lunedì, ottobre 30, 2006

La Terra non ci sopporta più.

Ancora cinquant'anni e il pianeta non ci sopporterà più, la catastrofe sembra trovare la cifra da cui far iniziare il count down. Lo dice chiaramente il rapporto - e non è il primo né l'unico - presentato alcuni giorni fa in Cina dal WWF, in cui si evidenzia come con questo trend di crescita a livello globale la terra non riuscirà a rigenerare le risorse minime per evitare il collasso dell'ecosistema terrestre.

Se invertissimo drasticamente il trend potremmo guadagnare qualche decennio - dico io -, ma ciò appare assai improbabile: il Living planet report non è stato presentato in Cina casualmente, ma per l'incidenza sempre maggiore dell'impornta ecologica di quel paese, ma viene da pensare che un altro motivo sia l'atteggiamento di minimizzazione di questi problemi da parte dei paesi occidentali.
E non penso sia una buona ancora della speranza il doversi agrappare alla Cina, ma certo non è intelligente aspettarsi nemmeno che i paesi che fino ad oggi hanno fatto "orecchie da mercante" - e che sono i principali responsabili dello stato delle cose ad oggi - da domani decidano di invertire la rotta.


Qui è disponibile il Living planet report (in english, of course)

Quello che segue un articolo di commento di Marina Forti.


L'umanità insostenibile
Living Planet 2006, il rapporto del Wwf sullo stato degli ecosistemi, presentato ieri in Cina, dice che la vita naturale declina veloce. E che gli umani consumano più risorse di quanto la Terra riesca a rigenerare: è la nostra «impronta ecologica»

Questa volta fa notizia il rapporto Living Planet, pubblicato ieri dal Wwf internazionale, come ogni due anni, per aggiornare sullo stato degli ecosistemi del pianeta. Fa notizia e con ragione: il rapporto «pianeta vivente» 2006 avverte che se l'umanità continua a consumare risorse naturali al ritmo attuale, entro il 2050 ci servirà due volte la capacità biologica del pianeta. Insomma: avanti così il collasso è inevitabile, e anche abbastanza vicino.
Living Planet è il risultato di due anni di studio sui dati del 2003. Descrive lo stato della biodiversità (l'insieme dei viventi che popola il pianeta) e la pressione degli umani sulla biosfera. Per questo usa due indicatori: il primo è battezzato «indice del pianeta vivente» (Living Planet Index) e misura i trend della vita sul pianeta. Più precisamente, osserva 1.313 specie di vertebrati (pesci, anfibi, rettili, uccelli, mammiferi) di tutto il mondo: sono solo una parte di tutte le specie viventi del pianeta, ma il trend di queste popolazioni è indicativo dello stato di tutta la biodiversità. Ebbene, tra il 1970 e il 2003 la popolazione dei vertebrati è declinata di circa un terzo: stiamo degradando gli ecosistemi naturali a un ritmo che non ha precedenti nella storia dell'umanità.
L'altro indice usato dagli scienziati che hanno lavorato con il Wwf è l'«impronta ecologica» (Ecological Footprint). E' un termine noto a ecologi e ambientalisti, forse meno al pubblico più generale (e per nulla a chi determina le decisioni politiche): l'«impronta ecologica» misura la domanda di terra e acqua biologicamente produttiva necessaria agli umani per produrre ciò che consumano. Ovvero: la terra coltivabile, i pascoli, le foreste, i banchi di pesca necessari a produrre il cibo, fibre e legname che consumiamo; più il territorio necessario ad assorbire i rifiuti che produciamo inclusi quelli generati consumando energia (quindi anche l'anidride carbonica che fa effetto serra e modifica il clima) e il territorio che occupiamo per le nostre infrastrutture (il consumo d'acqua dolce non è incluso; il rapporto vi dedica un capitolo a sé).
Ebbene: nel 2003 l'impronta ecologica globale dell'umanità era di 14,1 miliardi di ettari globali (cioè ettari biologicamente produttivi, con capacità media di produrre e assorbire risorse), pari a 2,2 ettari globali per persona. Ma la «biocapacità» totale era di 11,2 ettari globali, pari a 1,8 ettari procapite. Dunque eccediamo la biocapacità del pianeta, ed è così ormai dalla metà degli anni '80: ormai la domanda eccede l'offerta del 25%. E' il «debito ecologico».

Se andiamo a guardare per aree mondiali scopriamo lo squilibrio di sempre: le impronte ecologiche più pesanti sono quelle di Emirati arabi uniti e Stati uniti, la più bassa in assoluto quella dell'Afghanistan; tutti i paesi industrializzati sono ben sopra la media mondiale, l'India al di sotto. La Cina sta circa a metà, poco sotto la media: paese in rapida crescita economica, avrà un ruolo chiave nell'uso più o meno sostenibile delle risorse nei decenni a venire: per questo il Wwf internazionale ha deciso di presentare il suo rapporto ieri proprio a Pechino.
L'Italia ha un'impronta ecologica pro capite di 4,2 ettari globali, con un deficit ecologico di 3,1 ettari pro capite rispetto alla nostra biocapacità. E questo ci mette al 29esimo posto mondiale.
Viene da pensare che nei decenni del grande sviluppo industriale il mondo ha discusso di esaurimento delle risorse naturali come limite allo sviluppo, dal petrolio (risorsa non rinnovabile) in poi. Ma ancora prima delle materie prime naturali, quallo che sta finendo è la capacità della Terra di assorbire i nostri rifiuti e rigenerarsi. L'umanità trasforma le risorse naturali in rifiuti molto più in fretta di quanto la natura ritrasformi i rifiuti in risorse.
E' la catastrofe? Sì, a meno che si inverta la rotta. Il Wwf ipotizza diversi «scenari» e dice che è ancora possibile la transizione a una situazione sostenibile: ma questo implica prendere subito decisioni, perché le politiche e gli investimenti avviati ora persisteranno per gran parte del secolo. Ed è questo che preoccupa: i dirigenti mondiali non hanno finora mostrato di comprendere l'urgenza del problema.

martedì, ottobre 24, 2006

La teoria del valore e YouTube

Circa un anno fa lessi un breve articolo che, a partire da una riflessione generale e poi particolare intorno ad un libro specifico, mi affascinò parecchio, più che altro per la buona sintesi con cui veniva presentato un problema e, al contempo, evidenziata una critica. In questi giorni, per uno strano gioco di ricorsi, mi sono trovato a spolverare my brain in cerca di qualcosa che mi permettesse di ritrovare quel breve articolo che a partire da una disamina breve e incisiva dei mutamenti strutturali e in particolare del lavoro poneva una critica rispetto all'attuale validità della Teoria del valore in Marx.

Alla fine ho ritrovato la fonte: un articolo di Antonio Caronia dell'ottobre 2005 pubblicato su Socialpress (si trova qui), che in realtà a rileggerlo in sé non dice molto ma che per me era stato alquanto evocativo e proficuo, tanto da lasciare una traccia nella mia memoria.

