giovedì, settembre 28, 2006

L'invasione molecolare


Il Critical Art Ensemble è un collettivo di artisti e scienziati nato nel 1987 che attraverso performance teatrali, esperimenti in vivo e sabotaggi nonviolenti si è dedicato a esplorare le intersezioni tra arte, biotecnologia e attivismo politico. E' ora uscito in italiano il loro libro dal titolo L'invasione molecolare, qui sotto riporto un articolo di recensione dell'edizione originale uscito a maggio sul sito Jekyll-comunicare la scienza de la SISSA di Trieste.

Nel laboratorio dei bioartisti
di A. Delfanti

"Critical Art Ensemble" è un collettivo di cinque artisti di varie specializzazioni dedicato all'esplorazione delle intersezioni tra arte, tecnologia, politica radicale e teoria critica".

Si presenta così questo gruppo statunitense - tra i fondatori del movimento della bioarte - che del 1987 ha intrapreso un complesso percorso di confine per interrogarsi sulla tecnoscienza in una forma critica, senza trascurare l'interazione con il pubblico.

L'obiettivo è puntato sulle forme di rappresentazione del vivente e della scienza che le biotecnologie hanno contribuito a creare e che, contemporaneamente, utilizzano a piene mani.

Non solo arte

Il punto di forza del Critical Art Ensemble sono le sue performance, che hanno luogo in diversi festival, esposizioni e spazi pubblici in Europa e negli Stati Uniti.

Grazie all'immediatezza della rappresentazione artistica e alla possibilità dell'esperienza in prima persona, i visitatori possono cogliere il funzionamento di un laboratorio biotecnologico e alcuni dei meccanismi che caratterizzano le tecnologie di intervento sulla materia vivente. Comprese le incursioni nei territori delle tecniche riproduttive e delle armi biologiche.

In GenTerra, per esempio, si produce un batterio transgenico e se ne può decidere il rilascio nell'ambiente. In Cult of the New Eve si immagina (e si pratica) una religione basata sul genoma umano. In Free Range Grain si testa la presenza di transgeni nelle derrate alimentari.

Il sapere tecnoscientifico viene messo in relazione con l'immaginario per evidenziare le contraddizioni insite nell'impresa scientifica in un'era di stretto rapporto con i grandi capitali privati.

Immagine #3
Soia Roundup Ready di Monsanto in un'installazione dell'Ensemble. (Foto: www.critical-art.net)

Dentro la scatola nera

L'intuizione che permette all'Ensemble di avvicinare il pubblico è, in definitiva, il tentativo di rendere accessibili i luoghi e i meccanismi di produzione del sapere tecnoscientifico: permettere a tutti di fare esperienza diretta del laboratorio biotecnologico e delle sue implicazioni sociali, ambientali, politiche.

Per usare una metafora, l'obiettivo è quello di "aprire la scatola nera" della scienza, per mostrarne il funzionamento, e poi demistificarla. Perché "il processo scientifico non appare mai pubblicamente, appaiono solo i suoi miracolosi prodotti", sottolinea l'Ensemble. "Noi vogliamo portare i routinari processi della scienza al pubblico. Farglieli vedere e toccare."

Chiunque, sperimentando in prima persona all'interno della performance, può conoscere e discutere problemi posti dalla scienza senza la mediazione di esperti o scienziati, e così partecipare a quella che, in fondo, è un'attività umana e sociale.

Una via che porta a un'idea di scienza pubblica, nella quale anche i non esperti hanno diritto di parola.

Immagine #7
Un partecipante con i suoi batteri transgenici. (Foto: www.critical-art.net)

Il lavoro dell'Ensemble si posiziona in una terra di nessuno situata tra l'installazione artistica, l'interazione diretta con le biotecnologie e la comunicazione politica. Della riuscita integrazione fra queste tre forme di espressione è responsabile l'anima multiforme del collettivo, composto da artisti che sono contemporaneamente ricercatori, comunicatori e attivisti. Capaci di combinare abilità artistiche e comunicative con l'analisi critica, anche tramite le risorse web e i diversi libri pubblicati con il loro nome collettivo. Sapere "in azione" Gli open lab del Critical Art Ensemble sono esempi di intervento creativo nella comunicazione della scienza, luoghi aperti alla fantasia del pubblico, nei quali ognuno può formarsi "in azione", costruirsi un sapere critico mai disgiunto dalle conoscenze scientifiche. Nelle intenzioni dell'Ensemble, una scuola di resistenza all'invasione molecolare, come recita il titolo del loro nuovo libro, il primo tradotto in italiano. Si tratta di fornire mezzi culturali e politici per affrontare i problemi legati alle nuove biotecnologie e allargarne i processi decisionali. Oltre, naturalmente, a servire una buona porzione di cibo per immaginari affamati di visioni critiche della scienza. ( 02 maggio 2006 )

martedì, settembre 26, 2006

Carry Grant e You Tube


Finalmente, dopo enormi sforzi, sono riuscito a capire come postare un video sul mio blog... a molti sembrerà un'esagerazione ma ogni volta che mitrovo a tu per tu con qualche nuova applicazione telematica è la stessa storia: prima non ci capisco un cavolo e vago senza meta per capirci qualcosa, poi dopo avere digerito la prima fase inizio a capire da che parte sono voltato e quindi, per prova ed errori, riesco solitamente a raggiungere i miei obiettivi.

Ed anche questa volta è stato così!



Il video che ho postato è dedicato a Carry Grant. Dopo l'uscita anni fa di 54 dei Wu Ming e l'immagine da lì profusa di Carry Grant e della sua storia sono assai convinto che l'attore sia a pieno titolo un "simbolo transatlantico di classe ed eleganza, un mito che dura ancora oggi".
A sviscerare il mito di Carry Grant è uscito il libro "Cary Grant. L'attore, il mito", edito da Marsilio, a cui è dedicata una parte dell'ultimo numero di Giap (la webzines della Wu Ming Foundation) che così introduce il video: "un interessante video-esperimento di Valentin Spirik. Costui ha preso la commedia del 1940 "His Girl Friday" (titolo italiano "La signora del venerdì", con Cary Grant e Rosalind Russell) e ha tagliato tutte le parti di dialogo, lasciando solo gesti, movimenti, azioni. Il risultato sono otto minuti di puro linguaggio del corpo, espressioni facciali, spostamenti coordinati, passaggi da uno spazio all'altro. Emerge la componente cinetica della recitazione del Cary trentaseienne, ancora sopra le righe eppure già tendente a quella "performance controllata, stilizzata e sottotono" (citiamo Barbara Grespi, in un saggio contenuto nel libro) tipica dell'ultima fase della sua carriera. In questo film, "trasparenza e invisibilità dell'artificio" si contendono ancora il primato espressivo coi residui del passato saltimbanchesco, ma sono già i valori a cui tende Cary, possiamo vederlo lavorare tra le battute e puntare in quella direzione".

