogni valore.
Ma a differenza del fallito che si rassegna alla propria sorte, del vinto che «si prepara alla prossima tenzone», «il perdente radicale si ritrae in disparte, diventa invisibile, coltiva il suo fantasma, raduna le proprie energie e attende la sua ora». L'ora della resa dei conti. Lucidando le armi in una stanza da adolescente o affilando il coltello in un appartamento di periferia, dove i passi del vicino e i pianti del neonato alimentano una rabbia sconfinata e irrefrenabile. Il perdente radicale non si limita a soffrire la miseria della sua condizione, se ne domanda anche la ragione
, cerca il colpevole e immancabilmente lo trova. Che si tratti dei vicini che trascinano le sedie sul pavimento o dello strapotere di una grande paese, del complotto internazionale o degli zingari accampati sull'altro lato del viale. Certo, nel suo sordo rancore e nel suo desiderio di vendetta, è un caso singolo, una anomalia, ma una anomalia che la contemporaneità riproduce in serie, moltiplica a ritmo vertiginoso andando a infoltire a dismisura le file dei perdenti radicali. Cosa accade allora quando questa molteplicità di sconfitte singolari incontra una comunità pronta ad accoglierla, una patria delle frustrazioni e un collante ideologico in grado di sfruttarne la potenza distruttiva e
autodistruttiva, i due lati inscindibili del perdente radicale?


L'io ferito


Per un intellettuale tedesco il pensiero non può che correre all'«onta» del trattato di Versailles, alla frustrazione del 1919, alla «congiura giudaico-bolscevica» contro il popolo germanico e al nazionalsocialismo che, capitalizzando il sentimento della sconfitta, conduce ineluttabilmente la Germania intera verso la guerra di sterminio e l'autodistruzione. «Volete la guerra totale?», tuonava Goebbels nel suo famoso discorso allo Sportpalast nel 1943, e l'adunata oceanica gridava il suo immancabile «sì» alla corsa collettiva verso la catastrofe. Verranno poi signori della guerra e movimenti armati, al centro del mondo e alla sua periferia, più o meno affetti dal fanatismo e dalla perdita di realtà, pronti a raccogliere gli sconfitti della storia o della vita quotidiana. Anche se in molti casi non tutto e non sempre può essere imputato al paradigma del perdente radicale e al suo difetto di razionalità politica. L'ingiustizia e lo sfruttamento non possono essere ridotti a semplici fantasmi dell'io ferito e la violenza a spirito di vendetta.
Oggi, sostiene Enzensberger, tramontata la stagione delle utopie rivoluzionarie, vi è un solo movi
mento all'altezza dei tempi, capace di mobilitare questo dispositivo su scala globale e con l'ambizione di coinvolgere grandi masse distribuite in numerosi paesi. Si tratta dell'islamismo. Esso dispone di tutte le leve necessarie per trasformare la moltitudine di perdenti che la globalizzazione dissemina lungo il suo cammino in una forza politico-militare dirompente. Innanzi tutto dispone della «frustrazione araba», quel sentimento, circonfuso dal mito dell'età dell'oro, che vive il declino secolare di una civiltà, che si era affacciata, vincente e innovativa sulle rive del Mediterraneo all'epoca del califfato, come una intollerabile sconfitta inflitta ai «credenti» dalle schiere sterminate e sopraffattrici degli «infedeli», coloro che «non credono in nulla», rinnovata dal colonialismo e dallo scambio ineguale.

Dispone poi del paragone, drasticamente sfavorevole, tra le condizioni di vita nelle società arabe e quelle opulente dell'occidente.