La parte dell'articolo che mi interessa qui richiamare è quella in cui Caronia richiama il libro E-Work. Lavoro, rete, innovazione di Sergio Bellucci - fra l'altro responsabile di rifondazione per la comunicazione e le nuove tecnologie.
Il libro in questione non l'ho letto - certe cose si rimandano per una vita - ma è interessante ciò che fa notare a proposito Caronia, secondo me proponendo una critica che tocca generalmente anche altri lavori a proposito delle "nuove" forme del lavoro nel capitalismo cognitivo: l'idea, in sintesi, che si possa considerare tuttora valida la Teoria del valore di Ricardo e poi di Marx, anche in condizioni strutturali che fanno delle dimensioni comunicativa e linguistica - attraverso la mediazione delle tecnologie telematiche - le risorse fondamentali del processo produttivo e, quindi, della valorizzazione capitalistica.

Scrive Caronia:
"Bellucci ha ben presente tutto ciò [il ruolo delle capacità cognitive e delle tecnologie telematiche, n.d.r.], e cerca di ricavarne alcune direzioni di ricerca per la teoria e per la prassi, sforzandosi per esempio di mettere in relazione l’avvento del digitale con alcuni snodi del pensiero scientifico e filosofico fra Otto e Novecento (dall’algebra di Boole alla meccanica quantistica alle teorie del caos e della complessità).
È vero che non tutto ciò che scrive al proposito è convincente, e alcuni passaggi appaiono forzati e un po’ meccanici. Ma non stanno qui, a mio parere, i limiti maggiori del suo libro, quanto in una "timidezza" teorica che a volte gli impedisce di rimettere in discussione punti decisivi della teoria e delle analisi tradizionali, sì che spesso egli sembra non riuscire a trarre tutte le conseguenze implicite nelle sue stesse premesse."

"È ciò che accade su un punto teorico decisivo come la teoria del valore, che Marx riprese da Ricardo, e che collega il valore di scambio di una merce al tempo di lavoro necessario per produrla. Bellucci (pag. 62) sembra ritenerla ancora valida, mentre a me pare che proprio questa sia una delle parti più caduche del quadro teorico marxiano, tanto più oggi quando (come abbiamo visto) il processo di valorizzazione non appare più confinato ai tradizionali luoghi produttivi (la fabbrica), ma si allarga tendenzialmente a tutta la società."

Certamente la parte che lasciò un segno nella mia memoria fu quella qui sopra sottolineata, in cui appunto si pone il problema di come possa la teoria del valore dar conto dei processi di valorizzazione capitalistica che innervano il capitalismo cognitivo. E certamente mi ritrovai nel individuare nella teoria del valore la parte oggi più dubbia della teoria marxiana.

Da Wikypedia: "L'economia politica ha sempre cercato di dare risposta alla domanda: da dove deriva il valore? Le risposte sono state assai divergenti. Si va dalla scarsità dei beni disponibili, alla loro utilità, alla necessità di remunerare i fattori produttivi, includendovi il capitale e considerando la sua remunerazione – il profitto – come la ricompensa per l'astinenza del capitalista, il quale rinuncia al consumo per impiegare produttivamente la propria ricchezza, e così via." [qui]

Altrettanto interessante è per me il legame fra il processo di valorizzazione capitalistica e i luoghi della produzione: la produzione di fabbrica - pur ancora necessaria e ampiamente diffusa - ha perso la sua egemonia, ossia la sua capacità di "comandare" le diverse forme del lavoro, mentre è emerso con prepotenza il territorio come elemento fondamentale nella produzione di valore, tanto che alcuni autori, nel riferirsi ai rapporti di produzione odierni, ritengono si debbano considerare oltre che Capitale e Lavoro anche il territorio.

Cercherò di tornare in altri post sul ruolo del territorio.

Ora vorrei tornare ai ricorsi di cui parlavo all'inizio di questo post, infatti questo articolo di Caronia mi è stato fatto tornare alla mente da una chiaccherata con un amico impegnato in letture seventies sulla Teoria del valore in Marx (non proprio per sua scelta).

Poi alcuni giorni fa un fatto di cronaca economica ha fatto scattare un ulteriore connessione con questo articolo, quasi una conferma implicita che la teoria del valore ha bisogno quanto meno di una revisione: la vicenda è quella di YouTube e del suo acquisto da parte del colosso Google.

Conosciamo YouTube, anche solo perché su questo blog sono finiti alcuni video da lì scaricati, ma è bene dire in due parole che cosa "produce" YouTube, "chi" e "come" lo produce.
Da Wikypedia: "
YouTube è un sito molto popolare a livello internazionale che consente agli utenti l'upload, la visione e in generale la condivisione di video. YouTube è stato creato nel febbraio del 2005. [...] La popolarità di YouTube è superiore a quella di Google Video, poiché consente l'upload di video creati da chiunque. Infatti YouTube ospita video di: show televisivi, video musicali e video personali fatti in casa dagli utenti. I video ospitati su YouTube possono inoltre essere facilmente inclusi in siti web e blog utilizzando direttamente il codice HTML fornito da YouTube." [qui]

In questa definizione troviamo le risposte alle domande poste poco sopra (evidenziate in corsivo), concludendo che YouTube di fatto mette semplicemente a disposizione una piattaforma che permetta la condivisione di video. Una specie di post-televisione, dove l'utente guarda ciò che vuole e con semplicità offre agli altri utenti suoi materiali video (di ogni genere), all'interno di una struttura agli antipodi di quella della televisione: nessun palinsesto, nessuna struttura.

YouTube, in due parole, è ad oggi un'azienda a zero profitti. La cosa più interessante è che a fronte di un'impresa che non produce nulla il colosso Google (che a sua volta non produce nulla, ma almeno ricava profitti dai serivizi che fanno contorno al motore di ricerca) ha acquisito YouTube per la cifra di 1,65 miliardi di dollari.

Eravamo già abituati a "follie" del genere, ma certo nel contesto di questo post si capisce meglio che cosa possiamo intravedere dietro operazioni del genere. Certo difficilmente potremo ancora pensare che il
valore sia oggi semplicemente determinato dalla quantità di denaro alla quale un bene od un servizio può essere scambiato...

