lunedì, aprile 30, 2007

Jean Baudrillard

di Beppe Sebaste - da Carmillaonline
(Articolo pubblicato nel 2001 su l'Unità)


Incontro Jean Baudrillard dopo più di vent’anni. Ne avevo 18 quando gli feci la prima intervista italiana su una “fanzine” più o meno alternativa, all’epoca del Beaubourg e dell’esproprio urbanistico del quartiere operaio delle Halles. Scopro con costernazione, rivedendo le sue parole di allora – “iperrealtà”, “simulazione”, potere come “parodia” di se stesso, “simulacro” - che esse descrivevano già il processo vistosamente in corso oggi in Italia e nel mondo, molto prima dei suoi ultimi due libri:
Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, edito in Italia da Cortina, e Lo scambio impossibile, edito pochi mesi fa da Asterios. Che cos’è l’attualità, e che rapporti deve intrattenere con essa il pensiero?

In Italia è la festa della Liberazione, cui non ho quasi mai mancato di partecipare. A Parigi, come forse ovunque ma a un grado più alto, continua come ogni giorno lo smagliante spettacolo di merci e servizi culturali, belli e intelligenti, offerti ai consumi della gente. Le lunghe file per accedere alla più che riuscita esposizione del Beaubourg sugli Anni Pop – scritta bianca su fondo rosa shocking – celebra quell’estetizzazione della società che iniziò con la Pop Art incorniciando oggetti di uso domestico e finì serializzando i volti, non solo quello di Marilyn Monroe o di Mao, ma, nella sostituzione che la televisione ha fatto della realtà, via il Grande Fratello, i volti di tutti noi. Quale differenza oggi tra una porzione qualsiasi del reale e la sua riproduzione e messa in valore come arte o intrattenimento? Quale differenza tra una vetrina, un’installazione, un museo contemporaneo e il deposito degli oggetti smarriti? E tra la realtà e la cosiddetta finzione? “La guerra del Golfo non c’è mai stata”, scrisse provocatoriamente Baudrillard all’indomani dei bombardamenti sull’Iraq, primo evento mediatico a non essere passato per immagini televisive ma solo evocato da esse. Ovvio che il “modello italiano” di iperrealtà, dove la televisione ha sostituito così bene la politica al punto di creare forse, con uno zapping elettorale, la prima dittatura diretta di pubblicitari al mondo, interessi uno come Baudrillard, ma sia anche un po’ banale, per chi vede già da tempo la realtà come una sterminata pubblicità di se stessa.

Gli ricordo come nei suoi Taccuini (Cool memories), nel 1993 notava che “stigmatizzare i milioni di italiani ‘vittime consenzienti’ di Berlusconi, denunciare la stupidità delle masse e avvolgersi nelle pieghe della divina sinistra e della sua democratica arroganza (sia) un’analisi miope e convenzionale della Ragione politica. Le masse ‘cieche’ hanno una visione più sottile, transpolitica forse, poiché sanno che il potere è un luogo vuoto e senza speranza, e che occorre metterci un uomo dello stesso stampo, vuoto, buffone, istrione e ciarlatano, che incarni idealmente la situazione: Berlusconi, ovvero il sistema che ci meritiamo, per quanto ci risulti insopportabile”. Resta che nel mondo delle immagini, dove tutto il reale deve divenire immagine, a prezzo della sua scomparsa, in cui il mondo stesso non è che un fantasma o una clonazione di sé, l’ascesa di Berlusconi, prima nelle televisioni e poi nel vuoto lasciato dalla politica, rappresenta forse proprio la tragica realizzazione di quello slogan del ’68 che pretendeva “l’immaginazione al potere”. E’ quando l’immaginazione va al potere, che l’immaginazione perde il suo potere.
Baudrillard, che è fotografo oltre che filosofo, preferisce parlare allora del silenzio delle immagini, della resistenza che certe immagini compiono di fronte alla violenza del mondo detto virtuale: quelle del grande fotografo italiano Luigi Ghirri, e quelle che egli stesso scatta (segnalo che una mostra di Baudrillard è in corso allo spazio FNAC di Milano).

“La violenza dell’immagine, e in generale quella dell’informazione, o del virtuale, consiste nel fatto che essa fa scomparire il reale. Tutto deve essere visto o visibile. Il commercio delle immagini sviluppa un’indifferenza al mondo reale, che diviene un’inutile funzione o una fantasmagoria, come le ombre sui muri della caverna di Platone. Esempio di questa visibilità forzata è la TV, nelle trasmissioni dove tutto è offerto in pasto alle telecamere e ci si accorge che non c’è più nulla da vedere. Mito di una visibilità poliziesca, di un potere di controllo in cui l’operatore stesso è divenuto invisibile, e si è come interiorizzato negli spettatori, trasformati anch’essi in immagini”. Ecco, in quello che resta oggi della politica, avviene lo stesso processo di svuotamento, di de-realizzazione, in cui la realtà diviene il suo simulacro iperreale e illusorio. E allo stesso modo che nella politica e nel lavoro del linguaggio, possiamo “resistere al rumore, alla parola, con il silenzio; resistere al movimento, al flusso, all’accelerazione e allo scatenarsi dell’informazione coll’immobilità e il segreto silenzioso della foto; resistere all’imperativo morale del senso e del valore con il silenzio del significante puro. Tutto il contrario di un flusso di immagini prodotte in tempo reale, che svaniscono pure in tempo reale, occorre rendersi assenti, per fare sorgere finalmente l’oggetto, evento puro, singolarità”.

A proposito di eventi: nonostante la mia nostalgia per la ricorrenza della Liberazione (guarda caso, mi manca non seguirla “in diretta” su un TG italiano), non posso ignorare con Baudrillard che “il processo di liberazione non è mai innocente, parte da un’ideologia e da un movimento idealistico della storia. Tende sempre a una riduzione dell’ambivalenza fondamentale del Bene e del Male. Buono o cattivo, il fatto di essere “liberato” ci assolve da un male originario (…) eliminazione del continente nero, della faccia oscura, della parte maledetta, assunzione del regno del valore… Il modello roussoiano di una destinazione felice, di una vocazione naturale, di una liberazione, è un’utopia, continua Baudrillard, non si può liberare il Bene senza liberare il Male, e l’ambivalenza è definitiva e senza fine. Solo che, oggi, non essere libero è immorale, e la liberazione è d’obbligo, un sacramento democratico.” Liberato da cosa, e per fare cosa? “L’uomo “liberato” diventa responsabile, a pieno diritto, delle condizioni oggettive della sua esistenza. Destino perlomeno ambiguo: il lavoratore “liberato”, ad esempio, incappa così nelle condizioni oggettive del mercato del lavoro.”

L’infelicità oggi dell’uomo è di galleggiare in un universo virtuale, estraneo e insieme famigliare, e perciò inquietante, dove ogni “senso”, ogni “segno”, deve il suo diritto di esistere ad una equivalenza al “valore”. E’ questo il vero volto della globalizzazione, spiega Baudrillard - ipertrofia e inflazionamento della sfera dell’economia e dello scambio, immensa finzione che ingloba le nostre vite ma che a sua volta “non si può scambiare con niente”. Baudrillard non si limita a descrivere il decesso della realtà e dell’esperienza, ma indica anche alcune vie d’uscita, cioè di salvezza, naturalmente paradossali, passaggi là dove non c’è passaggio (ciò che i filosofi chiamavano “aporìa”), e che per lui si chiamano “silenzio”, “evento”, “singolarità”, “acting out”, concetti di un pensiero critico che si vuole “radicale”. Se la sua formulazione filosofica appare paradossale, è perché qualsiasi liberazione non può che avere inizio nel linguaggio.

La stessa libertà è un’idea, un segno, un valore, e realizzandola l’abbiamo perduta, un po’ come accade per il desiderio. La libertà condivide oggi la sorte di tutti i valori defunti e riesumati dal lavoro del lutto. E penso, ascoltandolo, al bel verso con cui René Char definisce la poesia, “amore realizzato del desiderio che rimane desiderio”. “Bisognerebbe liberarsi della libertà stessa, conclude Baudrillard, così come della volontà, dell’emancipazione. Come scrivo ne Lo scambio impossibile, la nostra società di servizi è una società di servi, di uomini asserviti al loro proprio uso, alle loro funzioni e alle loro performance – totalmente emancipati e totalmente servi”.

(R)esistenza

Sempre in tema di memoria e Resistenza... vi consiglio di "perdere" sette minuti e mezzo per guardarvi il video qui sotto. Mi sembra quasi certamente blob, sicuramente ne ha lo stile: per rispondere alla retorica montante del revisionismo in auge è lo strumento migliore e più efficace. A tante chiacchere e ciarlanerie la risposta delle immagini che ci riportano volti e corpi, parole e pensieri di chi la resistenza la fece.


E' di nuovo EuroMayDayParade!

E domani è di nuovo maydaymayday! Oramai la manifestazione del 1° maggio segna l'arrivo della primavera e si presenta sempre come un'esperienza impossibile da imbrigliare in logoche di parte. E' la parte più bella della MayDay, ancora pià bella da quando è EuroMayDay... emerge sempre lo spirito ribelle e iconoclasta che ci piacerebbe riconoscere in tutti i precari e i cognitari, insomma la Mayday è sempre una bella boccata d'aria!




L'appuntamento milanoide mantiene luogo e ora di ogni anno...

Porta Ticinese, ore 15.00

mercoledì, aprile 25, 2007

25 Aprile 2007... omaggi!

Augurandomi che per tutti sia stato un bel 25 aprile, vorrei aprofittarne per omaggiare in particolare una figura che qualche anno fa scoprii condividere con me la Valle d'origine. Un personaggio non indifferente, in particolare nella storia della Resistenza. Ho quindi trovato un brano dedicato a lui - Pietro Chiodi - scritto da Laura Ciceretti che pubblico in parte di seguito [tratto da alteracultura.org].


Un modo per ricordare tutti attraverso il ricordo del singolo.


“Pietro Chiodi si è dedicato alla filosofia per la stessa ragione per la quale, durante la lotta della Resistenza, fu partigiano combattente: per difendere la libertà e la dignità dell’uomo”. Con queste parole, dense di commozione, Nicola Abbagnano ricordò il compianto professor Chiodi all’Università di Torino.
Oggi, a più di trent’anni dalla sua prematura scomparsa, avvenuta il 22 settembre del 1970, lo ricorderei ancora con le stesse parole del suo maestro, perché Chiodi fu davvero inscindibilmente filosofo e partigiano.