Buona visione!

lunedì, settembre 25, 2006

La Spagna della speculazione e dell'abusivismo

Proprio come avevo sospettato durante le mie vacanze spagnole, le coste spagnole sono ricolme di obbrobri edilizi e di verdissimi campi da golf: sapete, che fossero degli obbrobri i miei occhi non ne avevano dubbi, però non sapevo se questi fossero pure regolarmente licenziati (con le consecutive riflessioni sulle politiche del territorio messe in pratica nella Spagna di Zapatero...).



Ma non si pensa mai male abbastanza: nel documento che ogni anno rende noto Greenpeace sulla situazione delle coste spagnole sono raccolti dati inquietanti. Negli ultimi cinque anni sono state approvate licenze edilizie per 2.630.000 case.
La costa stá subendo un attacco indiscriminato da parte di potenti agenzie immobiliarie internazionali che, con la complicitá degli amministratori locali, costruiscono paesi, villaggi interi con centinaia di case identiche in zone dalle scarse risorse idriche.
Questo meccanismo stá accelerando la desertificazione di immense aree del sud. I piú accaniti sostenitori del mattone propongono deviazioni fluviali per alimentare gli assetati campi da golf che servono da specchietto per le allodole per gli investitori europei.

giovedì, settembre 21, 2006

Come andiamo frnc?


Questa domanda non me l'ha fatta nessuno, ma per me è a questo punto d'obbligo provare a rispondermi: "come va frnc finoaquituttobene?".

La risposta in parte sta già nella domanda, poichè se tutto fosse o.k. non ci sarebbe motivo di proporre una seduta di autocoscienza nel e sul blog... però va da sé, come tante altre volte capita che ciò che non va non sia ben identificabile, ma piuttosto si traduca in un senso di disagio, un piccolo tarlo che rode, rode, rode... (senza esagerazioni, la notte dormo...) .

Sarà la mia difficoltà nel calarmi in una forma di comunicazione - quella mediata al computer - che come mi ricordava qualcuno è ancora prettamente passiva, ma devo dire che mi manca lo scambio e la possibilità di discutere. Ciò tra l'altro conferma per me la presenza di difficoltà - che se non possiamo definire oggettive travalicano di molto la sfera soggettiva - nel farsi mittente di un messaggio, nel mostrarsi (anche se la vulgata sulla Rete considera l'anonimato la chiave del superamento di ogni inibizione...). Lo dico perchè se in questo spazio riesco a prendere la parola, in altri contesti in cui io sono uno dei "fruitori passivi" misuro tutta la fatica del prendere la parola.

Ad alcuni sorgerà il dubbio che queste mie difficoltà non riguardino poi tanto il blog, ed infatti non so quanto sia questo il problema. Ma il blog è per me ora una sorta di piccolo trampolino nella cyber-arena e lo uso come campo sperimentale, cerco di guardare da vicino dinamiche che da altri belvedere è difficile anche solo scorgere.

Intanto si va avanti, con un proposito fra me e me: aumentare i post "farina del mio sacco".

mercoledì, settembre 20, 2006

Nasce il Piratenpartei tedesco

Dopo la nascita del Partito dei pirati svedese, dopo che in Francia e Stati Uniti altre formazioni sono nate sulla stessa onda d'identità e sullo stesso campo rivendicativo, ora si aggiunge anche la neonata formazione tedesca: il Piratenpartei, appunto.
In Italya le neoformazioni piratesche europee hanno attirato l'attenzione ma non hanno acceso nessuna miccia, vedremo come continuerà la proliferazione di queste formazioni e come si aggireranno per l'Europa.

Queste le intenzioni del Piratenpartei tedesco:


1. Accesso aperto: le cose che nascono come ricerche finanziate dallo Stato non possono tradursi in brevetti di impresa controllati da privati.

2. Revisione completa del diritto d'autore affinché vengano riconosciuti i diritti del cittadino e del consumatore.

3. Ristabilimento della privacy contro le tendenze al controllo e al monitoraggio. Assoluta trasparenza del processo amministrativo e decisionale dello Stato.

4. Abbattimento delle rendite di posizione nelle TLC e apertura alla connettività globale a basso costo oggi possibile.


Allo stesso modo segnalo la non esaltante esperienza del Partito dei pirati nelle elezioni svedesi, infatti niente raggiungimento del quorum e poche preferenze. Qui la notizia.

martedì, settembre 19, 2006

Storia, verità e finzione

8872854296g.jpgÈ un’epoca confusa, questa. Non più difficile di quelle passate. Più confusa sì. E nella confusione accadono cose contraddittorie. Interessanti e stupide. Attraenti e ripugnanti. Nel campo dell’arte, le nuove tecnologie aiutano gli artisti a fare quello che devono fare, cioè a guardare con altri occhi e a far guardare con altri occhi. I vecchi temi, le fiabe, i racconti, la tradizione orale e la tradizione scritta, si mettono insieme a fare un viaggio in cui le cose si mescolano restando se stesse. Qui la memoria resiste per la semplice ragione che è rinnovata. Pinocchio o Amleto acquistano una dimensione diversa, ma senza perdere i loro tratti caratteristici. Si tratta anche di un esercizio di memoria, di quell’esercizio grazie al quale riconoscendo i tratti familiari di qualcosa che ci è noto, riusciamo a cogliere, anche proprio per questo, il mutamento di senso che le storie narrate ora comunicano. Il feticismo delle merci domina a tal punto che non ci accorgiamo di quanto ci sia entrato dentro, si sia naturalizzato, entrato nel nostro modo di essere. Esso domina il nostro attuale senso del mutamento.