E alla fine un omaggio alla rivincita dei nerds che continua: Steve Chen e Chad Hurley sono i fondatori di YouTube che hanno chiuso l'affare con Google, questo sotto è il video con cui annunciano la vendita...







lunedì, ottobre 23, 2006

La Val di Mello in pericolo! Firma la petizione


Per chi non la conoscesse la Val di Mello è una valle laterale della Valtellina, poco lontano da Sondrio. E' una valle alpina di splendide pareti rocciose e boschi, molto conosciuta nell'ambiente alpinistico (visto che alle alte quote vi sono ancora ghiacciai) e in particolare in quello del free-climbing. Infatti, la Val di Mello è stata terra mitica per l'arrampicata libera in particolar modo per ciò che rappresentarono le sue placche rocciose per una generazione di "arrampicatori" che negli "anni della contestazione" rinnovò le motivazioni e il senso di questa discliplina.
Oggi la Val di Mello è in pericolo: la Geogreen S.p.a. ha sviluppato un progetto che prevede la captazione di ogni torrente che alimenta la Val di Mello, ovviamente a scopi industriali... Quello che segue è l'appello del Comitato in difesa della Val di Mello, in cui fra l'altro ci viene spiegato come è potuta sfuggire a questo destino negli anni passati in cui l'Enel in primis ha sfruttato massicciamente ogni fonte idrica in ogni valle alpina.

Al seguente link trovate una petizione che vi invito a firmare per fermare il progetto:

Petizione Val di Mello

Il comitato in difesa della Val di Mello ha iniziato la raccolta firme contro il progetto della Geogreen spa di captare TUTTI i torrenti che alimentano la Val di Mello.

Progetto folle, sconcertante dal punto di vista ambientale, paesaggistico, turistico e storico. Becero anche prettamente dal punto di vista economico andando a compromettere irrimediabilmente il turismo che è la fonte principale di sostentamento delle popolazioni locali.

La Val di Mello piccola Valle Monumentale riconosciuta in tutto il mondo per le sue straordinarie qualità paesaggistiche, si è salvata negli anni sessanta dalle captazioni dell'Enel, dalle speculazioni edilizie, dalle cave, dalle strade, dalle arginature in cemento... Da quarant'anni è tutelata da leggi dello stato:

Decreto Ministeriale del 16 novembre 1973 che la individua come "zona di notevole interesse pubblico: un quadro panoramico alpino di rara bellezza e incontaminato con magnifica vegetazione di faggi, abeti e betulle formato in primo piano da verdi pascoli e acclivi e ricchi di acque, tesi verso i monti che seguono la valle, punteggiato da massi erratici e da casolari sparsi e malghe che costituiscono un suggestivo e caratteristico aspetto, fuso con la natura, avente valore estetico e tradizionale".

Diventata area SIC (Sito di Interesse Comunitario), facente parte del Nascente Parco del Bernina Badile Disgrazia, promossa a Monumento Naturale... Questo patrimonio ambientale non può finire nel 2006 distrutto per l'interesse speculativo di una ditta privata.

Salvare la Val di Mello è una questione di "buon senso" è un dovere di ogni cittadino, è una forma di riscatto verso tutte le speculazioni che hanno devastato il nostro territorio è fissare un punto oltre il quale non si può andare. Per la nostra dignità e per lasciare alle future generazioni l'ultimo meraviglioso giardino delle nostre Alpi.

venerdì, ottobre 20, 2006

Metamorfosi del guerriero

E' uscito in libreria il nuovo numero della rivista Conflitti Globali, continua così il percorso di ricerca avviato su questa rivista da Alessandro Dal Lago, Max Guareschi, Salvatore Palidda, Roberto Ciccarelli ed altri a partire dalla constatazione che "pensare i conflitti politici e sociali, in un'accezione molto ampia, senza proiettarli su scala planetaria è oggi privo di senso". Una novità si può trovare nella nuova casa editrice che pubblica la rivista che quindi è migrata dalla famigliare Shake Edizioni alla - al momento abbastanza misteriosa, provate a seguire il link... - Agenzia X.


Purtroppo la rivista non ha un sito, soprattutto non sono riuscito a trovare in rete qualche pezzo in anteprima da potervi servire come "antipasto", quindi ho pensato - dopo avervi brevemente presentato questo numero - di pubblicare l'editoriale al primo numero della rivista che rappresenta un pò il progetto di ricerca che sottende alla rivista.

Ma prima, per restare a Metamorfosi del guerriero, una breve presentazione (per quello che ho scovato e visto in rete...): numero che continua appunto la riflessione sulle nuove forme dei conflitti e che in particolare si dedica al
tratteggio dei nuovi guerrieri (che oggi si chiamano militari ma anche bodyguard, mercenari, legionari, fino a terroristi) e che quindi investe un'ampia gamma di questioni correlate.

In questo numero della rivista semestrale Confltti globali vengono presentati gli articoli di: Jean-Paul Hanon, Mauro Bulgarelli, Umberto Zona, Emilio Quadrelli, Dario Malventi, Roberto Ciccarelli, Mario Vegetti, Claudio Azzara, Gian Piero Piretto, Friedrich Gorge Junger, Georg Rimmel, Augusta Molinari, Mustapha el Quadéry, Georges Canguilhem, Francisco Ferràndz, Stefano Meriggi.


Come dicevo sopra ecco di seguito l'editoriale (anno 2005) che traccia gli obbiettivi del progetto di ricerca di Conflitti Globali.