Pietro Chiodi nacque a Corteno Golgi, un piccolo paese montano in provincia di Brescia, il 2 luglio 1915. Conseguì nel 1934 l’abilitazione magistrale e si trasferì poi a Torino, dove si laureò in Pedagogia nel 1939 con Nicola Abbagnano. Nello stesso anno vinse la cattedra di storia e filosofia al Liceo classico Govone di Alba, dove ebbe, tra i suoi allievi, Beppe Fenoglio, che lo ricorderà, con lo pseudonimo Monti ne Il partigiano Johnny:
“Monti si era alzato nella sua orsina massiccità di montanino corretto da anni di esistenza pianurale. Gli diede un abbraccio filosofico”. Monti “sprizzante innaturalmente, anche in riposo, intelligenza dialettica e disciplina filosofica”. ( Il partigiano Johnny, p. 15)
In questo periodo, si legò di amicizia fraterna con il collega di lettere, Leonardo Cocito, che Chiodi ricorderà in Banditi, il suo indimenticabile diario partigiano:
“Oggi io e Cocito abbiamo prestato giuramento. Cocito chiede serio prima di giurare: - E’ necessario per avere lo stipendio? […] Cocito incomincia allora a leggere senza tirare il fiato tutto ciò che c’è scritto sul verbale: numero di protocollo, articolo tal dei tali ecc…[…] e alla fine dice: -Scusate, ho voluto bere il calice fino alla feccia”. E ancora: “Ieri sera è venuto uno studente a chiedere i discorsi di Mussolini. Cocito l’ha guardato serio e poi gli ha detto: - Non hai letto il regolamento? Ci sta scritto che è proibito dare ai giovani libri osceni”. ( Banditi, p. 6)
In Banditi, esemplare diario partigiano, che Davide Lajolo, su L’Unità del 10 ottobre 1946, definì “il libro più vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana”, vi è tutto Chiodi: il Chiodi filosofo e partigiano, il Chiodi interprete di Heidegger e il Chiodi coraggioso difensore della libertà.

martedì, aprile 24, 2007

Roberto Saviano su Manituana

[...] Quello che da anni portano avanti come progetto i Wu Ming è la nuova possibilità di mettere insieme diversi linguaggi, nuove sintassi, comunicative inesplorate. Un percorso che non ha nulla dell'elitarismo dell'avanguardia: come avevano fatto con il loro precedente romanzo '54', i Wu Ming riescono a costruire storie articolate all'interno delle fibre muscolari della Storia. E le alternative al percorso della Storia non sono giochi ingenui o impossibili [...] smontare il monolite della Storia, per cavarci le storie, non racconti, o aneddoti, non scorciatoie da scrittori per far compagnia alla propria fantasia, ma percorsi abbandonati, ignorati, deformati che attraverso il racconto vengono salvati e riportati nel letto del fiume della Storia. Rendere al condizionale il tempo della Storia significa non subirla. Divenire almeno nel tempo della riflessione capaci di determinarla [...].

[I Wu Ming] Non inventano nuovi destini, ma scovano sentieri già tracciati che non sono stati battuti e forse ultimati. Così prende il via il lungo viaggio spazio-temporale di 'Manituana', trasportando il lettore tra i sentieri e i villaggi della grande nazione irochese, alla vigilia di quella guerra di indipendenza americana che ha decretato la nascita di una nuova potenza e il definitivo affrancamento dei 'ribelli' dall'impero coloniale di re Giorgio III d'Inghilterra. Hanno cominciato dal classico "what if...", chiedendosi cosa sarebbe accaduto se i lealisti avessero sconfitto le truppe di coloni guidati da George Washington. Forse sarebbe andata come in Canada, dove le popolazioni autoctone ebbero molte difficoltà sotto la corona britannica, ma non furono oggetto di operazioni di sterminio, come invece accadde negli Stati Uniti.Ma 'Manituana' non è in nessun modo un libro sulla storia dei 'Native Americans', non è l'ennesimo testo sui pellerossa.


Ed è questo forse il segreto della sua necessità, del passaparola che ha permesso al libro di fuggire di mano in mano. È un racconto di una nuova dimensione, occhi nuovi su un momento della Storia fondamentale, dove si stava per generare ciò che avrebbe determinato le sorti del mondo nei secoli successivi. Un raccontare la gestazione del mondo moderno, la gravidanza della Storia che avrebbe partorito il mondo che oggi abbiamo. Ma che avrebbe potuto generare altro. Un "altro" annegato, abortito, ma che è possibile rintracciare in ciò che è stato. 'Manituana' non è cowboy e pellerossa, non i malvagi indiani strappa-scalpi e i buoni colonizzatori porta-civiltà. E non è nemmeno i buoni indiani e i malvagi americani. Atrocità avvengono su ogni fronte. 'Manituana' è per molte pagine l'incontro di mondi, e vuole essere un sismografo delle cinetiche, dei conflitti, e della fusione bastarda e meticcia che l'incontro di diverse culture ha generato. [...]Non c'è nulla dell'immaginario già consolidato.


La sensazione è che il nuovo romanzo dei Wu Ming sembri in qualche misura un dialogo sibillino con la 'Dialettica dell'illuminismo' di Adorno e Horkheimer. Ed è a questo libro che chiedono interlocuzione piuttosto che all''Ultimo dei Mohicani', di Cooper. Il cuore pulsante di ciò che ha portato l'Europa alla Shoah è nella storia della ragione illuminata, e così i Wu Ming seguendo la traccia portano a dimostrare che proprio i padri della democrazia americana furono i fondatori del massacro, coloro che fondarono le premesse (e non solo quelle) per non accogliere le energie che stavano generandosi nell'incontro tra indigeni, non vedendo nel mezzosangue l'origine degli Stati Uniti d'America, ma portando avanti un'idea di civiltà e civilizzazione che somigliava a un modello in grado di legittimare le nuove aristocrazie coloniali contro le aristocrazie inglesi e francesi del Vecchio continente [...]Dalla parte sbagliata della storia, così come recita il progetto dei Wu Ming, la sottotraccia, il trailer del libro. Parte sbagliata perché non realizzata, ma parte sbagliata perché meno raccontata, considerata reazionaria, scadente, perdente. E così è stato per i nemici dei 'rivoluzionari' di Washington che invece avrebbero avuto un modello di civiltà diverso dallo sterminio. E come sempre però l'irrealizzato riesce a ingravidare il realizzato, l'idea federalista di Benjamin Franklin - ciò per cui ancora oggi viene venerato come grande statista politico - è stata direttamente presa dalle Sei Nazioni irochesi.[...]


Bisogna essere addestrati alla maratona per apprezzare le oltre 600 pagine di 'Manituana', ma il fiato lungo vien leggendo in un percorso che sembra a spirale, una volta entrati, se si decide di entrare, difficilmente se ne esce fuori. Non c'è inizio non c'è termine. 'Manituana' continua sul web (www.manituana.com). Una scelta in piena coerenza con il progetto del libro. Il web è il mai definito, il possibile, il progressivamente costruibile. La capacità di poter seguire i percorsi di 'Manituana' attraverso Google Earth aggiunge capacità concreta d'immaginazione al libro, una sorta di materialismo della fantasia, una forza, quella di mettere ogni strumento al servizio del romanzo, che farà storcere il naso a molti puristi della pagina [...]'Manituana' non è soltanto una narrazione di ciò che poteva essere, ma è una cartografia del possibile, uno strumentario letterario attraverso cui si può smontare il congegno della Storia, una capacità che può essere alimentata solo attraverso la necessità di stare dalla parte sbagliata.

Il Bruno, il 21...

Dal 1995, data da cui il sottoscritto vive a Trento, certo non c’è mai stata una manifestazione come quella di sabato 21: non solo per la partecipazione, ma per svariati aspetti. Il successo di sabato va infatti inscritto in una pluralità di motivazioni che sintetizzano il corso travagliato della vicenda del Centro Sociale Bruno; della manifestazione vale la pena sottolineare il successo di partecipazione che, oltre alle capacità organizzative che hanno permesso l’affluenza di fratelli e sorelle da varie realtà italiane, si è caratterizzato per il gran numero di trentini presenti al corteo e, in particolare, di teenagers trentini: segni che la città di Trento non si è ancora rassegnata all’assoluta omogeneizzazione che le si vorrebbe imporre da parte delle istituzioni.

Ma non vorrei dedicare queste righe al commento e alla cronaca di una bellissima manifestazione, per quanto turbata dai meschini giochetti di TreniItalia che spalleggiata del Viminale ha impedito od ostacolato l’arrivo a Trento di alcune importanti realtà. Vorrei invece proporre come contributo una mia riflessione che ha preso corpo con l’evolversi della vicenda Bruno e che riguarda principalmente il rapporto con l’Amministrazione Comunale e l’atteggiamento del sindaco Pacher.

A fronte di una partecipazione entusiasmante infatti il primo cittadino Pacher si è subito preoccupato di ribadire la linea della “fermezza” e la sua condanna, non tanto dei contenuti – dice lui – ma dei metodi. Niente di nuovo, visto che questa posizione è di fatto quella che ha caratterizzato Sindaco e Comune per tutta la vicenda. Ma che significato assume in generale questa posizione? A mio avviso il tentativo continuo di riproporre come questione centrale la questione legalitaria – cioé il rispetto di leggi e norme – svela come la concezione della democrazia da parte dell’Amministrazione Comunale sia meramente procedurale, un insieme di norme che questo atteggiamento tende a rappresentare implicitamente quasi come naturali e che, in ultima analisi, conferma i nostri discorsi sulla crisi della rappresentatività – e della democrazia rappresentativa – come pratica di governo irrimediabilmente in crisi: ma ancora di più ci viene chiaramente dimostrato che la democrazia così intesa è pensiero debole.