La differenza che il pubblicitario ci fa cogliere tra una merce e l’altra che le è concorrenziale e che le somiglia, non ha propriamente a che fare con il mutamento. Si tratta invece delle differenza di quel gioco del mercato che sta condizionando tutto il nostro modo di vivere e di pensare, a cui soggiaciamo quasi senza rendercene conto. È il gioco del cambiamento debole, la finta orgia del nuovo, che si propone incessantemente come un valore e che, proprio a causa di quell’incessantemente, si è logorato. Il conformismo oggi ha i tratti del nuovo e del cambiamento. Viviamo l’epoca della caricatura della modernità. La finta orgia del nuovo uccide la memoria. Chi si ricorda della prima guerra del Golfo? Nessuno. Ogni tanto giunge sentore di qualcosa che ancora accade in Afghanistan. Ma qualcuno ha memoria di quella Guerra che l’occidente presentò come guerra di liberazione? E del Kossovo e della missione Arcobaleno? Tutto è nel calderone del già dimenticato. Tutto è confuso. Un tempo tornare al passato era ritenuto necessario per comprendere se stessi, ora al passato ci si va con veloci viaggi organizzati, vitto e alloggio compresi nel prezzo (vini esclusi), giusto il tempo di qualche veloce e fugace fotografia. Stiamo diventando tutti giapponesi. Statunitensi e britannici hanno fatto credere che Saddam Hussein avesse le armi nucleari. Fatta la guerra, si è scoperto che forse non le aveva. Ma ormai il gioco era stato giocato. Quello che colpisce e attanaglia la mente non è il senso dell’inganno, ma il fatto che l’inganno stesso è accettato quasi come un evento naturale. Non sconvolge nessuno. È come la corruzione: accettata ormai come parte delle cose di questo mondo. E così pure la perdita di memoria, grazie a cui gli impuniti hanno campo e gloria. Nel campo della comunicazione politica la perdita di memoria sta diventando sempre più uno strumento del fare politica. Il presidente del consiglio o il portavoce di un partito fanno una dichiarazione o rilasciano un’intervista i cui contenuti potranno essere corretti o smentiti qualche giorno dopo. Fra le parole e le cose non vi è più alcun legame. Nessuno si aspetta una corrispondenza fra esse, ma almeno un nesso dovrebbe pur esserci, e invece non c’è. Tuttavia il vero punto è che quando il politico di turno rilascia una dichiarazione, non vi è memoria. Non c’è più un filo che lega quel che aveva detto, corretto, smentito qualche giorno prima e quel che dice ora. Si ricomincia sempre da capo. E questo ricominciare da capo, questa perdita di memoria, questo frastuono di parole che cessa improvvisamente senza lasciare traccia, è l’espressione del crollo dei contenuti in favore del personaggio. L’aria di familiarità, il riconoscimento sono dati dalla fama del leader, che è sempre presente nelle case di tutti attraverso la tv. Presenze senza storia. O ci sono tutti i giorni o spariscono. Oggi, la metamorfosi che consensualmente stiamo vivendo e che da cittadini ci sta trasformando in sudditi, passa per la perdita della memoria, per l’ossessionante esibizione del nuovo, per l’assoluto prevalere del fascino personale del leader sui contenuti rispetto a cui vincolare patti, programmi, progetti. Il solo accennare a queste parole, patti, programmi, progetti, provoca strane sensazioni di vecchio, di desueto, di inessenziale. Oggi si può sputtanare pubblicamente chiunque facendo riferimento a contenuti che possono essere falsificati con tranquillità per la semplice ragione che nessuno andrà a controllare le fonti. Non c’è tempo, non c’è voglia, non c’è memoria.
È un’epoca confusa. Produce attrazione e ripugnanza. Vecchi conformismi sono per fortuna saltati. Ma se ne affacciano di nuovi. La perdita di memoria facilita loro la strada. Non abbiamo più il coraggio di chiederci dove, per esempio, stia oggi il confine tra il terrorismo e la lotta di un popolo contro l’oppressione, anche perché non riusciamo a voltarci indietro nella storia per chiedercelo e ci basta sapere che noi, l’Occidente, la Democrazia, siamo dalla parte giusta, quella dove sta il bene e dove non alligna il male. Ma dobbiamo domandarci: cosa vi è di democratico, di giusto, di buono in una perfetta visione del mondo dove il senso della critica si dissolve nei mille rivoli di un fiume che non scorre, dove non vi è più spazio per guardare con altri occhi?

La memoria oggi si annebbia nello spazio televisivo di pochi giorni, ma tutto cominciò con la Guerra del Golfo. Saddam Hussein invase il Kuwait e l’Onu diede il via libera alle truppe americane ed europee allo scopo di rimettere le cose al posto giusto. Nessun dubbio: Saddam e il suo regime erano colpevoli, avevano violato – ed era vero –, un diritto: l’Iraq doveva essere punito. Poi vi fu la tragedia del Kossovo. Venne deciso l’«intervento militare umanitario» e così fu. Poi giunse terribile e inaspettato l’11 settembre del 2001, a cui seguì l’intervento militare in Afghanistan. Poi di nuovo l’Iraq, questa volta senza l’Onu e con un’opinione pubblica mondiale generalmente ostile, preoccupata e spaventata di fronte a una guerra preventiva che gli Stati Uniti e l’Europa hanno fatto in nome della democrazia, della libertà, dell’occidente, ma soprattutto in nome degli stessi Stati Uniti, neo portatori di una missione apocalittica e dunque, con buona pace dei teorici della fine della storia, nuovi depositari dell’incedere della storia universale. Il profeta Daniele aveva visto nel sogno di Nabucodonosor il succedersi di quattro imperi universali, la cui identificazione fu disputata e contesa per secoli da filosofi, da nazioni e da imperi. Ora sono gli Stati Uniti gli ultimi portatori, armati e tecnologici, liberi e democratici, del destino della storia, un destino dove il riconoscimento degli altri tende sempre più a doversi produrre in un deserto.

A ben guardare la successione delle guerre in questi anni recenti, non può sfuggire un elemento. L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq fu ingiusta, l’aggressione dei Serbi nei confronti dei kossovari fu ingiusta, l’11 settembre fu ingiusto, i Talebani in Afghanistan furono ingiusti. La guerra degli Stati Uniti è stata contro azioni ingiuste da parte di regimi dittatoriali e del terrorismo. Per questo molti ritennero che in Kuwait come nel Kossovo, come in Afghanistan si doveva intervenire. E vi credettero. Credettero cioè che l’intervento americano fosse l’unica soluzione adatta a risolvere delle tragedie umane, sociali, politiche. Il rimedio appariva peggiore del male. Ma non si tratta solo di questo. L’attuale guerra contro l’Iraq è il risultato di un’escalation che, in modo costante, sta vedendo realizzarsi una nuova strategia politica e militare degli Stati Uniti per il controllo e il dominio sul mondo. Con la guerra umanitaria nel Kossovo gli Stati Uniti ottennero uno stravolgimento del ruolo e dell’identità della Nato. Ora, con questa guerra, l’Onu ha ricevuto un ulteriore colpo di maglio. Dopo la caduta del muro di Berlino l’assetto mondiale era destinato naturalmente a mutare, ma questo mutamento sta prendendo le truci fattezze di un governo come quello statunitense che, assieme a quello britannico, in nome della democrazia, della libertà, dell’umanità fa guerre illegittime, preventive, intrise di un terribile mélange di manicheismo (il bene contro il male) e di crudo interesse (cominciare a «mettere ordine» in Medioriente), di un inquietante intreccio tra desiderio di vendetta dopo l’11 settembre e voglia di riaffermare assai realisticamente e concretamente la propria potenza.