Editoriale a cura della redazione di Conflitti Globali

Pensare i conflitti politici e sociali, in un'accezione molto ampia, senza proiettarli su scala planetaria è oggi privo di senso. Ciò non significa perseguire un'impossibile lettura unitaria o globale del conflitto - come avviene, al prezzo di un'evidente deriva ideologica, nelle teorie oggi prevalenti di destra ("scontro di civiltà") o di sinistra ("guerra civile globale") - quanto piuttosto comprendere la rete di implicazioni di cui ogni conflitto è espressione.
Così, per esempio, la posta del controllo delle risorse energetiche in Medio Oriente è in gioco su diversi piani: egemonia americana, ruolo dell'Europa (con le sue divisioni e diverse sfere d'influenza), economia globale, mercato petrolifero, crisi dei nazionalismi arabi, movimenti religiosi ecc. Ognuno di questi piani è sia locale, sia globale e interconnesso con gli altri secondo linee di trasformazione che, fase dopo fase, producono un certo quadro strategico.
Pensare di definire il quadro in modo monocausale o ricorrendo a logiche binarie (come il conflitto impero-resistenza globale) oppure alla mera meccanica delle forze (geopolitica) è un modo per inibirsi la comprensione dei conflitti globali. La tentazione, oggi prevalente, di una spiegazione culturalista dei conflitti è priva di respiro, in quanto cristallizza in slogan cognitivi processi molto più complessi e sfaccettati.
Questo emerge dalla situazione irachena, in cui l'evidente alleanza tattica antioccidentale di gruppi che si richiamano a culture o confessioni eterogenee - laici ex baathisti e nazionalisti, gruppi di ispirazione sunnita e sciiti di vario genere, autonomi e filoiraniani, islamici generici, propaggini dell'internazionale miliardaria di bin Laden o di altre reti - ha svuotato di senso l'ipotesi di spiegazione religiosa o culturale della guerra scoppiata dopo la sensazionale dichiarazione di Bush secondo cui la "missione [era] compiuta". Non per questo, ovviamente, si tratta di ignorare il ruolo delle culture (o, in senso lato, della cultura) nell'analisi dei conflitti sociali e politici. È necessario invece abbandonare il pregiudizio secondo cui il conflitto oppone modelli culturali più o meno compatti e riflettere, al contrario, sulla natura politica di molti supposti conflitti culturali.
Un aspetto decisivo dello stile analitico che qui si propone è l'interesse per il carattere aleatorio dei conflitti contemporanei (a partire dalla fondamentale intuizione clausewitziana della guerra come "gioco a rischio"). Sottolineare la dimensione "aleatoria" significa semplicemente riconoscere la limitata prevedibilità dell'esito di ogni partita, tattica e strategica, nella definizione del quadro conflittuale, dal singolo teatro fino alla situazione complessiva o globale. Si deve tenere conto che, date le caratteristiche dei conflitti contemporanei - ubiqui e interconnessi, e in questo senso globali - l'accelerazione dei processi è continua, e comunque superiore a quella che caratterizzava il mondo sinistramente rassicurante del bipolarismo. I processi sono resi sempre più veloci - e quindi scarsamente prevedibili - dal ruolo che il ricorso alle armi ha nella definizione dei conflitti.
L'ubiquità della guerra, e quindi della decisione armata, eventualizza - per così dire - le dinamiche politiche e sociali che siamo abituati a pensare come lunghe o lente.
Quando si sceglie di combattere, si rischia per definizione, ci si espone alla sconfitta (strettamente militare, strategica, tattica o politica a seconda dei casi). Il solo fatto di ricorrere all'uso indiscriminato e normale delle armi produce contraccolpi inimmaginabili, difficili da prevedere per qualsiasi analisi strategica.
Naturalmente, alla guerra corrisponde sempre una resistenza che va al di là della mera o apparente sconfitta sul campo dei più deboli (l'Iraq insegna).
La resistenza tende a trasformarsi in vittoria quando gli sconfitti rifiutano di combattere come vogliono i più forti. Napoleone comincia a perdere il suo impero in Spagna in quanto gli spagnoli non accettano le battaglie campali ma praticano la guerriglia, e in Russia perché gli avversari operano una ritirata strategica in spazi sconfinati; gli americani tendono a perdere le guerre che non si adattano al loro modello strategico (Vietnam, Iraq), allo stesso modo dei russi in Afghanistan e Cecenia. Naturalmente i modelli evolvono: la resistenza popolare alla vietnamita è costosissima (1 milione e mezzo di morti vietnamiti contro i 58.000 americani) e quindi è ragionevole pensare che il "terrorismo" - indipendentemente da considerazioni morali - rappresenti l'inevitabile forma che assume la resistenza contro nemici armati in modo ipertecnologico.
D'altra parte, nulla di particolarmente nuovo sotto il sole: è proprio ciò che oggi chiamiamo "terrorismo" ad avere permesso su scala limitata, non globale, i successi dei gruppi clandestini ebraici contro gli inglesi in Palestina e del Fronte di liberazione nazionale algerino contro i parà francesi...

Con queste considerazioni, non si vuole proporre una rivista di studi militari, ma una rassegna di ricerche e interventi che, nell'analisi dei conflitti locali-globali non ignorino la dimensione militare come interfaccia abituale - oggi, più di ieri - del sociale e del politico.
Quindi, una rivista che assuma le trasformazioni del militare come piano di analisi non esclusivo ma rilevante della conflittualità contemporanea. Ecco allora che diventano cruciali, insieme all'analisi dell'ubiquità della guerra, aspetti e problemi come la militarizzazione della società nell'era del terrorismo, la sorveglianza, il controllo urbano, la gestione militare delle migrazioni, le nuove modalità di internamento (dai campi per "combattenti illegittimi" ai Cpt per migranti "clandestini"), le trasformazioni del diritto in chiave di "emergenza", il peace keeping ecc.
In breve si propone un tipo di analisi che mira a comprendere la dimensione biopolitica e strategica dei conflitti nell'era della globalizzazione. Con il richiamo alla biopolitica e quindi a Foucault non intendiamo rivendicare alcuna filiazione teorica. Diversamente, il metodo elaborato da Foucault nell'ambito di una ricerca ancora legata a un ambito nazionale - appare straordinariamente adatto al quadro di implicazione globale che si offre al nostro sguardo per diverse ragioni:

• Non esiste il Potere globale o l'Impero, ma una rete di poteri imperiali (neocoloniali o continentali) che ridefiniscono continuamente i loro ambiti di reciproca interferenza ed esclusione (oggi il potere degli Stati uniti è in larga parte egemone, sul piano militare, ma non si deve dimenticare che la capacità di intervento americana si scontra con limiti oggettivi: si veda il peso politico-militare effettivo o virtuale di Cina, Russia e altri mondi...).

• Esistono diversi piani strutturali di potere, politico, militare, finanziario, economico, tecnologico, mediale, culturale ecc. Non ha senso presupporre una loro solidarietà a priori (alla lunga, se il prezzo del petrolio cresce in modo esponenziale, qualcuno, negli Stati uniti o altrove, chiederà il conto a G.W. Bush del suo avventurismo), mentre è necessario analizzarne le congiunzioni, le disgiunzioni, le solidarietà e i conflitti.

• I poteri, o le costellazioni di poteri occasionali o stabili, suscitano, per la loro dinamicità e produttività, le correlative resistenze, che a loro volta non sono necessariamente solidali tra loro.

• Non si dà un Soggetto all'opposizione globale, mentre esistono i soggetti in relazione ai poteri, e questi in relazione ai soggetti. Pensare di semplificare il quadro unificando, se non altro su un piano categoriale, i "resistenti" non è altro che un escamotage chiliastico, un modo per non analizzare le costellazioni empiriche poteri-resistenze.

• Non esistono strategie unificate dei poteri globali, e tanto meno intenzionali o onniscienti. Le guerre imperiali in alcuni casi possono condurre a vittorie spettacolari (Golfo 1991, Kosovo 1999), ma anche a ritirate precipitose (Somalia 1993) e a veri e propri fallimenti e impasse (Iraq, a partire dal 2003). Pertanto, i piani strategici si riformulano in continuazione, come politique politicienne armata su scala globale. Il linguaggio foucaltiano - strategie e tattiche, alleanze, avanzate e ritirate ecc. (sempre al plurale) - risulta quindi adeguato per descrivere le trame empiriche dei poteri.

• Internamenti, controlli, sbarramenti, barriere interne ed esterne, confini evolvono in relazione alla gestione, da parte dei poteri, dell'ubiquità del conflitto.