Secondo Tronti il concetto di democrazia andrebbe abbandonato perché irrimediabilmente compromesso – storicamente e teoricamente – dalla violenza dei processi di democratizzazione liberale delle società, citando fra l’altro come dimostrazione della debolezza concettuale del termine l’uso generalizzato di questo associato a qualche aggettivo (rappresentativa, diretta, dal basso, ecc.). Pur non essendo completamente d’accordo con questa opinione, sinceramente l’azione dell’Amministrazione Comunale di Trento pare proprio inscrivibile a questo uso inproprio, debole del concetto di democrazia, un uso che stigmatizza il valore reale e idealistico di cui il concetto di democrazia si fa portatore. E non si fa che confermarlo assecondando senza remore o indecisione questa bizzarra linea della fermezza che vuole imporre unilateralmente un terreno di confronto fra le parti, cioé solo dopo che si sia accettata una funzione normativa assoluta sulla convivenza civile all’Amministrazione Comunale: il Sindaco Pacher non vuole trattare con i “nemici” perché ciecamente convinto che anche solo sedersi a discutere sia il segno di una sconfitta, il cedimento di fronte a quello che lui considera aprioristicamente, astrattamente e in modo arbitrario un nemico; mentre io penso che solo sedendosi a discutere si possono tracciare i confini fra diverse posizioni, così come penso che “trattando” non solo non si ceda alle ragioni di quello che – a ragione o a torto – è sentito come un nemico, ma si determini lì – e lì soltanto – l’identità antagonista alla propria.

Chiaro che per tutti quelli in piazza sabato la democrazia è tutt’altra cosa. Niente di statico, naturale o normativo. Piuttosto un’idea di partecipazione, di conflitto. Piuttosto pratiche quotidiane di relazione e di governance, ma anche e soprattutto territorio di definizione di diversi modi di vivere la vita e di affermazione di queste alterità. Pacher cerca in ogni modo l’istituzionalizzazione del movimento che si è andato esprimendo sulla questione Bruno, non capendo che quello che generalmente è stato possibile – a diversi livelli – in altri contesti spaziali o temporali, oggi su questi temi non può succedere: perché quello che per Pacher è un problema per noi rappresenta la soluzione al problema, quello che per Pacher è sacrale (regole®olamenti) per noi è l’altare da rovesciare. Se per Pacher – e anche per altri meno sospettabili personaggi – questo movimento esprime un disagio, per noi esprime un bisogno e un diritto: il protagonismo giovanile se a parole galvanizza questa amministrazione, nei fatti la terrorizza quando questo protagonismo si emancipa e si propone esso stesso – e non attraverso qualche proposta – come alternativa politica alla gerantocrazia trentina – l’età anagrafica non conta in questo caso, che di faccie giovani con cervello&cuore “vecchi” ne abbiam visti abbastanza in questa lunga vicenda – e alla sua impassibile e sfacciata voglia di omologazione e controllo totalizzante della città, retta da un sistema clientelare e da una grande disponibilità di soldi.

Questa Amministrazione, in questi giorni tristi di riabilitazione del partito Socialista Italiano dell’ultimo scampolo di secolo, ricorda proprio l’azione dei governi craxiani degli inizi degli anni ’80 e la loro politica concertativa: soldi per tutti – in primo luogo al sistema industriale – finché possibile. In Trentino fino a quando sarà possibile coprire ogni problema con un mucchio di soldi? La domanda non ha per ora risposta, ma la vicenda del Bruno dimostra l’incapacità di tutta la classe politica trentina nel muoversi fuori da queste coordinate, dove i soldi non comprano tutto e non valgono poi così tanto: Bruno vuole esistere e vivere, non arricchirsi.

E a questo punto, probabilmente, al Sindaco Pacher non tornano più i conti.

giovedì, aprile 19, 2007

Gramsci, l'uomo che ha afferrato il fulmine a mani nude

di Mario Tronti


Ho riflettuto a lungo sul perché, quando il Presidente Bertinotti mi ha proposto il gradito compito di questa commemorazione, sia scattato in me, subito, per istinto, un titolo: la figura del grande italiano. Sarà che questo nostro paese continua a metterci di fronte una sostanziale ambiguità: da un lato la debolezza politica della storia italiana, dall’altro lato il paese forse più politico del mondo, in tutte le sue componenti sociali e popolari.
Noi abbiamo inventato la politica per la modernità. Ne abbiamo fatto una forma, privilegiata, e un’espressione, intensa, di pensiero umano. Perché Gramsci ha così a lungo pensato su Machiavelli? Fermiamoci un momento su questo, perché questo ci permette di entrare da subito nel foro interno di questa personalità. Intanto: il grande italiano è l’uomo del Rinascimento. Dietro, c’era la stagione magica che, fra Trecento e Quattrocento, aveva visto svolgersi quella contraddizione lancinante, fondativa della nostra successiva natura, la contraddizione tra una storia d’Italia, ancora molto lontana dal presentarsi come tale, e una poesia, una letteratura, un’arte, una filosofia, già italiane, in forme dispiegate e mature, con, in più, una naturale vocazione universalistica. Recitavamo, per l’intero mondo, l’Oratio de hominis dignitate. Quello che Pico diceva, Piero raffigurava. Ecco, Machiavelli viene fuori da qui. L’invenzione della politica moderna viene fuori da qui: dal contesto storico tra Umanesimo e Rinascimento. Di qui, la nobiltà del suo codice genetico. Uno di quei volumi Einaudi, dalla copertina grigio-scura, che presentavano, per la prima volta, i Quaderni del carcere di Gramsci, portava per titolo: Note su Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno. Era il 1953. Sono, come tanti, affezionato a quell’edizione. Era una raccolta tematica, per argomenti, dovuta all’impulso pedagogico di Togliatti, che voleva farne lo strumento di trasmissione di una cultura potenzialmente egemone. Allora ci si preoccupava di educare politicamente le masse, non come oggi, quando ci si preoccupa di correrle dietro, dattandosi a qualsiasi tipo di pulsione, anche se non sempre la migliore. Eloquenti i titoli di quei volumi: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce (1948); Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1949); Il Risorgimento (1949); Letteratura e vita nazionale (1950); Passato e presente (1951).

Poi verrà la più precisa e rigorosa edizione critica dei Quaderni, correttamente secondo l’ordine cronologico di stesura a cura di Valentino Gerratana, uno studioso che ha dedicato una vita a questo compito, e su iniziativa dell’allora Istituto Gramsci, oggi meritoria Fondazione Gramsci.
Note su Machiavelli, appunto. Come questi aveva chiosato la prima decade di Tito Livio, così Gramsci chiosa Il Principe. Geniale, a mio parere, la sua interpretazione del partito politico come moderno principe. Credo, ancora di una sconvolgente attualità. Ascoltiamo queste parole: "Il moderno principe, il mito principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva, riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico; la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali"(ed.cr. vol III, p.1558). Non è il caso di nascondere le ombre che il tempo storico allunga su questa luce di pensiero. Non è un’orazione apologetica che ci interessa. Il distacco critico dagli autori, tanto più dai propri autori, è un obbligo intellettuale. Quell’aggettivo “totali” fa riflettere. “Germi universali e totali”. La storia del partito politico nel Novecento ha messo in campo progetti universalizzanti ma ha anche raccolto risultati totalizzanti.
Marx e Machiavelli vuol dire “il partito non come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato” (ivi, vol.1, p.432).


Fondare lo Stato, non farsi Stato. Non è questo però il punto centrale dell’argomentazione gramsciana. Gramsci aveva profeticamente previsto le possibili degenerazioni del partito che si fa Stato, cioè della parte che si fa tutto. E ne aveva sofferto, in carcere,non solo intellettualmente.
Il suo problema politico era già allora, nella temperie terribile di quegli anni Trenta, come sfuggire alla trasformazione, non più incombente ma in atto, delle masse in folle manovrate e delle élites in oligarchie ristrette. Il problema originalmente comunista di Gramsci, vorrei dire, se questo non disturba troppo, l’originale leninismo di Gramsci, è la costruzione di un rapporto virtuoso tra classe dirigente e classe sociale. Il mito – usa lui questa parola e voglio usarla anch’io – il mito del partito-principe è l’organizzazione di una volontà collettiva, “elemento di società complesso”, come l’unica forza in grado di contrastare l’avvento della personalità autoritaria. Anche qui de nobis fabula narratur. Io penso che oggi noi dovremmo rideclinare le analisi dei francofortesi intorno alla personalità autoritaria sulla misura di un nuovo soggetto: che definirei, la personalità democratica.

Si sta intrecciando qui un nodo di problemi strategicamente rilevanti per i sistemi politici contemporanei, occidentali e ormai non solo. Attenzione: questa invocazione del leader forte, a suo modo legibus solutus, se intendiamo le leggi al modo di Montesquieu, o di Tocqueville, come un corpo di costumi, abitudini, comportamenti, tradizioni, bene, questa figura non nasconde pericoli autoritari, non credo che sia questo il problema, la liberale bilancia dei poteri funziona ancora piuttosto fa vedere il pericolo di una delega diretta, immediatistica, al decisore politico, questa volta un individuo e non un organismo, in senso gramsciano, da parte di una moltitudine formata da una cosiddetta gente, dai forti umori antipolitici.
Antonio Gramsci - da mettere in una ideale galleria di grandi italiani del Novecento politico, di tradizione cattolica e liberale, da Sturzo a Dossetti a Einaudi - bè, questi uomini postumi per le loro virtù, servono, vanno fatti servire, come vaccino contro le malattie contagiose delle democrazie contemporanee: l’antipolitica, il populismo, il plebiscitarismo. La personalità democratica come personalità non carismatica e tuttavia demagogica, eterodiretta dalla sua immagine, in sudditanza rispetto alla dittatura della comunicazione, onnipresente come figura, inconsistente come persona. Gramsci, con la sua vita e la sua opera,ci aiuta a richiamare la politica, tanto più dopo il Novecento, alla sua vocazione originaria che, da Aristotele a Weber, è stata collocata tra questi due splendidi estremi, la passione e la sobrietà. Ecco, a questo punto vorrei non dare l’impressione di edulcorare il personaggio Gramsci, iscrivendolo nel ruolo non esaltante di Padre della Patria. Tra l’altro si tratta di un uomo oggi sconosciuto ai più. Straordinaria la fortuna mondiale dell’opera di Gramsci. Tra qualche giorno, un convegno organizzato dalla Fondazione-Istituto Gramsci e dalla International Gramsci Society, farà il punto proprio su questo tema: “Gramsci, le culture e il mondo”.