Qual è il nesso fra guerra preventiva, potenza, vendetta, manicheismo da un lato e democrazia e libertà dall’altro? Perché un nesso, per quanto atroce, dovrà pure esservi. Quanto più forti e rigidi appaiono i messaggi che dividono il mondo tra bene e male, tanto più angosciante è il dubbio che guerra preventiva, potenza, vendetta, manicheismo stiano spaventosamente intrecciandosi con le nostre parole sacre, cioè democrazia e libertà. Possono convivere? Temo di sì. Anzi, stiamo entrando dentro questa strana convivenza. Certo, dipende dal tipo di democrazia e dal tipo di libertà. Ma il punto non è soltanto questo. Lo è, ma non soltanto. Il fatto è che stiamo entrando sempre più dentro un sistema di vita dove le libertà istituzionali tendono a intrecciarsi con una subliminale perdita delle autonomie collettive e individuali, dove il culto del successo, dietro la sua apparente dinamicità, stilla messaggi spietati e autoritari, dove il ritorno delle gerarchie rappresenta il contrassegno della perdita dell’eguaglianza nelle sue varie forme (economiche, culturali, psicologiche, istituzionali), dove la paura, accentuando oltre ogni dire il bisogno di rassicurazione, spinge i cittadini verso il ritorno ad uno stato di minorità. Si accentueranno processi che si muovono verso una sempre più forte divaricazione fra ceti forti e ceti deboli. E il prevedibile irrigidimento dei fondamentalismi islamici spingerà l’Occidente a irrigidire i propri fondamentalismi e viceversa.

Michel Foucault aveva distinto fra liberazione e pratiche di libertà, riflettendo proprio sul problema, esploso in modo particolare nel XX secolo, secondo cui i movimenti politici che in nome della liberazione avevano effettivamente liberato i loro popoli e le loro nazioni, giunti al potere, padroni della parola liberazione, finivano con l’impedire, di fatto, – è una considerazione già espressa da Hannah Arendt – ogni opposizione che volesse ottenere obiettivi di libertà. Come si fa a lottare in nome della libertà, quando la parola libertà appartiene a coloro contro cui viene opposta? Foucault sosteneva che, proprio per questa atroce contraddizione di cui soffrivano i paesi e gli stati socialisti e nazionalisti, a cominciare da quelli del cosiddetto Terzo Mondo, era necessario attuare comunque pratiche di libertà proprio dove la liberazione si mostrava compiuta.

Credo che il problema si ponga oggi anche per i paesi d’Occidente che fanno della democrazia e della libertà i loro valori più sacri. I movimenti che attuano pratiche di libertà ci sono già. Sono i grandi movimenti mondiali no global, sono coloro che in tutto il mondo lottano e manifestano contro le guerre e i devastanti effetti collaterali della cosiddetta globalizzazione.

È in tale cornice, ma in una chiave indiretta (come si conviene a una riflessione che non si presenta a tesi predefinite, ma intende restare aperta) che sono qui discussi i temi dell’autonomia e della storia a partire da alcuni angoli visuali che vanno da quello della rete di potere nelle considerazioni di Primo Levi sulla zona grigia e il problema della semplificazione della storia a quello del rapporto tra Occidente e Oriente di fronte al tema epistemologico e politico dell’autonomia, dalle contraddizioni dell’universalismo e della storia universale al sacro non religioso e al feticismo come legami tra potere e conoscenza di fronte alla questione dell’altro, dai concetti di cambiamento e irreversibilità al tema della verità nella storia, dai Greci in rapporto ai selvaggi al ruolo dell’utopia tra antichi e moderni.
Sono convinto che se ci si muovesse esclusivamente all’interno della politica (di quella politica che sempre più oggi si mostra come amministrazione del potere, piuttosto che come critica e pratica del progetto e del cambiamento) non si sarebbe in grado di operare una riflessione critica sul significato filosofico-politico di concetti quali autonomia, potere, storia. Penso che una riflessione siffatta debba oggi prendere le mosse da una ricerca sugli aspetti filosofici, storici, antropologici che stanno, per così dire, intorno alla politica, fuori di essa, in tensione con essa.


Tratto da Storia, verità e finzione di Alfonso M. Iacono, manifestolibri

giovedì, settembre 14, 2006

Lombardia: dove la vera Unione si chiama inciucio.


Poiché ritengo da tempo che vada abbandonata la dietrologia, credo di dovermi attenere alla semplice cronologia. Negli ultimi due mesi, in Regione Lombardia sono avvenuti quattro fatti fondamentali.

E’ stato approvato un documento di indirizzo politico per richiedere l’autonomia della Regione, promosso da Formigoni e votato da Ds e Margherita; è stata approvata la nuova legge regionale di riforma dei servizi pubblici locali, che anticipa le intenzioni liberiste del DDL Lanzilotta di messa in gara obbligatoria dei servizi pubblici, con l’astensione dell’opposizione di centro-sinistra; è stata “sdoganata”, prima da Veltroni nel dialogo fra grandi città, poi da Prodi in persona nel rapporto Governo- città metropolitana, la neo-Sindaca Moratti, ora divenuta amministratrice di un centro-destra costruttivo e dialogante. Infine, notizia recente, i Sindaci di Milano (Moratti, centro-destra) e di Brescia (Corsini, centro-sinistra) hanno annunciato l’avvio del percorso di fusione delle rispettive utilities quotate in Borsa con capitale misto pubblico-privato, AEM e ASM, in modo da realizzare entro un anno un’unica società con un fatturato quattro volte superiore all’emiliana Hera, alla genovese-torinese Iride, alla romana Acea. Con il corollario, tutto milanese, dell’inserimento nell’aggregazione futura -con l’incredibile motivazione di aumentare il peso societario della parte pubblica- di Amsa (rifiuti) e di MM (servizio idrico).