Tolleranza revocata


Ma non solo, altre società, altri grandi paesi, già vittime della colonizzazione o di invasioni straniere, si pensi all'India, alla Cina, al sudest asiatico, presentano una dinamica di sviluppo senza paragoni con il mondo arabo. Né il nazionalismo, né il socialismo d'importazione, né le improbabili e mutile esperienze di democrazia parlamentare hanno saputo smuovere questa secolare stagnazione. La ricchezza del petrolio ha mantenuto le élites arabe nella pigra condizione del rentier e le masse in quella di clientele più o meno insoddisfatte. Le une e le altre inclini a ignorare i fattori endogeni di questo declino e a enfatizzare la potenza oppressiva del nemico (l'America, Israele, il materialismo ateo dell'Occidente). Qui sarebbe una intera società, o addirittura una intera civiltà, ad avere sviluppato il sentire del perdente radicale, tenuto insieme e potenziato da una religione strettamente intrecciata con il costume e la politica, di cui costituisce la fondazione stessa.
Tuttavia, argomenta Enzensberger, l'islamismo non può vincere la sua «guerra totale», ponendosi come obiettivo dichiarato il califfato planetario e la distruzione di tutti gli infedeli. E dunque finirà col volgere, come già il terzo Reich, la sua volontà di distruggere l'avversario in autodistruzione. Una intera civiltà starebbe dunque correndo verso il suicidio e l'autoannientamento, non senza imporre per lungo tempo e al mondo intero una condizione di insicurezza e di minaccia capace di revocare tolleranza, diritti e libertà anche nel cuore dell'occidente democratico. E, il destino singolare dell'attentatore suicida, di questa generale tragedia costituirebbe al tempo stesso il prodotto e la premessa, nonché il distillato più puro.

Il ragionamento è suggestivo e non privo di verità, tuttavia, privilegiando il livello delle mentalità e delle autorappresentazioni, non da conto della razionalità, sia pure una razionalità perversa, che aldilà di ogni roboante proclama, continua a misurare i mezzi con i fini. E se pure l'ideologia islamista dichiara una guerra santa planetaria e infiamma le masse con le sue visioni apocalittiche, non per questo non guarda a più concreti e perseguibili obiettivi (come gli equilibri politici nel mondo arabo, la difesa delle vecchie gerarchie dagli effetti della modernizzazione, o lo spazio di autonomia e di potere dell'immigrazione islamica nel mondo), per raggiungere i quali non disdegna astuzie e compromessi. Ma, se pure ci atteniamo all'impianto classicamente kulturgeschichtlich proposto da Enzensberger, c'è qualcosa che non quadra. La figura del perdente oscilla, si sottrae a una precisa delimitazione, ma soprattutto molti dei suoi connotati entrano a far parte in forma più o meno intensa e politicamente dirompente di soggetti che perdenti non sono affatto.

Rischia insomma di riguardare indistintamente tutti «perché il vincente definitivo non può esistere» o di lasciar fuori buona parte delle sorgenti, razionali e irrazionali, della violenza che pervade il nostro tempo. Essendo la violenza non una attività onanistica, ma una relazione. Così, l'argomentazione di Enzensberger coglie con acume ciò che alligna nel campo islamista, ma lascia in ombra ciò che accade dall'altra parte.


Il declino dell'Occidente


Su questo versante, abbandona, infatti, l'esame dell'autopercezione soggettiva, delle mentalità, degli stati d'animo e delle ideologie, denunciando invece i fattori oggettivi: il capitalismo, l'impero, la globalizzazione, la concorrenza, i rapporti di forza nel mercato, che moltiplicano vertiginosamente il numero di coloro che soccombono, la massa dei perdenti. Come se l'universo politico fosse diviso in un campo illuminato dal pensiero razionale, compresi i suoi aspetti malvagi e devastanti, e un altro campo, quello dei perdenti, dove l'irrazionalità autodistruttiva domina rappresentazioni e comportamenti. Tuttavia, l'Occidente è a sua volta afflitto da un senso di minaccia incombente che lo spinge alla ricerca di un collante ideologico, a scapito della molteplicità e della diversificazione che ne contraddistinguono la storia,nonché del suo celebrato razionalismo, fino ad invidiare al mondo islamico la potenza del suo integralismo.