Ma, credetemi, non si può parlare di Gramsci, restando neutrali. O se ne può parlare, ma facendogli un grande torto. Scrisse di sé, dal fondo del carcere fascista: “Io sono un combattente, che non ha avuto fortuna nella lotta pratica”.
Non era un’anima bella. Nato per l’azione, circostanze esterne lo costringono a diventare uomo di studio. Se dovessi riassumere in una definizione l’insegnamento che Gramsci ci lascia, direi così: come un uomo di parte possa diventare risorsa della nazione, senza dismettere la propria appartenenza, ma agendola nell’interesse di tutti; Gramsci ci dice che, machiavellianamente, la politica non ha bisogno dell’etica per nobilitarsi. Si nobilita da sé, sollevandosi a progetto altamente umano. Gramsci non è solo i Quaderni del carcere. C’è un Gramsci giovane che si fa amare, se possibile, ancora di più. Lo scoprimmo nei magici anni Sessanta, quando fummo forse ingenerosamente ostili alla sua linea culturale “nazionale-popolare”, la famosa linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci,a cui rivolgevamo l’accusa di aver oscurato la grande cultura novecentesca europea, soprattutto mitteleuropea, che fummo costretti a scoprire per altre vie. Ci bevevamo gli articoli scritti per la rubrica “Sotto la mole” per l’edizione piemontese dell’Avanti! O sulla “Città futura” numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese. Qui quell’articolo (febbraio 1917) che comincia con le parole: “Odio gli indifferenti”. "Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo". O gli articoli su “Il grido del popolo”: quello famoso e scandaloso: La rivoluzione contro il Capitale, la rivoluzione dei bolscevichi ” contro il Capitale di Carlo Marx.

Se si potessero rileggere, oggi, senza il velo delle ideologie dominanti, quelle righe in “Individualismo e collettivismo”!.
E’ l’individualismo borghese che produce il collettivismo proletario. "All’individuo capitalista si contrappone l’individuo-associazione, al bottegaio la cooperativa: il sindacato diventa un individuo collettivo che svecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove di libertà e di attività". E soprattutto gli articoli de “L’ordine nuovo”, settimanale di cultura socialista, che Gramsci fonda il 1 maggio 1919 e che poi diventerà quotidiano. Lì si organizza il gruppo che darà vita al Partito comunista d’Italia, che come si vede non subito ma fin dalle tesi di Lione del 1926, nascerà non solo contro i riformisti ma anche contro i massimalisti. Gramsci nasce, politicamente e intellettualmente, a Torino. Davanti a lui, il biennio rosso, l’occupazione operaia delle fabbriche, l’esperienza dei Consigli operai. La vera Università: la grande scuola della classe operaia. Del resto, ormai lo sappiamo: o si parte da lì, o si raggiungono solo quelli che oggi si chiamano non-luoghi. Gramsci, L’ordine Nuovo, settembre 1920: "L’operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Partito, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vista della storia dell’uomo, più grande dello schiavo o dell’artigiano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clandestino della preghiera". E ancora: "Il fatto stesso che l’operaio riesca ancora a pensare, pur essendo ridotto a operare senza sapere il come e il perché della sua attività pratica, non è un miracolo?". Già Togliatti, nel ricordo che scriveva, nel 1937, appena dopo la morte, intitolato “Il capo della classe operaia italiana”, scriveva: "Il legame di Antonio Gramsci con gli operai di Torino non fu soltanto un legame politico, ma un legame personale, fisico, diretto, multiforme".

Non ci sono due Gramsci. L’operazione di valutare il Gramsci studioso e di svalutare il Gramsci politico è senso comune intellettuale corrente, e come tale va abbandonato a se stesso. Specialista + politico è formula gramsciana risolutiva.
Dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e di qui alla concezione umanistica-storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” , (specialista + politico). Su questa base – scriveva nei Quaderni (4, ed.cr., vol.III, p.1551) ha lavorato L’Ordine Nuovo, settimanale. Il modo di essere del nuovo intellettuale sta nel mescolarsi attivamente nella vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore, non puro oratore. Quindi, per Gramsci, l’equivalente di politico è dirigente, armato però di cultura tecnica, scientifica, umanistica. Qui c’è la preziosa distinzione gramsciana tra direzione e comando, tra guidare e imporre. Questo vale per il gruppo dirigente nei confronti del partito, vale per il partito nei confronti dello Stato, vale per lo Stato nei confronti della società. Egemonia non è solo cosa diversa, è cosa opposta a dittatura. Sul concetto di egemonia pesa ancora un’incomprensione di fondo e una falsificazione di fatto. Non c’è pratica di egemonia senza espressione di cultura. Praticare egemonia è una cosa molto complessa, direi raffinata: vuol dire guidare seguendo, essere alla testa di un corso storico già in movimento, e che fa movimento anche in virtù delle idee, idee-guida, idee-forza che tu ci metti dentro. Una politica senza cultura politica, non cercatela in Gramsci. Scriveva nei Quaderni (ed. cr., vol. 1, p.311): "Il grande politico non può che essere “coltissimo”, cioè deve “conoscere” il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non “librescamente”, come “erudizione”, ma in modo “vivente”, come sostanza concreta di “intuizione” politica". Tuttavia – aggiungeva – perché in lui diventino sostanza vivente occorrerà apprenderli anche librescamente. Abbiamo tutti negli occhi, in questi giorni, i libri inchiodati del film di Olmi, che mi pare dicano la stessa cosa. C’è una frase gramsciana per me, per così dire, archetipica, nel senso di simbolicamente originaria, per un processo di formazione. Diceva: “Istruitevi, istruitevi e poi ancora istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.

Permettete un breve ricordo personale. Che rimane in tema. Nel dopoguerra, nelle sezioni, anche le più popolari, del Pci, c’era sempre un piccola biblioteca, con i classici dell’ideologia ma anche con testi di letteratura di battaglia. Quando andai a iscrivermi alla Fgci, i compagni della sezione Ostiense, qui a Roma, mi misero in mano tre libri: “Il Manifesto del partito comunista”,di Marx ed Engels, “Il tallone di ferro” di Jack London e le“Lettere dal carcere” di Gramsci. Le “Lettere dal carcere”. Quando lessi quell’ultima, al figlio Delio, non c’era più dubbio su dove schierarsi: "Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa".
Quello, insieme agli altri due, erano i primi libri che entravano in quella casa, di persone non analfabete e non incolte, anzi colte, cioè coltivate interiormente in una maniera particolare. Una cultura che non veniva, appunto, dai libri, ma direttamente dalla vita e non una vita generica, ma una vita di lavoro. Ho sempre pensato che le due culture non sono, come si dice, la cultura scientifica e la cultura umanistica. Sono la cultura del popolo e la cultura degli intellettuali. Due cose diverse: non si identificano, non si sommano, non si confondono. Eppure un ponte di dialogo e di scambio tra queste due esperienze culturali, deve esserci e devi trovarlo. C’è una cultura materializzata nel lavoro, interiorizzata nel lavoratore: un orizzonte che, per un intellettuale di parte, è come la bussola per il marinaio, ti indica la rotta dove devi andare a cercare, a capire, a scoprire. E’ difficile comunicare la tranquilla forza di pensiero che ti conferisce l’essere, il sentirsi, radicato in questa parte di mondo. L’unico luogo sicuro e libero da quella nevrosi narcisistica che è la maledizione del lavoro intellettuale. La figura gramsciana dell’intellettuale organico, al partito e alla classe, può essere oggi demonizzata e derisa solo da chi non sarebbe mai stato capace di esserlo. Ebbene, quel ponte tra le due culture lo ha costruito quella figura storica, quel soggetto politico della modernità che si chiama movimento operaio. E lo ha fatto, generando coscienza e organizzazione delle masse e al tempo stesso creando pensiero, teoria, cultura alta.

Analisi scientifica delle leggi di movimento dei meccanismi di produzione e riproduzione sociale
e insieme progetti di liberazione politica. Mi sento di esprimere una convinzione profonda: più andremo avanti, più il tempo "grande scultore", come ha detto qualcuno/a più il tempo si frapporrà tra noi e il passato, più ci accorgeremo che tutte le derive negative, anche tragicamente negative, non bastano per cancellare la grandezza del tentativo. Penso che, come soggetti politici di consistenza storica, dovremmo affrettare il momento di poter tornare a parlare, ognuno di sé, con onestà. Se dovessimo dirci tutta intera la verità,
dovremmo parlare così: in realtà, non sappiamo con chi e con che cosa sostituire quelle componenti popolari, di matrice cattolica, socialista, comunista più quelle élites di ispirazione social-liberale, che, tutte insieme, componenti popolari ed élites non oligarchiche, hanno fatto la storia recente di questo paese: perché, esse, non erano società civile, erano società reale: cioè ordinamento storico concreto di una società. Dunque, sono ben consapevole di aver sconfinato dalle buone maniere di una commemorazione ufficiale. Ma i due Presidenti, che mi hanno affidato questo compito, ben conoscevano la mia ormai antica appartenenza a quella che Bloch ha chiamato “la corrente calda del marxismo”. I freddi piccoli passi non mi hanno mai entusiasmato, ammesso che abbiano mai entusiasmato qualcuno.

Concludo così:abbiamo individuato alcuni punti di attualità dell’opera di Gramsci. E alcuni dei presenti qui potrebbero suggerirne altri. Ma quando ripensiamo alla vita, anzi all’esistenza, dell’uomo, proprio in quanto uomo politico, allora dobbiamo far ricorso al criterio nietzscheano dell’inattuale. Qualcosa, o qualcuno, che non si può oggi riproporre e proprio per questo, in sé, vale.
Ho letto, in questi giorni, questo libretto di George Steiner, “Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero”. Una delle ragioni, fonte di melanconia, è l’inadattabilità oggi del grande pensiero agli ideali di giustizia sociale. E scrive Steiner: "Non c’è democrazia per il genio, solo una terribile ingiustizia e un fardello che può essere mortale". Poi "ci sono quei pochi, come diceva Hölderlin, che sono costretti ad afferrare il fulmine a mani nude". Ecco, è tra quei pochi che dobbiamo “cercare ancora” Gramsci. Quel gracile corpo fisico e quella forte statura umana, mi pare di vederli riassunti in quel gesto: afferrare il fulmine a mani nude.

martedì, aprile 17, 2007

Cumuli di spazzatura


Consiglio a tutti quelli che passano da queste parti a leggersi il pezzo di Bifo su Gomorra, libro che nessuno dovrebbe rinunciare a leggere in Italya, e subito dopo passare a leggere, sempre con attenzione, l'appello intitolato Cerchiamo volontari.
C'è infatti una forte trama che lega inesorabilmente quello che Bifo chiama Splatterkapitalismus -- e che Savino racconta in Gomorra -- e la lunga serie di nomi in calce sulle statistiche degli infortuni e delle morti sul lavoro: "L’ignoranza assurge al potere, e le scelte economiche si compiono in base alla sola considerazione del massimo profitto immediato. La sola cosa che conta è ridurre il costo del lavoro, dato che la competitività consiste in questo, non certo nel produrre qualità. Di conseguenza l’ultima parola nelle scelte produttive non ce l’hanno i chimici o gli urbanisti o i medici, ma coloro che posseggono competenze manageriali, cioè coloro che hanno la capacità di abbassare i costi del lavoro e di accelerare la realizzazione del profitto" [Bifo].