Che sta succedendo in Lombardia? O, meglio cosa sta arrivando a compimento dopo quindici anni di strategie di finanziarizzazione dell’economia, di declino e frammentazione del tessuto produttivo, di degrado culturale e dispersione delle relazioni sociali?

Sta avvenendo una ricomposizione dei poteri forti -un’anticipazione del futuro nazionale?- in cui le componenti forti della sinistra moderata - Ds in primis- avendo da sempre abbandonato ogni progetto di costruzione di un blocco sociale alternativo a quello del centro-destra, fino a rinunciare in partenza e ripetutamente a tentare di vincere ogni competizione elettorale, hanno da tempo costruito un pragmatico accordo sulla base di una accurata spartizione di poteri e di interessi, che vede ormai un connubio indissolubile tra centro-destra e centro-sinistra, a livello politico, a livello imprenditoriale (LegaCoop e Compagnia delle Opere), a livello finanziario (la grande partita delle multiutilities).

Ha senso che questo quadro non sia messo in discussione in alcun modo dalle forze politiche della sinistra radicale? Ha senso continuare a parlare di Unione, senza vedere qual è la posta in gioco dentro questa Regione, dentro l’area metropolitana milanese, dentro i distretti produttivi, dentro la riorganizzazione delle infrastrutture, dei trasporti e della mobilità? E non è ora che le variegatissime ma spesso autistiche isole di conflittualità sociale, le reti e aggregazioni di movimento esistenti provino a fare un decisivo salto di qualità, affrontando la situazione al livello adeguato, provando a comporre intelligenza di analisi con capacità di nuova mobilitazione sociale e culturale?

La politica di riduzione del danno, di fronte a questo quadro, prepara solo un maggior danno successivo.

Ne vogliamo parlare?

Marco Bersani (Attac Italia)

martedì, settembre 12, 2006

Piattaforma della manifestazione VERITA’ E GIUSTIZIA PER FEDERICO ALDROVANDI

E' passato oramai un anno e questa triste e sporca vicenda paia non dover mai giungere ad una conclusione che sappia dare ai genitori e agli amici di Federico una verità a cui agrapparsi, per lo meno un briciolo di quella giustizia che non può ridarti un figlio o un amico.

La vicenda è presto detta e viene sommamente raccontata qui sotto, la cosa che più mi stupisce di questo paese - l'italya - non è la possibilità di essere ammazzato a manganellate da qualche "garante" dell'ordine che in pattuglia ci va come se scendesse per le strade di Baghdad, ma come ancora dopo un anno non si riesca a smuovere nulla: la vicenda è piena di punti oscuri, la versione dei poliziotti piena di contraddizioni, insomma ci sarebbe almeno da investigare...

Invece quando pochi giorni fa il Ministro degli Interni riceve a colloquio i genitori di Federico - che appunto chiedono solo l'accertamento dei fatti - uno dei "sindacati" di Polizia non riesce a far altro che cianciare sui giornali e vomitare altre accuse, altro scredito su Federico.

I poliziotti sotto inchiesta potrebbero essere suoi iscritti; oppure no, la rispettabilità delle forze dell'ordine viene al primo posto, anche se per ciò si devono coprire degli aguzzini.

Ma che schifo signori...



FERRARA, 23 SETTEMBRE 2006

All’alba del 25 settembre 2005 il diciottenne Federico Aldrovandi muore ammanettato a faccia in giù, in una pozza di sangue durante un controllo di polizia. Federico era solo, disarmato e incensurato. La Questura di Ferrara all’indomani dei fatti fornisce diverse versioni, ambigue e contraddittorie. Federico viene descritto come un tossicodipendente, un autolesionista, un violento. Nessuna delle tre definizioni corrisponde al vero. Dopo alcuni mesi di estenuante attesa, la madre di Federico decide di aprire un blog per trovare le risposte che la Questura non aveva ancora dato. Da quando la vicenda diventa nota, attraverso i giornali ed Internet, in Italia e all’estero, le versioni contrastanti crollano una dopo l’altra. In Parlamento l’ex ministro Giovanardi ammette che due manganelli sono andati rotti durante la colluttazione. Vengono rese pubbliche le foto di Federico dopo la morte che dimostrano inequivocabilmente la violenza da lui subita. Parte finalmente una vera e propria inchiesta e i quattro agenti coinvolti vengono iscritti nel registro degli indagati. Le peggiori ipotesi di pestaggio suscitate dalle fotografie sembrano trovare conferma nei racconti dettagliati di testimoni oculari.

Ad un anno dalla morte di Federico:

Per chiedere verità e giustizia
Perché si arrivi rapidamente ad un giusto processo
Per difendere la memoria di Federico, a lungo infangata
Perché non accada mai più un fatto simile nelle città d’Italia
Perché eventuali abusi di potere non vengano insabbiati e sia fatta chiarezza su altri casi analoghi, verificatisi negli ultimi anni nel nostro paese

L’Associazione “Verità per Aldro” convoca una manifestazione nazionale a Ferrara il 23 settembre 2006 alle ore 15.

LA MANIFESTAZIONE AVRÀ CARATTERE PACIFICO E NONVIOLENTO, RIFIUTANDO LE GENERALIZZAZIONI CONTRO LE INTERE FORZE DELL’ORDINE, DA CUI CI ASPETTIAMO LO STESSO DESIDERIO DI TRASPARENZA E DI GIUSTIZIA.

Per informazioni e adesioni:
3471340481
manifestazioneperaldro@gmail.com

links di informazione sulla morte di Federico Aldrovandi:

federicoaldrovandi.blog

Guarda da Arcoiris i video sulla morte di Federico Aldrovandi

Il declino dei dischi di successo

Il danese Piratgruppen ha realizzato uno studio sulla vendita dei dischi in Danimarca, registrando un andamento decrescente del mercato in termini complessivi. Colpa del p2p? A leggere ciò che risulta dalla ricerca non necessariamente, piuttosto emerge da questa che certamente il p2p e la condivisione di contenuti musicali incide sul mercato (come ovvio...) ma con risultati diversi da quelli previsti - o almeno non così lineari.
Leggete qui sotto e capirete che il p2p non provoca il calo generalizzato delle vendite, piuttosto incide sui singoli, mentre ha effetti di spinta sui dischi degli autori meno famosi.