• La vita delle società non può essere pensata in modo autonomo dal quadro delineato di una conflittualità globale. Possiamo ritenere che il mondo evolva - senza immaginare a breve o lungo termine una sua unificazione - in una società globale dei controlli, in cui la singolarità dell'esistenza e delle sue scelte, l'espressione politica dei gruppi, l'azione in difesa delle libertà individuali e collettive sia sempre più condizionata dall'incombere di un opprimente reticolo di condizionamenti.

• In poche parole, si ripropone qui il metodo dell'empirismo radicale o "positivismo" felice di Foucault, per trascenderlo nella scala molto ampia che è divenuta la nostra.


giovedì, ottobre 19, 2006

Gli affreschi per la Cappella di San Precario

Il nostro santo preferito negli ultimi tempi ha perso un poco di appeal o, più probabilmente, seguendo l'andamento del movimento costituito dai suoi fedeli si è fatto dimora negli ambiti più privati e intimi di noi...

Gli affreschi per la Cappella di San Precario sono però alquanto belli e divertenti, quindi oltre a segnalare il link al sito dove possono essere scaricati di seguito alcuni fra quelli che più mi sono piaciuti...














La maternità ed il contratto a termine qui sopra...













Il licenziamento e il padrone qui sopra...

Se volete vedere il bozzetto per la statua del santo e le immagini alla loro fonte d'origine clicca qui su San Precario...

Negli Stati Uniti di fatto abolito l'Habeas Corpus


Alcuni giorni fa, con precisione il 17 ottobre 2006, il presidente statunitense George W. Bush ha firmato l'approvazione del Military Commissions Act of 2006 che di fatto abolisce l'Habeas Corpus e quindi garantisce un potere pressoché assoluto allo Stato. Che cosa è l'Habeas Corpus? Su Wikypedia alla voce Habeas Corpus:

"Comunemente con habeas corpus ci si riferisce a un particolare tipo di ordine denominato (in inglese writ), in forma completa, habeas corpus ad subjiciendum; esistevano tuttavia altri tipi di writs dello stesso tipo, quale il writ habeas corpus ad testificandum.

Il writ di habeas corpus è detto anche Great writ per la sua importanza fondamentale nel sistema di diritto inglese. La sua importanza può meglio essere compresa se si considera che nel diritto delle origini ogni suddito poteva essere soggetto a una pluralità di giurisdizioni locali e signoriali, le quali tutte potevano disporre fisicamente del soggetto. Con l'emissione del writ di habeas corpus una corte reale poteva ordinare a qualsiasi altra giurisdizione la consegna del prigioniero garantendolo dall'arbitrio signoriale."

Chiaro? Ma richiamiamo anche un pò della sua storia:

"Il writ di habeas corpus è citato nelle fondi di diritto inglese (Blackstone) fin dal 1305, sotto il regno di Edoardo I, per quanto anche anteriormente a tale data fossero stati emessi writs di contenuto analogo."

Il 27 maggio 1769 venne promulgato l'Habeas Corpus Act per ripristinare l'efficacia di questo strumento che nel frattempo le pratiche delle corti di giustizia avevano indebolito, l'incipit del documento recita: "Whereas great delays have been used by sheriffs, gaolers and other officers, to whose custody, any of the King's subjects have been committed for criminal or supposed criminal matters, in making returns of writs of habeas corpus to them directed, by standing out an alias and pluries habeas corpus, and sometimes more, and by other shifts to avoid their yielding obedience to such writs, contrary to their duty and the known laws of the land, whereby many of the King's subjects have been and hereafter may be long detained in prison, in such cases where by law they are bailable, to their great charges and vexation."

Dal corpus legislativo inglese questo principio fondamentale è stato poi applicato in tutte le costituzioni occidentali, fino ad essere inserito il 10 dicembre 1948 nella Dichiarazione Universale dei Diritti del Uomo, che all'articolo 9 recita: "Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, trattenuto o esiliato."

La questione emerge qui con tutta la sua forza, ma molti ricorderanno che lo stesso presidente G. W. Bush forzò ampiamente questo principio immediatamente dopo la strage delle Twin Towers con l'approvazione del Patriot Act, ma soprattutto con la materializzazione di strutture carcerarie quali Guantanamo. Interessante proporre qui il link con un articolo del 2004 che compare sul sito dell'Associazione italiana dei costituzionalisti e che segnala quali poteri assolutamente straordinari il George W. Bush abbia introdotto nell'ordinamento statunitense con una serie di atti governativi.
I provvedimenti adottati in quel contesto hanno fornito:
  1. la possibilità di intercettare, registrare ed utilizzare le comunicazioni telefoniche a fini giudiziari senza autorizzazione preventiva di un giudice;
  2. l’autorizzazione per i servizi di sicurezza e di informazione di condividere le informazioni,ivi comprese le registrazioni di ascolto telefonico ,senza autorizzazione preventiva di un magistrato ;
  3. l’estensione a 90 giorni della possibilità di procedere a delle intercettazioni telefoniche nel quadro di una inchiesta ,senza l’autorizzazione del magistrato;
  4. l’eliminazione dell’obbligo di dichiarare la posizione sotto controllo di un sospetto nell’ambito delle intercettazioni relative a temi di sicurezza nazionale;
  5. l’obbligo per tutti gli operatori di internet di concedere informazioni confidenziali su semplice domanda delle forze di polizia o dei servizi di sicurezza,senza l’autorizzazione di un magistrato ;
  6. la possibilità dell’esecutivo di far giudicare i terroristi catturati da tribunali militari a porte chiuse ,senza le garanzie usuali dei procedimenti giurisdizionali.
Impressionante, vero? Molto peggio delle maledette leggi speciali introdotte in Italia a partire dagli anni '70, soprattutto quando normalmente ci si riferisce agli Stati Uniti come alla più grande (a questo punto forse per dimensioni?) democrazia del mondo.

Di seguito a proposito del Military Commissions Act of 2006 il commento dell'Associazione U.S. Citizens for Peace & Justice - Rome che giustamente oltre a rendere nota la loro preoccupazione come cittadini statunitensi si chiedono se il Ministero degli Esteri italiano ha in programma di diramare un avviso per i cittadini italiani che intendono recarsi negli Stati Uniti...
perché, a questo punto, come si decide chi è
un "combattente nemico illegale"?

Avviso per i viaggiatori diretti verso gli Stati Uniti

Per noi cittadini statunitensi, il giorno 17 ottobre 2006 verrà ricordato come un giorno nero nella storia del nostro paese, il giorno in cui il presidente George W. Bush ha firmato il Military Commissions Act of 2006. Questa nuova legge, autorizzata dal Congresso (altro giorno nero ...), conferisce poteri senza precedenti al presidente per imprigionare chiunque egli dovesse ritenere un "combattente nemico illegale" e processarlo attraverso commissioni militari.