Circa tre settimane fa mio cugino si trovava al lavoro, in una tipografia industriale, quando il suo capo-turno è entrato in reparto e ha parlato dicendo:"Di la c'è il morto, ma voi continuate a far girare le macchine". Di la, il morto, stava accasciato sotto una pressa, vittima di un omicidio bianco. Era un ragazzo senegalese, da poco assunto era stato assegnato ad una grossa pressa che tranciava pacchi interi di fogli sovrapposti: aprire lo sportello della macchina, inserire il carrello con il blocco di carta, chiudere gli sportelli e la pressa scende, con tutte le sue tonnellate di forza". Senza dispositivi di sicurezza si va più in fretta, lo sportello rimane aperto e la pressa scende e sale. Le sicuzze mancavano sulla pressa, chissà come ma come tanti altri è scivolato, si è impigliato, è caduto. Ed è stato assasinato.

Ma la cosa triste è che pochi si muovono dalle loro macchine, loro non si sentono tirati in ballo, non sono loro a pezzi sotto la pressa. Questo basta. Mio cugino se ne va, mentre i colleghi restano al loro posto di battaglia, è proprio il caso, di battaglia.
Le discariche sono l’emblema più concreto di ogni ciclo economico. [Gomorra]

Le morti bianche sono cumuli di uomini, di cadaveri fino all'ultimo trattati come merci, inutili rifiuti dal ciclo esaurito che riempiono e ricolmano le discariche dello Splatterkapitalismus. L'importante è essere competitivi, vincere, risparmiare tempo, bruciare tutto e subito per buttare poi i resti in discarica: così recita il nuovo credo criminal-liberista.

Cerchiamo volontari!!!!


Ieri sono morti altri due operai. Uno di 53 anni, traslocatore, a Messina, precipitato da un montacarichi; l'altro è un ragazzo sardo di 33 anni, che lavorava per una ditta dell'appalto nello stabilimento petrolchimico della Saras a Sarroch, vicino a Cagliari. E' stato colpito da un tubo d'acciaio sulla testa. Di loro conosciamo nomi e cognomi (Santo Cacciola e Felice Schirru), età e poco altro. I canali della grande informazione in questi casi sono un po' ostruiti. Si sciolgono in occasione di notizie più spettacolari, clamorose, come vallettopoli, o il congresso dell'Udc. Ieri è intervenuto anche Giorgio Napolitano per denunciare la gravità della situazione. Ha sollecitato il governo a prendere qualche iniziativa. E alcuni grandi giornali ("Repubblica", la "Stampa") hanno finalmente iniziato a portare in prima pagina le notizie sugli omicidi bianchi. Magari è il segno che l'opinione pubblica, almeno un pochino, sarà toccata da questo problema. I numeri dicono che la strage sul lavoro fa vittime ogni giorno: ci sono più morti sul lavoro, in Italia, in un anno, che negli Stati Uniti - nello stesso periodo - per le guerre in Iraq e Afghanistan. Tra i delitti che avvengono nel nostro paese (mafiosi, di microcriminalità, familiari, di invidia, di amore) di gran lungo la categoria più numerosa è quella degli omicidi sul lavoro. In tutto gli omicidi in Italia sono circa 1750 all'anno. Di questi 1000 sul lavoro, circa 250 in famiglia, al terzo posto i delitti di mafia e camorra, un centinaio. Chissà perché se i principali killer sono i capitalisti, i mariti e i mafiosi, poi si continuano a organizzare manifestazioni (per esempio a Milano) contro la microcriminalità, di grandissima lunga il meno pericoloso dei fenomeni illegali. Noi di "Liberazione" pensiamo che bisogna mobilitarci per fare in modo che la questione della sicurezza sul lavoro diventi il problema numero uno nell'agenda politica. Abbiamo deciso di lanciare questa iniziativa: guerra al lavoro che uccide. E' l'unica guerra che vale la pena combattere. Abbiamo chiesto a un certo numero di intellettuali, artisti, sacerdoti, pensatori di aderire e di farsi promotori di una iniziativa pubblica, da tenere nei prossimi giorni, insieme alle associazioni vitime del lavoro. Decideremo insieme che tipo di iniziativa. Abbiamo già avuto molte adesioni, e pubblichiamo qui sotto i nomi. Contiamo di averne molte altre nei prossimi giorni.

Noi ci arruoliamo...

Alberto Abruzzese/Marco Aime/Antonella Anedda/Ritanna Armeni/Alberto Asor Rosa/Nanni Balestrini

Augusto Barbera/Piero Barcellona/Marco Bellocchio/Riccardo Bellofiore/Paolo Beni/Franco Berardi Bifo/Irene Berlingò/Marco Bertotto/Piero Bevilacqua/Paolo Berdini/Achille Bonito Oliva/Stefania Brai/Emiliano Brancaccio/Lanfranco Caminiti/Maurizio Camarri/Andrea Camilleri/Susanna Camusso/

Umberto Cao/Eugenio Cappuccio/Massimo Carlotto/Ascanio Celestini/Pier Luigi Cervellati/Don Luigi Ciotti/Gilberto Corbellini/Maria Rosa Cutrufelli/Lella Costa/Sandro Curzi/Sandrone Dazieri/Erri De Luca/Vezio De Lucia/Pippo Del Bono/Paolo Desideri/Antonio Di Bella/Angelo D’Orsi/Pablo Echaurren/Vittorio Emiliani/Massimiliano Fuksas


continua...

VeniteVeniteVenite


Trento ** Appello alla manifestazione del 21 aprile a difesa degli spazi sociali

Anche il “Bruno” è stato sgomberato. Dopo Copenaghen, dopo Bologna e Salerno, mentre il Pedro sta lottando per (r)esistere.
Su ordine di un sindaco di centro-sinistra che governa la città di Trento, il 21 marzo i reparti della Polizia e dei Carabinieri hanno sgomberato il Centro Sociale tentando di porre fine ad un’esperienza che si sviluppava da più di cinque mesi, frutto di una lotta per gli spazi che dura da molti anni.
Per noi gli spazi sociali non sono solo pareti ma sono i luoghi dentro i quali costruire una partecipazione politica, che vuole significare anche alternativa di vita, luoghi di innovazione e costruzione di nuove relazioni sociali. I Centri sociali, ovunque, prefigurano i prototipi dell’”Altra Città”, quella dell’accoglienza e dell’inclusione, la città dei diritti, della dignità, il luogo della nuova cittadinanza. Lo spazio di un Centro Sociale è un transito di chi cerca libertà oltre i recinti di un CPT, al di là degli schemi di società e famiglia che ingessano gli amori e i rapporti; è l’incrocio delle lotte e dei sogni, la fucina delle radicalità e della costruzione di nuove forme di lotta, la macchina che autogestisce e autoproduce.
Lo sgombero di Bruno non deve assumere solo un significato locale, ma vogliamo che diventi il simbolo dell’attacco frontale che tutti gli spazi e i movimenti sociali stanno subendo oggi in Italia e in Europa. Ad essere sotto attacco non sono semplicemente i luoghi fisici - perennemente minacciati di sgombero - ma è la stessa autonomia dei movimenti: attraverso la criminalizzazione com’è accaduto a Vicenza, attraverso la declinazione strumentale di “violenza-nonviolenza” e l’uso perverso del concetto di “legalità”.
Di fronte a questo attacco riaffermiamo il nostro diritto di resistenza, che per noi significa non solo diritto all’autodifesa e alla difesa di spazi di democrazia, ma soprattutto diritto a difendere forme di vita che si danno già nel presente, che dalle lotte promanano e che nei centri sociali trovano lo spazio del loro consolidamento.
Vogliamo che il 21 aprile sia una giornata importante di mobilitazione e di lotta che riaffermi con determinazione l’autonomia dei movimenti, che per noi è raffigurata dall’orso “Bruno” che si muove liberamente sul territorio italiano ed europeo autogestendo il proprio tempo, la propria vita, i propri sogni. Un orso bruno che questa volta dobbiamo sottrarre alle doppiette di chi vuole uccidere la libertà.
Vogliamo che il 21 aprile, da Trento e da tutta Italia, si alzi un unico grido in difesa degli spazi sociali.
GUAI A CHI CI TOCCA!!!

Per firmare l’appello e segnalare la partecipazione alla manifestazione manda una mail a csabruno@gmail.com oppure posta un commento sul blog del Centro Sociale Bruno

giovedì, aprile 12, 2007

Dal Global Meeting a Trento, da Trieste al G8 di Rostock


L’attacco frontale ai Centri Sociali - da Copenaghen a Padova -, lo sgombero del Centro Sociale Bruno e la manifestazione del 21 aprile, le giornate del Global Meeting e il percorso verso il G8 di Rostock, passando per i consolati messicani e Trieste. Questi vogliono essere i temi di un’assemblea da fare a Trento il 15 aprile, nel count down che ci porterà il 21 aprile a essere tutti nelle strade per difendere gli spazi sociali e la libertà di movimento.

Per Trento è occasione importante verso l’imminente manifestazione, ma può essere un utile passaggio verso le prossime scadenze - 4/5 maggio davanti ai consolati messicani, 12 maggio a Trieste per una prima fetta di G8, a giugno la mobilitazione a Rostock - che Venezia e l’incontro con le realtà intervenute al Global Meeting hanno posto sul tavolo.

L’assemblea si terrà domenica 15 aprile 2007 alle ore 15.00 presso il parcheggio ex Zuffo, uscita autostradale Trento centro.