Il mercato discografico danese ha subito in soli quattro anni una contrazione del 50%, passando dalla cifra record di 20 milioni di vendite nel 2000, ai 9,8 milioni del 2004.

Un recente studio del ricercatore danese Claus Pedersen, condotto in collaborazione con il Nordic Copyright Bureau (l’analogo SIAE danese), conferma il trend negativo delle vendite.
Al tempo stesso, però, dimostra che la flessione non interessa in egual misura tutti i cd; in realtà sono solo le hit, i grandi successi, che hanno subito un forte calo di vendite, mentre gli album delgi artisti meno popolari hanno addirittura registrato un aumento delle vendite!
Inoltre Pedersen nota che, anche se le vendite totali sono in calo, viene prodotta e commercializzata più musica rispetto al periodo d’oro 1995-2000.

Lo studio di Pedersen conferma l’ipotesi di una redistribuzione delle vendite dei contenuti musicali secondo un modello Long Tail.

Un summary dello studio è disponibile qui.

lunedì, settembre 11, 2006

Io schiavo in Puglia


E' proprio vero che il giornalismo è in crisi nera, anzi che il linguaggio giornalistico segni il passo della crisi quando mette in evidenza ciò che ci mostra Sbancor nell'articolo postato pochi giorni fa. Fa ancora più impressione il pozzo nero in cui si è calato il giornalismo quando si nota che le voci più ascoltate dalle rubriche dei giornali sono quelle degli "opinionisti", che hanno una soluzione pronta per ogni problema, e nella maggior parte dei casi ne hanno per scrivere la loro almeno un paio di volte a settimana...

Ma ecco che a smentire queste tristi conclusioni sul giornalismo arriva un reportage importante, perchè fa pensare che nel giornalismo - forse - tutto non è perduto e perchè racconta quello che gli occhi del giornalista hanno visto, semplicemente.
L'articolo è quello di Fabrizio Gatti (già intrufolatosi come migrante nel C.p.t. di via Corelli a Milano, così come l'anno scorso nel centro d'accoglienza di Lampedusa), pubblicato dall'Espresso e che non poteva non dare scalpore, tanto che immagino che tutti quelli che stanno leggendo sapranno già di che si parla... il reportage racconta delle giornate in cui Gatti si è fatto assumere - per modo di dire - in Puglia come raccoglitore di pomodori, sempre spacciandosi per un migrante e convivendo con loro. Ne esce un quadro sconcertante, niente che non si potesse immaginare ma che comunque si fa fatica a fare, poichè se siamo abbastanza pronti mentalmente per immaginarci episodi di violenza - magari reiterati, magari generalizzati - siamo meno pronti nell'immaginarci un vero e proprio sistema di sfruttamento disumano e schiavistico, in cui le responsabilità delle circostanze raccontate hanno confini labili e coinvolgono un pò tutti gli attori territoriali, dai padroni dei campi ai loro clienti, dai caporali alle amministrazioni locali, dai carabinieri alle aziende sanitarie locali.

Vorrei che tutti leggessero questo reportage, è un esempio cristallino di come primo-secondo-terzo mondo non corrispondano più a una divisione territoriale-statuale ma siano dispiegati senza continuità e sequenzialità su tutto il pianeta, così che anche l'italya possa essere etichettata "terzo mondo".


Questo sotto l'inizio del reportage,
tutto qui.

Il padrone ha la camicia bianca, i pantaloni neri e le scarpe impolverate. È pugliese, ma parla pochissimo italiano. Per farsi capire chiede aiuto al suo guardaspalle, un maghrebino che gli garantisce l'ordine e la sicurezza nei campi. "Senti un po' cosa vuole questo: se cerca lavoro, digli che oggi siamo a posto", lo avverte in dialetto e se ne va su un fuoristrada. Il maghrebino parla un ottimo italiano. Non ha gradi sulla maglietta sudata. Ma si sente subito che lui qui è il caporale: "Sei rumeno?". Un mezzo sorriso lo convince. "Ti posso prendere, ma domani", promette, "ce l'hai un'amica?". "Un'amica?". "Mi devi portare una tua amica. Per il padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare subito. Basta una ragazza qualunque". Il caporale indica una ventenne e il suo compagno, indaffarati alla cremagliera di un grosso trattore per la raccolta meccanizzata dei pomodori: "Quei due sono rumeni come te. Lei col padrone c'è stata". "Ma io sono solo". "Allora niente lavoro".

Non c'è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi. Il caporale vuole una ragazza da far violentare dal padrone. Questo è il prezzo della manodopera nel cuore della Puglia. Un triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San Severo. Nella regione progressista di Nichi Vendola. A mezz'ora dalle spiagge del Gargano. Nella terra di Giuseppe Di Vittorio, eroe delle lotte sindacali e storico segretario della Cgil. Lungo la via che porta i pellegrini al megasantuario di San Giovanni Rotondo. Una settimana da infiltrato tra gli schiavi è un viaggio al di là di ogni disumana previsione. Ma non ci sono alternative per guardare da vicino l'orrore che gli immigrati devono sopportare.

Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d'estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell'Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all'uomo raccontata da Alan Parker nel film 'Mississippi burning'. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l'hanno ucciso.


Adesso è la stagione dell'oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi, come melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta di non sapere. E a fine raccolto si mettono in coda per incassare le sovvenzioni da Bruxelles. 'L'espresso' ha controllato decine di campi. Non ce n'è uno in regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza sleale all'Unione europea. Dentro questi orizzonti di ulivi e campagne vengono tollerati i peggiori crimini contro i diritti umani.



Continua qui.

venerdì, settembre 08, 2006

Cartografi in erba


E' con grande piacere che vi presento Cartografi in erba, un progetto aperto e in continua evoluzione materializzatosi a Trento sull'onda dell'esperienza del Free Festival of Mapping che ha base a Londra.
Il primo sforzo dei cartografi in erba è la realizzazione di una mostra di cartine autoprodotte che si terrà a novembre a Trento presso lo spazio sociale Ci.Cu.Ta, dove saranno esposte una varietà smisurata di rappresentazioni cartografiche che travalicano le scontate - seppur rassicuranti - dimensioni spazio-temporali, mappe che finiranno col rappresentarci il mondo e la realtà nelle sue infinite dimensioni e che al contempo, di riflesso, metteranno a nudo il meccanismo violento e di negazione delle consuete rappresentazioni geografiche; mappe che ancora salteranno da una dimensione all'altra della realtà e che rimescoleranno i simboli grafici delle rappresentazioni "oggettive", anche qui colpendo senza ritegno l'imbecillità di rappresentazioni di parte che riducono le singolarità possibili ad un'unica realtà possibile.
E' già on line il sito che presenta il progetto dei Cartografi in erba e la mostra (li trovate anche nei link a fianco), visitatelo e vedete un pò di rispondere con entusiasmo al richiamo che invita alla partecipazione attiva all'evento.