In conseguenza di questa legge, ci si chiede se il Ministero degli Esteri italiano ha in programma di diramare un avviso per i cittadini italiani che intendono recarsi negli Stati Uniti. Tale avviso dovrebbe spiegare che la nuova legge lascia al presidente decidere, secondo una definizione vaga ed ambigua, chi è un "combattente nemico illegale".
Questa definizione comprende non solo chi si è impegnato in atti ostili contro gli Stati Uniti o i suoi co-belligeranti, ma anche chi intenzionalmente e materialmente sostiene tali ostilità. Le prove al
riguardo non devono essere rese pubbliche.

L'avviso dovrebbe sottolineare che i cittadini non statunitensi definiti come "combattenti nemici illegali" potrebbero essere arrestati, anche senza capi d'accusa, e imprigionati a tempo indeterminato. La nuova legge, infatti, elimina il diritto all'habeas corpus, ossia il diritto di contestare i motivi della propria detenzione davanti a un tribunale civile.

Secondo i termini di questa legge, se e quando il detenuto viene processato ciò sarà attraverso una commissione militare istituita dal Ministro della Difesa o da altro ufficiale militare e sarà composta di giudici e avvocati militari. Il detenuto non godrà delle protezioni legali riconosciute come fondamentali nei paesi civili. Può non essere informato delle prove contro di sé e sono ammissibili anche le prove ottenute con metodi ritenuti equivalenti alla tortura. Le "tecniche di interrogatorio" applicabili verranno decise da Bush e non saranno rese pubbliche. Inoltre, la possibilità di ricorrere in appello è stata quasi del tutto eliminata, e gli appelli che si basano sulle Convenzioni di Ginevra veranno respinti.

Infine, l'avviso dovrebbe ricordare ai viaggiatori che nel gennaio del 2006 la Kellogg, Brown & Root, filiale del gruppo Halliburton, ha vinto un contratto per 385 milioni di dollari per costruire negli Stati Uniti centri di detenzione, le cui località non sono state rivelate, da utlizzare, come si legge in un comunicato stampa della KBR, per "lo sviluppo rapido di nuovi programmi".

Pianeta Cina: viaggio fra desideri e repressione


Quella che segue è una breve intervista a Toni Negri andata in onda durante la maratona radiofonica di Radio Sherwood in occasione del trentesimo anno dalla fondazione (dicembre 2005). La Cina è sempre più vicina - si potrebbe dire - ma in un senso lontano da quello che richiamava lo slogan di trenta-quaranta anni fa...




"Nella misura in cui quello che conta sono i nostri desideri, noi non chiediamo di batterci, nemmeno un sol giorno. Ma se le circostanze ci costringono a batterci, noi siamo in grado di batterci fino in fondo."
Mao Tse-Tung


Ricordi, riflessioni ed aneddoti sul pieneta Cina...

"Credo che il pianeta Cina sia maledettamente lontano e maledettamente vicino, nel senso che in quel paese noi possiamo vivere da un lato la nostra preistoria e dall’altra parte quello che sarà il nostro futuro; nostro nel senso dell’umanità.
Lì c’è stata questa rivoluzione effettiva: una rivoluzione di modernizzazione nella quale la proprietà collettiva è stata fondamentale, dove gli elementi socialisti sono stati essenziali nello sviluppo e nel quale il rapporto, come sempre avviene in questi casi, tra il comando e la necessità di mettersi in contatto fra lo sviluppo capitalistico in generale e l’organizzazione della lotta proletaria sul salario, sui bi-sogni, sulla libertà si è consolidato.
Quello è un paese che ha un enorme sviluppo, perchè ha un enorme contenuto di lotte.
Gli articoli che troviamo sulla stampa in merito alla Cina sono tutti completamente legati o alle notizie che vengono dai capitalisti che stanno entrando in Cina o a quello che è, evidentemente, il gruppo di potere che in Cina tiene, in maniera estrememente forte, tutte le fila dello sviluppo.
Riuscire a capire, invece, quello che stà succedendo dietro il comando, sotto il comando, contro il comando capitalistico, questo è il problema fondamentale.
Noi pensiamo che la Cina sia un paese "normalizzato".
Quando si legge solamente il Corriere della Sera, Repubblica , per non dire altri giornali che sono molto peggio, non si pensa mai che ci possa essere una resistenza e che anzi sia la resistenza, sia la rottura, sia la pressione continua di masse di lavoratori, di moltitudini di persone che vivono nelle grandi metropoli, che determinano lo sviluppo della storia.
Anzi, tutto questo non esiste perchè non viene comunicato affatto."

Quando sei andato in Cina, al di là di percepire quello che sta accadendo, quale altro ricordo ti è rimasto del "viaggio nel pianeta Cina"?

"Il primo ricordo che hai evidentemente è quello di questa città enorme di Shangai, che è più bella di Manhattan. Questa formidabile città di Pechino che si stà rimettendo in sesto e che è più bella di Los Angeles e dall’altra parte questa distruzione sistematica e continua di quella che è la tradizione cinese per portarla verso l’iper modernità, verso il post-moderno e lo strappo enorme che tutto questo rappresenta.
Io non so bene, ma ho vissuto un pò nel veneto quello che è stato il passaggio della nostra civiltà contadina emigrante, la civiltà prima delle grandi industrie e poi dei servizi, della terziarizzazione territoriale del lavoro e della produzione.
Ecco in Cina tutto questo avviene nelle dimensioni , che sono le stesse, ma che hanno una dimensione di una violenza assolutamente inimmaginabile.
Noi dobbiamo pensare che la Cina è tutta, cioè con questo suo miliardo e mezzo di persone , come gli anni 70 da noi.

Per cui con i desideri, i sogni e le aspirazioni di chi si trova poi, nel momento del cambiamento, nel momento del desiderio.
Quello è un paese di desiderio e di repressione.
Un paese in cui i corpi, i sogni, i bi-sogni, le comunità sono tutte messe in gioco, è un paese enorme da un lato. Quando parlo con sociologhi, politici, tutti pensano che le micro realtà siano quelle fondamentali per conoscere la realtà: e questo in certe parti è vero, è solo attraversando il micro che noi riusciamo a costruire delle serie che possono ripetere degli atteggiamenti antropologici.
Ma poi c’è questo macro, questa grandezza, delle dimensioni cinesi, delle dimensioni di un continente o di un mondo, com’è in realtà la Cina, che diventano essenziali nel modo di far politica.

Ad esempio il modo di far politica del partito comunista cinese, indubbiemente a nessuno di noi piace, ma devo dire che è, malgrado tutto, una politica che ha delle dimensioni adeguate a quella che è la realtà cinese.
Per lottare contro queste cose bisogna lottare dentro a queste dimensioni, questo lo dico anche perchè mi fanno ridere un pò quelle che sono le posizioni dei nostri politici della sinistra ed anche
della destra, ma soprattutto della sinistra, quando non si rendono minimamente conto di quali sono le dimensioni dentro alle quali si stanno muovendo.