Splatterkapitalismus


di Franco Berardi Bifo

Lo sviluppo economico

Narra la leggenda che nei primi anni ’60, il giovane Romano Alquati si aggirasse a bordo di una (forse allora fiammante) motoretta lungo le strade piemontesi (aria tersa, orizzonte sereno e lontane montagne innevate) che circondano Ivrea e l’Olivetti. Ne nacque il saggio (Forza lavoro e composizione di classe all’Olivetti di Ivrea) che più di ogni altro a mio avviso influì sulla comprensione del sistema industriale maturo, e della nuova classe operaia che di lì a poco avrebbe sovvertito l’ordine esistente delle cose, la società la politica la cultura.
Sull’orizzonte cupo di una terra campana marcescente, tra l’odore velenoso delle discariche, anche lui a bordo di una motoretta, si aggira Roberto Saviano, con quello sguardo intenso e dolorante che ho lungamente fissato sulla quarta di copertina del suo primo libro, Gomorra.

E’ questo il primo libro che ci ha raccontato - senza infingimenti ideologici rassicuranti - la composizione sociale e culturale del capitalismo globalizzato del nostro tempo. La sua motoretta si è inerpicata sulle collinette artificiali della discariche e nei vicoli di Secondigliano, ma da lì ha visto le folle sterminate di schiavi che piegano la schiena negli innumerevoli laboratori clandestini di mezzo mondo dove si produce la merce onnipresente che ha sta soffocando il pianeta.

Tra quelli che hanno parlato di questo libro, alcuni dicono che si tratta di un romanzo altri che si tratta di un reportage. Credo che sia una cosa e l’altra, ma in effetti è anche altro: qui si tenta un’analisi sistematica del capitalismo contemporaneo, della sua vera natura, del suo funzionamento deterritorializzato e reticolare, nelle sue dimensioni planetarie. Si tenta un’analisi sistematica di un fenomeno che non ha più nulla di sistematico: l’analisi di un sistema che non ha più nessuna regola, e proprio su questa perfetta deregolazione fonda la sua efficienza e produttività.
Un lavoro di questo genere andrebbe svolto in molti altri territori simili. Il territorio campano va visto come l’ologramma di un pianeta consegnato dalla deregulation capitalista al controllo di organizzazioni criminali, come il Messico in cui le narcomafie adottano tecniche sempre più simili a quelle di Al Qaida, o la Colombia o il Pakistan, o il golfo del Bengala, o i Balcani. O la Russia dove il PCUS, senza cambiare le sue strutture gerarchiche si è trasformato in una rete di mafie che firmano contratti miliardari con gli ossequiosi capi degli stati europei, dove killer del KGB eliminano predoni alla Yodorkhovski per dividere il malloppo estorto con i ben educati manager dell’ENI e dell’ENEL. Altro che Provenzano, altro che Riina: Putin e Berlusconi-Prodi non hanno bisogno di strangolare la gente con le loro mani, c’è qualcuno che lo fa per loro, prima che i presidenti firmino insieme il contratto. Saviano ha descritto il funzionamento paradigmatico del capitalismo post-borghese, e ha usato questo modello per analizzare una situazione particolare, che si connette per mille fili a mille altre situazioni simili.

Il modo peggiore di intendere questo libro sarebbe quello di considerarlo l’ennesimo quadretto napoletano, la descrizione di un territorio arretrato e marginale, un caso di criminalità residuale.
I politici italiani raccontano abitualmente il Sud come un’escrescenza. Ma non è vero niente. Escrescenza significa qualcosa che vien fuori da un corpo sano. Qui non c’è alcun corpo sano: il Sistema descritto da Saviano è il corpo, come mostrano gli affari di Tronchetti Provera, ultimo di una genia di capitani coraggiosi a cui il governo di centrosinistra dieci anni fa ha consegnato gratuitamente l’azienda pubblica Telecom perché i capitani coraggiosi la spolpassero e poi la vendessero al miglior offerente come se fosse cosa loro, mentre è cosa nostra.
Cosa nostra, cioè loro. Questo è il capitalismo deregolato post-borghese, in cui gli assassini non sono affatto un’escrescenza, ma il corpo intero.
Quel che Saviano ci permette di capire è che in Campania si manifesta la forma avanzata del ciclo globale della produzione capitalista, la tendenza verso cui tutto il processo di produzione evolve.
I bonzi istituzionali dello Stato italiano promettono di agire contro la criminalità attraverso lo sviluppo economico del Sud, ma la criminalità è lo sviluppo economico, perché lo sviluppo economico non è più altro che criminalità.

L’impresa

L’efficienza è il tratto decisivo di ogni operazione imprenditoriale, che si tratti di trasportare merci con centinaia di TIR incolonnati o di sciogliere nell’acido un paio di cadaveri

“Impartimmo istruzioni affinché fossero comprati cento litri di acido muriatico, servivano contenitori metallici da duecento litri, normalmente destinati alla conservazione dell’olio e tagliati nella parte superiore. Secondo la nostra esperienza era necessario che in ogni contenitore venissero versati cinquanta litri i acido, ed essendo prevista la soppressione di due persone facemmo preparare due bidoni.” (63).

In questo libro si parla molto di problemi di efficienza: solo l’efficienza decide del successo economico dell’impresa.

“L’ordine è laissez faire laissez passer. La teoria è che il mercato si autoregola. E così in pochissimo tempo vengono attirati a Secondigliano tutti coloro che voglio mettere su un piccolo smercio tra amici, che vogliono comprare a quindici e vendere a cento e così pagarsi una vacanza, un master, aiutare il pagamento di un mutuo. La liberalizzazione assoluta del mercato della droga ha portato a un inabissamento dei prezzi.” (78).

Anche se si presenta come un caotico aggirarsi tra labirinti di vicoli e di villaggi, cantieri e desolate spiagge, il libro ricostruisce alcuni cicli merceologici su cui il opera il Sistema.

“Camorra è una parola inesistente, da sbirro. Usata dai magistrati e dai giornalisti. E’ una parola che fa sorridere gli affiliati, un termine da studiosi, relegato alla dimensione storica. Il termine con cui si definiscono gli appartenenti a un clan è Sistema: appartengo al sistema di Secondigliano. Un termine eloquente, un meccanismo piuttosto che una struttura. L’organizzazione criminale coincide direttamente con l’economia, la dialettica commerciale è l’ossatura del clan.” (48)

Un meccanismo, piuttosto che una struttura: un dispositivo, una concatenazione macchinica capace di generare profitto. I componenti del dispositivo possono cambiare senza che nulla cambi del suo funzionamento. Il carattere astratto del capitalismo (del lavoro e dell’impresa) è una lezione che i criminali hanno assimilato, e ora il centro del sistema d’impresa, depurato dalla concretezza personalistica o familiare, usa le persone e le famiglie per servire lo scopo superiore, l’accumulazione, la crescita, lo sviluppo.

Cicli merceologici

Nella prima parte del libro, raccontando il formicolante mondo dei laboratori clandestini che connettono il lavoro progettuale di sarti che hanno ereditato la tradizione popolare locale con il lavoro esecutivo di migliaia di operai sparsi su un territorio multicontinentale, si ricostruisce il ciclo merceologico del tessile, della moda, della creazione. Il ciclo del vero-falso, o piuttosto del falso vero è connesso con una rete commerciale del tutto analoga a quella di ogni altra catena, anche se è stata costruita con l’eliminazione fisica dei concorrenti. Nessuno ti chiederà mai quante persone hai strangolato, quando dirigi un centro commerciale che generala profitti. E se per uno spiacevole incidente qualche magistrato ti chiede conto di qualche dozzina di cadaveri, nessun problema, l’impresa non si fermerà per questo. Il boss può andare in carcere, l’importante è che la sua funzione continui a funzionare.

Saviano descrive poi il ciclo della droga, le forme di organizzazione dello spaccio sul territorio, le dimensioni economiche della filiera. Nulla a che fare con le dinamiche marginali del ghetto.

“Non potrebbe essere ghetto un territorio capace di fatturare trecento milioni di euro l’anno solo con l’indotto di una singola famiglia. Un territorio dove agiscono decine di clan e le cifre di profitto raggiungono quelle paragonabili a una manovra finanziaria.” (81).

Quando i ministri economici parlano del Prodotto nazionale lordo, dovrebbero ammettere la verità: quanto più sangue, quanto più morte, quanto più veleno, tanto più punti di crescita del PNL.
Secondo le statistiche ufficiali il 20% del prodotto nazionale evade il fisco: almeno un quarto della ricchezza che si produce e si scambia in Italia è generata in condizioni criminali. L’omicidio, l’occultamento di cadavere, il ricatto, la banda armata andrebbero catalogati come fattori decisivi della formazione del prodotto nazionale lordo. Andrebbero contabilizzati regolarmente, se si vuole recuperare un po’ dell’evasione. Dato che questo è il capitalismo liberista sarebbe meglio riconoscere le cose come stanno: se un bel giorno le famiglie di camorra e di mafia decidessero di abbandonare i loro traffici, convertite da un’apparizione di Padre Pio, l’economia italiana sprofonderebbe.

Continuando l’analisi dei cicli merceologici, Saviano fa un breve accenno al mercato delle armi. Ci riferisce che L’Italia spende in armi ventisette miliardi di dollari, più soldi della Russia, il doppio di Israele. La classifica l’ha stesa l’Istituto internazionale di Stoccolma per la ricerca sulla pace.). Ne sono informati coloro che sono stati portati al governo dal voto dei pacifisti?
Il ciclo delle armi è strettamente legato al ciclo dello sterminio, che dell’economia liberal-camorrista è naturalmente parte integrante. Tremilaseicento sono i morti che Saviano ha contato negli anni, solo nella regione della camorra.

“Qui è il cuore d’Europa, qui si foggia la parte maggiore dell’economia della nazione. Quali ne siano le strategie di estrazione non importa. L’importante è che la carne da macello resti impantanata nelle periferie, schiattata nei grovigli di cemento e di monnezza, nelle fabbriche in nero e nei magazzini di coca. E che nessuno ne faccia cenno, che tutto sembri una guerra di bande, una guerra tra straccioni.”(135)

Non è una guerra per bande, è normale concorrenza commerciale. Non è guerra tra straccioni, è il cuore pulsante dell’economia nazionale.