Come?
Ovviamento tracciando sulle coordinate che a ognuno paiono più approppriate la mappa di ciò che si desideri... sempre e solo con spirito ludico, mi raccomando!

Questa la presentazione:



"esponiamo mappe e cartine autoprodotte dalle provenienze più varie: dalla mappa dei percorsi dei topi nella cucina di Tom alla cartina storica della Copenaghen femminista. Dalle mappe militanti che ci hanno aiutato nelle azioni politiche durante i grandi summit d'inizio millennio (da Londra 1999 a Genova 2001), a intricate rappresentazioni dei sistemi di controllo economici, politici e tecnologici globali.
Dalle espressioni grafiche delle esperienze di rifugiati politici al primo impatto con la terra straniera alla mappa del cuore spezzato di un amante abbandonato.
Dai micro al macrocosmi andata e ritorno.
Perché rappresentare il reale secondo criteri lontani da latitudine longitudine e curve di livello può aiutarci a scoprire nuove e inaspettate connessioni fra le cose. Perché non sempre l'Europa deve essere al centro e il nord di sopra.
Quali quartieri della metropoli sono pericolosi per un cittadino senza permesso di soggiorno? Un ragazzo di colore con status di "clandestino" (sic) è più al sicuro a Porta Palazzo o nelle vie di un centro storico? E una ragazza senza permesso di soggiorno? Forse da nessuna parte."

giovedì, settembre 07, 2006

Il fondamento dei fondamentalisti


Sbancor mi ha sempre convinto, ho sempre ritenuto la sua voce meritoria di essere ascoltata, i suoi messaggi registrati per essere rielaborati ad ogni nuovo evento o giorno. Questo suo post - tratto da Information Guerrilla - si interroga sui media e il loro linguaggio rispetto alle questioni legate a religioni, culture, etnie. Inoltre questo articolo richiama un intervento di Wu Ming 1 su antisemitismo e sionismo, antirazzismo e razzismo che la settimana scorsa volevo postare qui sul blog ma che poi ho lasciato si disperdesse nel flusso dell'infosfera.
Inizia, tra l'altro, con una bella citazione di Etienne Balibar: la distruzione del complesso razzista non presuppone solo la rivolta delle sue vittime, ma la trasformazione dei razzisti stessi e di conseguenza la decomposizione interna della comunità istituita dal razzismo.
La riflessione di Sbancor qui sotto riprende alcuni punti di quel discorso, un discorso che originalmente venne sviluppato nel lontano 1992 da Wu Ming 1 che ancora si firma con le iniziali R.B. e che come dice Sbancor "è un vino giovane, ma di cui già si intuisce il corpo, la forza e gli impeccabili retrogusti che acquisirà con il passare del tempo". Se avete tempo date un'occhiata dunque anche all'articolo
RAZZISMO, ANTISEMITISMO, SIONISMO. Prendetelo e leggetelo come un antipasto, prima del qui sotto IL FONDAMENTO DEI FONDAMENTALISMI...
Ah, e se a qualcuno non bastasse e non fosse sazio delle riflessioni sbancoriane qui trovate un articolo [prima parte e seconda parte] sul Medio Oriente e la guerra in corso dal titolo I TRE FRONTI...

di Sbancor - 4 settembre 2006

Dei tanti linguaggi possibili, il linguaggio giornalistico è, fra tutti, il più volgare. Riduce, banalizza distorce. L’esercizio sistematico della menzogna è la sua caratteristica specifica. Da Emile Zola a Friederich Nietzsche a Karl Kraus, solo per citare alcuni scrittori, l’esecrazione verso l’inchiostro e sopratutto la carta e gli alberi sprecati nell’esercizio della professione giornalistica è unanime e condivisa. Ma quando si parla di religioni, culture, etnie, si raggiungono livelli inarrivabili di stoltezza. Il peggio che la “professione” può dare.
Avevo cominciato a ritagliare e collezionare i pezzi che mi sembravano più meritevoli di essere indicati al pubblico ludibrio. Alla seconda lettura non c’è l’ho fatta. Ho preso Panebianco, Magdi Allam, Rampoldi, Scalfari, e gli altri innominabili e li ho destinati al bidone della raccolta differenziata, indeciso se andassero in quello della “carta” o in quello dei “rifiuti tossici”. Un titolo mi è rimasto purtroppo impresso nella memoria “Romano Prodi: l’Italia è tornata tra i Grandi!”.
C’è tutta l’Italietta fascista, “Donna di Provincia e di Bordello”, se mi è lecito correggere Dante, tutto ciò che mi spinge da tempo a non considerarmi “italiano”.