La lotta di classe o la capacità di governo, di governance in Cina sono comunque delle cose che hanno un enorme significato."

martedì, ottobre 17, 2006

Un non troppo anonimo ha detto a proposito del blog

Mi sembra giusto dare rilievo a questo commento apparso un pò di tempo fa dopo che lanciai una riflessione sull'esperienza e il senso di finoaquituttobene... soprattutto perchè me lo sono perso e ciò mi spiace, quasi che quella mia riflessione non anticipasse una tensione, ma piuttosto seguisse una trasformazione. Mi sa che non sono molto chiaro...

Ora chiedo a chi segue il blog di pazientare, i consigli del "non troppo anonimo" mi hanno dato da pensare e vorrei vedere come dare un seguito positivo a queste indicazioni... magari da subito dicendo che questo sarà l'ultimo messaggio multicolore...


Qualche reazione istantanea ma non troppo, perché è qualche giorno che ci penso su. Non voglio atteggiarmi da maestrino (che non mi piace), ma mi ritrovo inevitabilmente a porre le mie osservazioni in forma di consigli/shopping list

1. Il tuo blog è interessante, arguto e importante, tanto che risulta quasi sin troppo esigente per chi voglia interagire: sarò all'altezza?

2. Come sopra, ma nel senso che a volte alcuni interventi sembrano sacrali e solenni: c'è il timore di stonare (come ora sto facendo io...)

3. Style: a volte il "verde salvia" su sfondo bianco non agevola la lettura... idem per i post troppo lunghi e formattati tutti in un'unica colonna in giustificato senza capoversi né interruzioni

That's all. Sono stato evidentemente solo sulla superficie delle cose, ma è lo strato nel quale mi muovo meglio, ahimé.

Vabbé, spero mi perdonerai questo tris di sgambetti...

Ciao, Paul

martedì, ottobre 10, 2006

E' rinato sotto nuove spoglie l'orso jj1 a Trento!


Da un paio di giorni a Trento è stato occupato uno stabili presso l'area ex-zuffo, gli occupanti hanno deciso di chiamare questo nuovo spazio di libertà C.S.A. Bruno appunto per richiamare la vicenda dell'orso jj1 che qualche mese fa fece ampiamente parlare di sé, suo malgrado, i media di mezza italia.

Vi ricordate?

Arrivato dalla Slovenia fin sulle Alpi Trentine, si spostò poi a nord e valicò un secondo confine spingendosi fino in Baviera; lì le autorità lo dichiararono ospite indesiderato, ma prima ancora di queste furono le doppiette dei cacciatori bavaresi a chiudere i conti con il clandestino, ammazzandolo.
La cosa assurda fu che le autorità - prima quelle bavaresi e poi quelle federali tedesche - dichiararono poi che non escludevano per il futuro dei progetti per la parziale reintroduzione dei plantigradi, ma che l'orso Bruno (appunto jj1) proprio non era accettabile sul suolo tedesco in quanto la sua presenza era da considerarsi clandestina!

Oltre che per la triste sorte di Bruno è evidente che gli occupanti si richiamano alla sua vicenda per il suo valore metaforico, per sottolineare la violenza delle frontiere e l'insensatezza dei confini, sia materiali che immateriali. La violenza con cui gli apparati statali hanno travolto Bruno - suscitando un'ondata di sdegno che preferiremmo aver visto e sentito per gli sbarchi estivi sulle nostre coste e la deportazione dei migranti - è la stessa che cinicamente viene messa in pratica quotidianamente attraverso apparati polizieschi e discliplinizzanti su tutti quegli uomini e quelle donne che rivendicano e vivono il loro diritto di fuga.

Bruno è una buona figura di riferimento, una scelta - questa del nome - che
a me ha fatto piacere, mi sembrano buoni auspici da cui partire...

Qui il primo comunicato dal C.s.a. Bruno.

Questo - e a fianco nei link - il collegamento col blog di Bruno.

Nuovo numero de L'ecologist italiano


E' in libreria il numero 5 del L'ecologist italiano sul tema "L'energia del domani è antica come il mare". Facile intuire che al centro della riflessioni ci sono i limiti dell'era del petrolio, ma anche l'energia nucleare oggi tornata tanto di moda. Quindi una serie di articoli sulle alternative alle forme d'energia non rinnovabili e sulla effettiva efficenza, ad esempio, dell'idrogeno o dei biocombustibili.

Qui trovate l'indice completo, con la possibilità d'accesso a una selezione d'articoli.

lunedì, ottobre 09, 2006

A proposito de La miseria umana della pubblicità: un edonismo cool e ironico


“Un edonismo cool e ironico”. E' a questa definizione, ripresa da un discorso del pubblicitario Bernard Cathelat, che si richiamano gli autori di Della miseria umana della pubblicità per definire il processo di devastazione che sta portando il deserto in ogni angolo del pianeta. Non solo dunque la devastazione intesa come stato di cose, come distruzione dell'ecosistema terrestre, ma anche come stato d'animo, che è appunto fatto “di edonismo cool e ironico”.

Il Gruppo MARCUSE – che ha redatto il libro – ricorre a queste immagini per rendere evidente il legame fra la devastazione – nella sua doppia forma esteriore e interiore – e la coppia che rappresenta al tempo stesso il mito fondativo del capitalismo e la sua ragion d'essere: il produttivismo e il consumismo.

Ma di fronte alla portata delle questioni fino a qui poste che peso può avere il ruolo della pubblicità, che è il vero target di questo libro? “La pubblicità è al tempo stesso il vettore e la vetrina della devastazione, contribuendo alla distruzione ecologica del pianeta, al deterioramento delle relazioni umane, alla dissoluzione degli immaginari e a un abbrutimento drammatico. La pubblicità incarna questa miseria in modo esemplare negli scempi che comporta, nella stupidità di cui dà prova, nello squallore che mette in mostra e nel cinismo che diffonde” [p. 119].
Una dichiarazione del genere a molti potrà apparire catastrofista, parrà accentuare oltre che la dimensione dei problemi anche il ruolo della pubblicità, ma come ci ricordano gli autori non c'è possibilità di dividerci fra ottimisti e pessimisti nel valutare questi problemi, poiché questi sono assolutamente evidenti a noi tutti nelle nostre esperienze dirette e non sono ineludibili.

La tendenza a mascherare e minimizzare questi problemi si spiega probabilmente nello stesso modo in cui si spiega la ragione per cui noi tutti tendiamo a eludere il ruolo nevralgico della pubblicità: poiché il problema siamo noi, il nostro stile di vita, la costituzione della nostra identità, diviene difficile riconoscere quanto della nostra vita sia debitrice – o a questo punto creditrice – dei modelli di vita imposti dalla pubblicità. Significherebbe, in ultima istanza, ammettere che quelli che noi consideriamo gelosamente come gli ambiti più intimi delle nostre esistenze – il mito dell'autonomia dell'individuo – siano in verità profondamente influenzati e indirizzati dai dispositivi di marketing. Si crede nella propria immunità dall'influenza di questi dispositivi poiché si suppongono disvelati, della pubblicità infatti tutti conoscono il fine che è appunto quello di influenzare le nostre preferenze, quello di indurci a consumare e di orientare i nostri consumi. Ammettere una sua influenza così profonda sulle nostre esistenze, è ammettere a noi stessi la nostra stupidità.