“Imprenditori. Così si definiscono i camorristi del casertano, null’altro che imprenditori.” (210)

E come altrimenti dovrebbero definirsi? La loro impresa non è diversa dalle altre se non per alcuni dettagli formali. In tutto il mondo le regole sono state dichiarate lacci e laccioli, e da trent’anni gli Stati hanno un’unica preoccupazione: rimuovere le regole che impediscono il libero estrinsecarsi della competizione, rallentano il libero fluire della manodopera, e la riduzione interminabile del costo del lavoro.

Competere

Competizione è il concetto chiave che ha preso il posto del concetto di competenza.
Competenza è la capacità intellettuale che permetteva al borghese di svolgere la sua funzione progettuale, amministrativa, organizzativa, e giustificava il suo diritto alla proprietà.
Da quando le tecnologie dell’intelligenza hanno reso possibile la standardizzazione dei processi di progettazione coordinamento e amministrazione che un tempo erano fuse con la funzione proprietaria, le funzioni intellettuali si sono trasformate in funzioni del lavoro dipendente.
La borghesia competente è stata sostituita da un ceto che fa della competizione l’unica regola e l’unica competenza. Ma quando si parla di competizione non è forse evidente che il più competitivo è colui che sa eliminare gli avversari? E quando si tratta di eliminare non bisogna andarci troppo per il sottile.

Dal momento in cui la proprietà non coincide più con la persona, ma con un pulviscolo di frazioni di investimento, la competizione prende il posto della competenza. Naturalmente nella produzione molte altre competenze sono necessarie, ma queste sono scorporate dalla funzione d’impresa. Ogni competenza intellettuale che non sia quella speculativa è precarizzata, svalutata, mal remunerata. Solo chi ha sviluppato un’accentuata competenza nella funzione manageriale può arricchirsi con il suo lavoro. E cos’è la funzione manageriale, quando scorporata dalla specificità delle competenza intellettuale concreta? La menzogna, il raggiro, il falso in bilancio, l’evasione fiscale, e in caso di bisogno l’eliminazione fisica dei concorrenti, la tortura, il genocidio. Su questo piano la Halliburton è molto più efficace ed efferata che il clan dei Casalesi o dei Corleonesi.
L’ignoranza assurge al potere, e le scelte economiche si compiono in base alla sola considerazione del massimo profitto immediato. La sola cosa che conta è ridurre il costo del lavoro, dato che la competitività consiste in questo, non certo nel produrre qualità. Di conseguenza l’ultima parola nelle scelte produttive non ce l’hanno i chimici o gli urbanisti o i medici, ma coloro che posseggono competenze manageriali, cioè coloro che hanno la capacità di abbassare i costi del lavoro e di accelerare la realizzazione del profitto. La dinamica del neoliberismo ha distrutto la borghesia e l’ha sostituita con due ceti distinti ed opposti: da una parte il cognitariato, lavoro precario cellularizzato dell’intelligenza, dall’altra parte il ceto manageriale che possiede un’unica competenza: la competenza in competitività. E quando le cose vengono condotte al loro limite estremo, come accade in territori sempre più vasti della produzione capitalista globale, la competizione diviene eliminazione armata del concorrente, imposizione armata di un fornitore, devastazione sistematica di tutto ciò che non si sottomette al profitto del più forte. Quale competitore è migliore di quello che elimina il suo concorrente? E quale eliminazione è più sicura di quella che consiste nel murare vivo, scannare o sciogliere nell’acido muriatico?
Gomorra è iscritta nel codice logico del neoliberismo.

Regole

La fase neoliberista del capitalismo appare come un processo interminabile e ininterrotto di deregolazione, in realtà è l’esatto contrario. Si aboliscono le regole della convivenza e si impongono le regole della violenza. Mentre si aboliscono le regole che limitano l’invadenza del principio competitivo, si introducono automatismi sempre più ferrei nelle relazioni materiali tra le persone che divengono tanto più schiave quanto più libera è l’impresa.
Il processo di deregulation ininterrottamente elimina le regole che imbrigliano la mobilità dei fattori produttivi e limitano la potenza espansiva del capitale. Le forme di civiltà sociale e i diritti umani che si sono affermati nel corso dell’epoca moderna costituiscono regole che la deregulation deve eliminare. Le convenzioni culturali e giuridiche stabilite nel corso della modernità dal diritto borghese vengono sradicate una dopo l’altra dall’incedere della deregulation capitalistica.
Per questo il capitalismo si è trasformato in un sistema criminale e continuamente lavora ad espandere la sfera di pura violenza in cui la sua espansione può progredire senza limite alcuno.
Splatterkapitalismus: fine dell’egemonia borghese e dell’universalità illuminista del diritto.

Il crimine non è più una funzione marginale del sistema capitalistico, ma il fattore decisivo per vincere in un quadro di competizione de-regolato. Il ricatto, la violenza, l’eliminazione fisica degli avversari, la tortura, l’omicidio, lo sfruttamento di minori, l’induzione alla prostituzione, la produzione di strumenti per la distruzione di massa, la circonvenzione di incapaci sono divenute tecniche insostituibili per la competizione economica. Il crimine è il comportamento meglio rispondente al principio competitivo

Spazzatura

Per finire, l’ultimo ciclo dello Splatterkapitalismus descritto da Saviano è il ciclo dei rifiuti.
Rifiuti sono anzitutto gli uomini e le donne che il processo di valorizzazione criminale lascia continuamente lungo il suo percorso, storpiati, bruciati, gettati una fossa e poi fatti esplodere con una bomba a mano, o semplicemente umiliati, svuotati, incarcerati. A differenza della borghesia, che attribuiva un valore sacrale ai diritti umani, e li rispettava effettivamente, almeno quando si trattava delle persone appartenenti alla classe borghese, lo Splatterkapitalismus non riconosce alcun valore sacrale neppure alla vita di coloro che gestiscono potere. Per il Sistema i boss non sono che funzionari provvisorie:

“La dittatura di un uomo dei clan è sempre di breve termine, se il potere di un boss durasse a lungo farebbe levitare i prezzi, inizierebbe a monopolizzare i mercati irrigidendoli, investirebbe sempre negli stessi spazi di mercato non esplorandone di nuovi.” (222)

Marx ha descritto il processo generale di valorizzazione partendo dalla cooperazione sociale in cui si compongono infiniti atomi di tempo astratto. Alla fine della sua indagine sulla splatter-merce, Saviano cerca una metafora teorica capace di descrivere quel processo con altrettanta efficacia, ma si tratta di un’impresa disperata:

“La cosa più complicata è immaginare l’economia in tutte le sue parti. I flussi finanziari, le percentuali di profitto, le contrattazioni di debiti gli investimenti. Non ci sono fisionomie da visualizzare, cose precise da ficcarsi in mente.“

Poi, con un salto logico geniale, che permette finalmente di trovare il luogo più essenziale dell’iper-capitalismo contemporaneo, eccolo scrivere:

“Le discariche sono l’emblema più concreto di ogni ciclo economico.” ( 310)

L’Iper-capitalismo aumenta continuamente la sua capacità produttiva perché su questo si fonda il potere, non perché ci sia bisogno di produrre di più. I beni alimentari necessari a sfamare sei miliardi di esseri umani sono già largamente disponibili, ogni anno se ne distruggono milioni di tonnellate per evitare crisi di sovrapproduzione. I vestiti con cui gli umani si coprono eccedono largamente i bisogni, e ogni altra merce è reperibile nei magazzini infiniti che l’industria moderna ha provveduto a rifornire. Dunque perché si accelera si accelera si accelera, perché si impongono ritmi di lavoro sempre più forsennati, perché si corre a velocità sempre più frenetiche?
Perché l’Iper-capitalismo è intimamente Splatter.
Il capitalismo non si può più descrivere altrimenti che con la metafora (che non è poi neppure una metafora, ma una analisi clinicamente esatta) del cancro. Nelle discariche campane il cancro si nasconde malamente dietro un dirupo, sotto un leggero strato di erba marcia. Ci sono giovinotti laureati alla Bocconi che procurano alle aziende lombarde e tedesche ed emiliane territori campani in cui scaricare milioni di metri cubi di sostanze che diffondono cancro.

“Il territorio è ingolfato di spazzatura e sembra impossibile trovare soluzioni” (325).

Terre divorate dalla diossina. Ragazzini di quindici anni spediti dai camorristi della discarica a respirare l’aria densa di morte delle discariche per completare l’opera di smaltimento.

“I piccoli autisti più sentivano dire che la loro era un’attività pericolosa più sentivano di essere all’altezza di una missione importante. Nessuno di loro poteva immaginarsi dopo una decina di anni a fare la chemioterapia, a vomitare bile con lo stomaco fegato e pancia spappolati.” (329)

Le ultime pagine di Gomorra descrivono il paesaggio dei territori avvelenati dai rifiuti, dai residui, dalla spazzatura. Con un fazzoletto arrotolato intorno alla bocca per respirare meno aria possibile, Saviano si chiede che possiamo fare.

“Forse non restava che dimenticare, non vedere. Ascoltare la versione ufficiale delle cose. Mi chiedevo se potesse esistere qualcosa che fosse in grado di dare possibilità di una vita felice, o forse dovevo solo smettere di fare sogni di emancipazione e libertà anarchiche e gettarmi nell’arena, ficcarmi una semiautomatica nelle mutande e iniziare a fare affari, quelli veri.” (330)

Speranza

Alla domanda “che fare” c’è ancora risposta? C’è ancora risposta, oltre l’ovvio consiglio: non proliferate, non gettate altra carne innocente sul rogo che si diffonde? Per il momento altra risposta non c’è.
Ma sale dai quattro angoli del mondo una nuova armata, priva di bandiere, un’armata di senza futuro cui soltanto il suicidio appare come una speranza. Sembra che la principale inquietudine dei partecipanti al recente Congresso del Partito comunista cinese fossero le decine di migliaia di contadini che si uccidono perché la crescita economica li espelle dalle campagne e li riduce alla fame. E lo stesso accade in India, di fronte all’avanzare della modernizzazione industriale.
Dall’11 settembre del 2001 il suicidio è l’atto politico decisivo del nostro tempo. Quando la vita umana non vale più niente, e l’umiliazione cresce fino a farsi intollerabile ed esplosiva, forse è dai suicidi soltanto che possiamo attendere la speranza.

giovedì, aprile 05, 2007

The pink rebellion of Copenhagen

Danish youth revolt and the radicalization of the European creative class

di Alex Foti

It was a very hot weekend in Copenhagen between March 1st and March 3rd, particulary in Nørrebro, the alternative neighborhood where the evicted and demolished Ungdomshuset was located, and around Christiania, the hippy free city known Europe-wide being harassed by the Rasmussen government. But the the eviction and the three days and nights of heavy rioting that followed were initiated by the local socialdemocrats, who have been in charge of the city since 1900. The harsh treatment of protesters, Andersen’s mermaid who went pink, and the 600 arrests of activists, have prompted a wave of transnational solidarity among the European youth with appeals, actions, boycotts, and occupations of Danish consulates, not only in nearby Malmö, Göteborg, Hamburg, Oslo, Helsinki, but also in Berlin, Munich, Leipzig and every single German city, as well as in Warsaw, Poznan, Budapest, Amsterdam, Venice, Milan, Athens, Salonica, Istanbul.