Su questo punto il pontefice tedesco non teme di essere esplicito: di fronte alla forza assoluta della fede islamica, l'Occidente relativista, tollerante e incline a passare i «valori» al vaglio della democrazia è «perdente». Solo restaurando la certezza assoluta di un sistema di valori resistenti ad ogni compromesso esso potrà vincere la sfida. Solo il discorso identitario e il richiamo alle radici «cristiane» potrà rimuovere la fragilità che sottende la forza economica tecnologica e militare delle democrazie occidentali. Perdente l'Occidente si percepisce sul piano demografico, perdente nella ragionevole convinzione che non potrà salvaguardare all'infinito i suoi privilegi, la sua opulenza, il suo tenore di vita, tagliando fuori la maggior parte dell'umanità, perdente di fronte al flusso inarrestabile dell'immigrazione. E la minaccia si traduce in una chiamata alle armi, vede ovunque moltiplicarsi il numero dei nemici, taglia corto con le finezze garantiste della democrazia e dello stato di diritto.
Sul piano interno, l'allarme sociale, le dilaganti politiche securitarie, l'insofferenza per ogni accenno alle cause sociali della devianza e del crimine (la colpa starebbe tutta e solo nella volontà malvagia del criminale) inducono il cittadino occidentale a considerarsi vittima potenziale e bisognosa di protezione dall'incombere di una violenza pervasiva e indeterminata. E questa propensione a considerarsi, prima di ogni altra cosa, come una «vittima potenziale» potrebbe essere considerata, senza eccessive forzature, una sorta di sentire da «perdente preventivo». Per queste
ragioni, più del paradigma del perdente radicale evocato da Enzensberger, è un'altra categoria quella che mi sembra meglio tenere insieme le diverse forme contemporanee dell'inimicizia, nonché la dimensione individuale e quella collettiva: il «risentimento».


Lo spirito di vendetta


Il risentimento, non privo di una connotazione moraleggiante, prende di mira, come una colpa, l'altrui benessere, assimila ricchezza a corruzione. Coltiva lo «spirito di vendetta», elegge la propria condizione di disagio a unità di misura, considera la diversità (quando non riesca a plastificarla nell'ideologia del «politicamente corretto») come un affronto o una minaccia. E', come aveva ben visto Friedriech Nietzsche, il lato oscuro, sordido, maligno, del desiderio di uguaglianza, la malattia, tutta occidentale e «giudaico-cristiana», del socialismo e della democrazia. La pretesa di moralità del risentimento lo imparenta direttamente con le dottrine religiose e con tutto l'armamentario concettuale della «personalità autoritaria». Ma esso non scaturisce da una sconfitta, da una caduta. L'insofferenza, l'invidia, l'idea che altri godano di benefici immeritati, che qualcuno abbia violato il principio di prestazione o la sacra legge dello scambio di equivalenti sono più che sufficienti ad alimentarlo. L'immigrato, il collega «nullafacente», la gioventù chiassosa, l'ebreo, il ladruncolo, la prostituta, sono lì a insidiare il nostro modo di vita, a «toglierci qualcosa». Il risentimento penetra in modo capillare la politica contemporanea, attraversa oriente e occidente, permea la democrazia, viene chiamato a mobilitare gli uomini armati di cinture esplosive, così come i cittadini armati di scheda elettorale.

Funziona nella dimensione globale della guerra (dalla ex jugoslavia all'Iraq) così come nella microfisica della violenza privata. E'il risentimento che tiene insieme i coniugi assassini di Erba e i «martiri» di Al Qaeda, il razzismo della lega lombarda e l'antisemitismo arabo, Oriana Fallaci e gli ideologi dell'integralismo islamico, gli elettori di G. W Bush e quelli di Ahmadinejad, i teppisti dello stadio e i benpensanti della «tolleranza zero», i vincenti e i perdenti, i primi e gli ultimi. I poteri grandi che governano il mondo e quelli piccoli che ne governano pezzi, i pastori del gregge e gli strateghi del capitale, lo sanno bene e se ne servono a piene mani.