I Grandi sono quelli che giocano alla guerra. I Grandi sono quelli che decidono il destino dei piccoli. I Grandi sono quelli che hanno incendiato tutto il Medioriente e che se continueranno così scateneranno l’ultima, e definitiva, Guerra Mondiale.
Vedere D’Alema nei panni di Ministro degli Esteri è già troppo forte per il mio povero stomaco. Ma vedere Prodi in quelli di Cavour nella guerra di Crimea è veramente troppo!
Ma i giornalisti altro non sono che lo specchio di una “politica” altrettanto deforme. Nulla ci è risparmiato: pacifisti che sfilano (ad Assisi!) a favore “dell’invio dei soldati in Libano”. D’Alema – impagabile – che dice, a proposito del Libano, che lo Stato deve avere “il monopolio dell’uso della forza”, frase che non avrebbe sfigurato in bocca a un capo del servizio d’ordine del Movimento Studentesco della Statale. Mastella che vuole il permesso di sparare. A chi? E infine Bertinotti e il suo partito - che si era dichiarato addirittura contro qualsiasi forma di “violenza di piazza” e difensore accanito della sacralità è inviolabilità delle vetrine dei negozi milanesi – il quale vota a favore di tre, dico tre, missioni militari! Non è che alla sinistra “estrema”, in quella sinistra a volte dura, ma se non altro sincera e pulita, che si era battuta, da Genova in poi contro la guerra, le cose vadano meglio.
Leggo con orrore sui siti “di movimento” delle vere ovazioni per bande armate che si richiamano a principi e a governi noti per praticare l’omicidio, la pena di morte, la tortura, la discriminazione sessuale, e altre aberrazioni. A teocrazie ladre e assassine che ben figurano al cospetto della Santa Inquisizione e del Potere Temporale dei Papi. Per non parlare dei “supporters” della resistenza irachena, che oggi nessuno sa cosa sia, fra milizie bathiste, sciti, sunniti e “qaedisti”- qualsiasi cosa questo nome voglia dire – milizie che hanno scelto la guerra etnico-religiosa come forma di convivenza. Ogni tanto ammazzano anche qualche americano. Più raramente degli inglesi, italiani e membri di altre forze della coalizione.
E’ vero, anche Kropotkin e Malatesta litigarono sulla Grande Guerra. Il Russo credeva che l’abbattimento delle autocrazie degli Imperi Centrali giovasse alla Causa. Errico Malatesta diceva essere i proletari fratelli fra di loro, la guerra strumento dei potenti e l’unica guerra ammissibile quella di classe. Aveva ragione il vecchio anarchico italiano. Ma erano tempi assai remoti. Capisco che la mia epoca sta finendo. Lo capisco dal fatto di non sapere più dove stare e con chi. La solitudine del pensiero è la prima forma del rincoglionimento senile. O della saggezza. Dipende dai punti di vista.
Poi leggo il pezzo di Wu Ming 1 sul “Sionismo” apparso in Carmilla on line e l’animo torna a rasserenarsi. Un Wu Ming del 1992 è un vino giovane, ma di cui già si intuisce il corpo, la forza e gli impeccabili retrogusti che acquisirà con il passare del tempo. E il testo mi spinge ad approfondire l’argomento che sta rischiando di rovinare definitivamente la mia prossima vecchiaia: la rinascita aggressiva delle religioni come deriva identitaria, negazione della differenza, razzismo, violenza. Recupero dal cestino un articolo. E’ un editoriale del “Corriere della Sera” del 12 agosto di Gianni Riotta. “La prima guerra globale continuerà per molti anni, con fasi lunghe di combattimento e tregua. Non è guerra tra Occidente e Islam, è guerra dichiarata dalla fazione fondamentalista islamica contro le democrazie e contro ogni comunità musulmana che non condivida il puritanesimo settario Wahabi.(…) L’offensiva islamista è impegnata dunque su due campi, contro l’Occidente, da Beirut 1983, a New York 2001, Madrid 2004, Londra 2005 e ora Haifa 2006, alla fitna, la guerra civile tra musulmani.” Vedo Riotta confondersi e non so se lo fa per insipienza, ignoranza o cospiquo fuoribusta passato da oscuri poteri, come già accaduto al suo collega Farina. Sospetto più banalmente abbia preso lezioni di islamismo da Magdi Allam. [...]

...troppo lungo, continua qui.

Il neofascismo dopo il lavoro degli enzimi - parte seconda

Avevo dato conto della prima parte, non me ne aspettavo una seconda ma non posso non segnalarvi questo nuovo episodio...
Naturalmente, come vedete, la risposta è sempre la stessa ed è sempre la più gradita...

di Wu Ming

Accade talvolta che tenutari di situncoli e blogghetti fascisti cerchino su Google Immagini ritratti dei loro eroi (squadristi, gerarchi, loschi figuri del Ventennio etc.).
Per coincidenza accade che su wumingfoundation.com, ogni tanto, noi illustriamo articoli o recensioni con immagini dei suddetti personaggi.
A volte i fasci trovano le immagini e, senza nemmeno andare a vedere da che sito le stanno prelevando, le "richiamano" sui loro blog.
Di conseguenza, quando noi controlliamo le statistiche del nostro sito, troviamo nei referrer indirizzi di siti pieni zeppi di ciarpame razzista et similia.
E' successo nel giugno scorso, e sapete già come abbiamo reagito.
Bene, è successo anche qualche giorno fa, e la circostanza è ancor più divertente.

muti.jpgFacciamo qualche passo indietro. Nel dicembre 2002, sul n.3 di Nandropausa, Wu Ming 4 recensisce un libro di Saturno Carnoli e Paolo Cavassini, intitolato Nero Ravenna. La vera storia dell'attentato a Muty.
Il pezzo è illustrato da una foto del celebre fascistone romagnolo Ettore Muty (cognome in seguito "italianizzato" togliendo la ipsilon), idolo dei repubblichini, martire celebrato dall'estrema destra di ieri e di oggi.
Curiosità: il file della foto si chiama "sburan.jpg". "Sburan". In bolognese: "sborrone", parola che ha diverse sfumature di significato, tra cui quelle di "pallone gonfiato", "megalomane", "esibizionista" etc.

Passano quasi quattro anni. Un giorno di fine estate, l'aquilotto che gestisce il blog di Forza Nuova Rimini si mette in cerca di un'illustrazione per il seguente annuncio che sta per pubblicare:
"Domenica 27 Agosto alle 10 presso il cimitero principale di Ravenna si terrà l'annuale commemorazione dell'eroe Ettore Muti. Ricordiamo che Muti è il soldato italiano più medagliato nella storia della Patria."
L'aquilotto digita "Ettore Muti" su Google Immagini ed ecco che appare una bella foto del suo eroe medagliato, sguardo spaccone, paglia in bocca, visiera un po' calata sugli occhi.
L'aquilotto - pur vivendo in Emilia-Romagna - non si insospettisce per il nome del file, "sburan.jpg". Tantomeno si preoccupa di verificare il sito di provenienza. In quattro e quattr'otto, linka la foto, ottenendo questa pagina.
Da quel momento, chiunque visiterà il blog di Forza Nuova Rimini verrà contato, a propria insaputa, come "visitatore" di wumingfoundation.com. Per questo motivo, controllando i dati di traffico di quest'ultimo sito, notiamo 149 visite "anomale", provenienti da forzanuovarimini.splinder.com.
Andiamo a vedere, e scopriamo l'inghippo.
Seduta stante, decidiamo di sostituire l'immagine di Muti con questa (clicca per ingrandire):

sburan_thumb.jpg

Da quel momento, finché l'aquilotto non se ne accorgerà, i camerati in visita a forzanuovarimini.splinder.com si imbatteranno in questa pagina, che riproduciamo a futura memoria.
L'eroe è stato merdagliato.
Don't steal our bandwidth, or we'll cover you with shit.