Why in Denmark ? Why there such a forceful rebellion of the city’s dissenting youth, promptly joined by the immigrant youth ? How could a full-scale riot occur in peaceful and wealthy European capital, with burning barricades and sustained the clashes with the police, who had to bring in help from Sweden to put the situation back under control ? Wasn’t consumerist European youth supposed to be only eager to discover the world, flying and chatting low-cost ? Wasn’t the younger generation deemed to be irreversibly post-ideological, much less attracted to radical politics ?

In political terms, Denmark is a special country in more ways than one. It’s been part of the EU since 1973, but its people have opposed Maastricht with all their will, with major riots (the only comparable to last weekend’s in recent history) breaking out after the 1993 referendum, which in retrospect were at least as important as the 1995 French strikes in catalyzing the antiglobalization movement in Europe. And many Danes were in Göteborg, a crucial episode in the maturation of noglobal protest in Europe, just before Genoa. As the now respectable Italian right-wing leader and former fascist Gianfranco Fini said to Time magazine : "Genoa will be like Göteborg, or worse." (Since he went on to commandeer the riot cops in Genoa, he made sure his dire prediction would come true.) As a consequence of the fierce popular opposition to Maastricht, Denmark is not part of the euro, but it’s very much part of the eurocratic mainstream. The reason : flexicurity, currently the solution favored by the European Commission to temper the disasters (and limit the political costs) brought by unilateral flexibility, while forcing workfare down the throats of the unwilling youth of Europe. Although a Nordic country with an extensive welfare system and strong unions, social democracy hasn’t had an easy life in 21st century Denmark. A staunchly occidentalist, neoconservative right has been in power since 2001. Denmark has turned into a faithful bushist ally, more long-lasting than Berlusconi’s Italy. This exceptional partiality to NATO and America make the Danish version of flexicurity - the latest edition of Nordic social model after the demise of the top-down and paternalist, but generous and universalist, socialdemocratic welfare state - particularly liked by the Barroso commission.

Of course, the land which hosted the first Jacobin revolution outside France and invented quantum physics remains a land with a penchant for free thinkers and rabble rousers : the Danes have a fierce sense of humor, which compares favorably with their Scandinavian neighbors (remember The Kingdom by Lars von Trier ?). And Copenhagen, a city fully immersed in the informational networks and supply channels (think container and shipping giant Maersk) feeding the global economy, is full of them. With respect to the British or Italian creative class, Danish brainworkers are more radical and libertarian. Anarchism has flourished since the early 80s from anarchopunk to black bloc and beyond. Radicalism with red and green tinges is also in full bloom. In fact, generalized reliance on peer-to-peer sharing and free downloading has been furthered by collectives such as piratgruppe. And antiprecarity ideas and actions are currently fermented by groups like flexico. And who could ever forget such great subvertising stunts like anti-pepsi Guaraná Power (also a commercial success in the Jutland peninsula) ?

And this is just a fractal part of what Copenhagen’s creative class is able to achieve, when it thinks in terms of political action and cultural engagement. But Denmark is also a strongly agrarian economy which has prospered under the Common Agricultural Policy, thanks to its superior dairy and pork products that have conquered European, and world, markets. Farmers are as religious and narrow-minded, lily-white protestant and patriotic, just as urban dwellers tend to be secular and open-minded. The former have been pivotal in the rise to power of the Right, the latter are increasingly dissatisfied by the traditional Left.

The Danish antiglobalization movement has been the only one in Europe to develop its own independent political force. Sections of it joined the Red-Green alliance, bringing a woman under 30 to Parliament, and constituted a Pink list in Copenhagen’s municipal elections, which scored almost 10 per cent of votes at the city level, and in alternative neighborhoods like Nørrebro is firmly in the double digits. No wonder Andersen’s mermaid was covered in pink as a sign of solidarity with the protesters (the 69 signature instead refers to the street number of Undgomshuset, which uses it as some kind of punk ying and yang in its posters). The osmosis of activists into local politics and cooperative ventures has created a multi-level context, in which radical forces of all denominations can work in synergy if the situation requires, from the streets to the city to the parliament, with a tacit division of labor that respects political autonomy at all levels. The proliferation of networked autonomous struggles and alternative media networks combined with municipal representation has enabled a common political understanding of the connectedness of various forms of dissent and protest, and has encouraged experimentation with the possibilities of social radicalism in a European metropolis. This was not simply a rebellious episode : it will have far-reaching political consequences.

In the Nørrebro, the neighborhood’s culture of non-conformity has managed to bridge the divide between alternative youth and ghetto youth, or more sociologically speaking, between the mainly white creative class and the mainly immigrant service class. The neighborhood has long been an inclusive space for young bohemians and/or immigrants : it hosts many venues of social interaction, and has a history of connections and exchanges between Arab kids and the mainly white activists. As the youth of Arab descent was heard saying during the riots : "You helped us, we help you." Militant antiracism was pivotal in breaking the wall of mistrust and building some mutual respect in Copenhagen, although deep differences still remain between the two groups. Unlike Paris, where the students storming the universities and the boulevards to protest against juvenile precarity and the French government did not really fundamentally connect with the rioters (there were actually tensions during the demonstrations between students and radicals and banlieusards intent on looting and fighting the police), in Copenhagen recent social turmoil has mostly seen white and non-white youth on the same side of the barricade.

Large-scale riots occur spontaneously in response to blatant violations of individual liberties and collective rights and arrogant abuses of state and police power. Think of Rodney King trial and the 1992 L.A. riots, or remember the electrocution of teenagers running away from the cops which triggered the uprising of Paris banlieues in 2005, and you can understand why the raid of the Danish special forces to evict Ungomdshuset in the early morning of the first of march, was just like a match thrown on the parched prairie. Riots are spontaneous processes emerging after all hopes in non-violent tools of protest and confrontation are exhausted, due to the deafness of power.

And Danish state power is as deaf as it is dumb. As soon as the Right took office, it launched a cultural crusade to protect the Occident from Muslim immigration, perceived as a threat to the Danish cultural identity. The extent of its hostility to migrants in Denmark (a very nativist state with very strict immigration laws, in an already xenophobic European Union) became clear to the whole world with the mishandling of the crisis of satirical cartoons. The cartoons, purportedly making fun on the Prophet, were in reality the political editorial of a conservative newspaper, traditionally expression of the right-wing agrarian interests above noted. Only a panislamic boycott of Danish products pushed the country’s multinationals to plead for a more sensible approach with the Danish Prime Minister, Anders Fogh Rasmussen.

In fact, the prime minister - whom Berlusconi advised as lover to his wife for his good looks (seriously !) - shares his last name with a prime mover of European politics, Poul Nyrup Rasmussen, head of the European socialdemocrats in Strasbourg and influential in the Socialist International. The socialdemocratic blunder made in Copenhagen with the shady sale to a homophobic and islamophobic Christian sect of the social youth center Ungdomshuset, worsened by the forced eviction (there had already been skirmishes in September, so it was clear Copenhagen’s youth was going to explode at the next provocation) makes one thing clear : the two Rasmussens are one of a same kind ! European politicians, either socialdemocratic, liberal or conservative, increasingly look indistinguishable. They all share deference to financial markets, big corporations, have repressive and xenophobic instincts, and pander to firmly established interest groups and older generations. Even the mainstream Danish unions are realizing socialdemocrats are no longer reliable to defend the interests of employees, and when push comes to shove, they side with student protesters, as it happened during the general strikes and university occupations that rocked the country in the spring of 2006, when Rasmussen announced welfare "reforms" cutting benefits for youngsters and aged workers alike, which the socialdemocrats opposed only rhetorically. But it would be foolish to ascribe to a supposed Danish exceptionalism the extension and duration of the riots. Rather, by virtue of their socialist past and libertarian present, Danish movements are in a privileged position to fight against the sociopolitical consequences of both Atlanticist neoconservatism and European free-market liberalism. Copenhagen’s pink rebellion could be the harbinger of a more generalized youth insurgence in Europe, involving large sections of the so-called creative class of net/flex/temp workers.

In fact, it makes sense to see in the Copenhagen riots as a continuation of the French protests of 2006, and both as instances of a new phase for radical movements after the decline which followed the failed attempt at blocking the Angloamerican invasion of Iraq. In particular, it is tempting to see it as an anticipation of the generalized rebellion of the European creative class against the hyprocrisy, arrogance and corruption elites ruling the EU, which have been delegitimized by the French-Dutch no, but are clinging to power as if Europe were an asset that belonged to them. The Brussels summit is supposed to spruce up the environmental credentials of the EU, in order to make it appealing at least to somebody beyond the privileged few. Later in March 2007, the Berlin summit (which will issue the Berlin declaration on the constitutional future of the EU) will celebrate half-a-century of European treaties, but it will be the death of European federalism and the transition to some kind of confederation of nation-states, combining the bellicosity and racism of the former with transfer of sovereignty of the latter. We’ll also see how thing turn out in Heilingdamm-Rostock in June, and how movements from East and West of Europe will be able to fight the G8 and the huge transnational police force that will protect its closed-doors decisions. The insurgence of European youth in Copenhagen, Paris and elsewhere seems to point toward increasing political awareness and radicalization among young people working in information, knowledge, culture industries. Only the creative class can alter the course of European history away from its present reactionary path toward social emancipation of a finally mulatto eurogeneration. We have to act now for radical Europe, by connecting and solidarizing with major struggles like the Copenhagen and Athens revolts : let’s create a European space for radical youth culture !