Tutte queste considerazioni risultano più convincenti a mano che si procede con la lettura del libro, muovendosi da un'attenta pulizia del campo da facili e futili argomentazioni quali la pretesa neutralità della pubblicità, la riduzione della problematica agli eccessi dei pubblicitari, fino ai richiami strumentali alla libertà di scelta o a un supposto valore artistico o culturale di alcune campagne pubblicitarie.
Gli autori ci raccontano gli albori della pubblicità e il contesto storico-sociale in cui prese forma, quindi di quella che ancora era chiamata réclame e di uno sviluppo delle società industriali che mirava a rendere illimitato il mercato della domanda di beni, anche attraverso l'apertura all'accesso ai consumi alla grande massa della classe operaia.
La pubblicità si trasforma
, raffinando i suoi strumenti di persuasione, passando dalla forma informativa (forma rudimentale che si rivolge al consumatore razionale), a quella meccanicistica (con cui già si cerca di condizionare il consumatore passivo); dalla forma integrativa (in cui molto più sottilmente si offrono modelli appetibili da imitare per il consumatore conformista), a quella suggestiva (il cui strumento principale sono le teorie psicologiche, mentre l'obiettivo è dirigere la propria azione direttamente alle istanze irrazionali dell'ego). Queste forme nella pratica pubblicitaria si presentano oggi – nel momento di massimo splendore di questo settore produttivo, almeno guardando ai profitti – miscelate e coniugate: “Il martellamento resta il principio di base, al quale si aggiunge la manipolazione delle pulsioni o delle tendenze conformiste. Si preannuncia così la seduzione dell'inconscio, proponendo al contempo le razionalizzazioni necessarie capaci di giustificare l'acquisto irrazionale” [p. 84].

Una questione centrale è il rilievo che la pubblicità in generale ha, o meglio che hanno l'insieme di ogni campagna pubblicitaria, nello svolgere un ruolo a monte dell'influenza determinata sui consumi individuali e questo ruolo è la promozione del sistema capitalistico e della sua logica cieca che è la crescita illimitata.
Tornando alle teorie pubblicitarie sopra esposte aggiungerei che oggi, oltre che ad una miscellanea di queste forme, un posto centrale nelle strategie di marketing sia da individuare nelle così dette strategie di branding e nelle pratiche di advertissing, in cui ciò che si offre non è più la merce in sé (che diviene un feticcio), il suo “valore d'uso”, ma piuttosto attraverso le prime (il l
ogo) si offre l'adesione ad una determinata comunità di riferimento, mentre con le seconde si costruiscono gli universi simbolici che tracciano i confini di questa.
A proposito gli stilisti Gabbana e Dolce, intervistati in una trasmissione televisiva, hanno candidamente spiegato la logica che spinge un individuo a spendere cifre spropositate per un paio di mutande che riporti il loro logo: sentirsi parte di una tribù, potersi riconoscere e riconoscersi nei codici, nei rituali, nel linguaggio, negli “ideali” veicolati dalle campagne pubblicitarie, in sintesi nel mondo simbolico ed emozionale proposto dal brand.
Forse siamo noi tutti che dovremmo essere meno ingenui, mentre loro – i Gabbana e i Dolce – sanno benissimo che gioco conducono.

Miseria umana della pubblicità mi dà inoltre la possibilità di sviluppare brevemente una risposta alla critica che gli autori muovono a quello che definiscono un discorso economico diffuso, “sfortunatamente ripreso senza alcun distacco critico dai gruppi «contestatari» vicini alle idee di Toni Negri, ha la pretesa di sostenere l'entrata in una nuova «economia immateriale»: come se non si producessero più oggetti, ma soltanto «conoscenza», «informazioni», «concetti», oppure «servizi»” [p. 88].
La risposta si rivolge alle diffuse critiche per cui quella che qui è definita – molto riduttivamente e approssimativamente – «economia immateriale» sarebbe dipinta dal pensiero post-operaista come un processo di democratizzazione dell'economia, come una nuova e splendente frontiera in cui lo sfruttamento scompare; in verità ciò non è corretto, poiché l'accento viene posto dai sostenitori delle tesi sul “lavoro immateriali” sui rapporti di produzione e sulla natura delle loro relazioni e, oltre che individuare e descrivere l'emergere dell'egemonia del lavoro cognitivo, denunciano l'ampliarsi delle forme dello sfruttamento. Un esempio è il libro di Bologna e Fumagalli Il lavoro autonomo di seconda generazione, di cui anche negli ultimi mesi su il manifesto si sono potuti trovare vari riferimenti critici in cui si addossa a questi tesi una visione paradisiaca, appunto, del lavoro autonomo di seconda generazione; mentre le tesi di questo libro tendono a sottolineare in primo luogo le nuove forme dello sfruttamento che si stratificano sulle precedenti, fino al lavoro servile, e la relazione di servizio come nuova forma di riferimento nei rapporti di lavoro. Insomma, tutto fuorché una visione edulcorata del mondo della produzione contemporaneo.

Per finire una piccola avvertenza prima della lettura de La miseria umana della pubblicità: se già odiate la pubblicità continuerete a farlo, se invece a volte indugiate su questa e vi sentite “quasi” coinvolti allora godrete di una consapevolezza che anche se non immunizza almeno aiuta.

Gioia e rivoluzione - afterhours

Ecco qui, copiato artigianalmente da MTV, il video di Gioia e rivoluzione degli Area nella versione degli Afterhours per il film Lavorare con lentezza...


Napoli sotto i rifiuti


di A. Iacuelli


E' una Napoli che sembra essersi arresa, quella che si vede in questi giorni di nuova fase alta di emergenza rifiuti. Anche stavolta, al primo intoppo degli impianti di smaltimento, non c'è più un solo luogo a disposizione dove portare i rifiuti solidi urbani. La raccolta dai cassonetti è continuata per un po’, ma ovviamente fino alla saturazione completa delle aree di stoccaggio, delle isole ecologiche e perfino dei mezzi stessi, che ora attendono in fila di essere vuotati. Due giorni, è non è stato neanche più possibile raccogliere i rifiuti urbani dalle strade della città e della fascia dei comuni della provincia. Così, quella Napoli da cartolina e da turisti che in tanti, a livello istituzionale, cercano ancora di mostrare, resta sepolta sotto i suoi stessi rifiuti solidi urbani. Proprio mentre Guido Bertolaso, il capo della Protezione Civile, scende in campo al posto del prefetto Corrado Catenacci, per due anni commissario di Governo per l'emergenza rifiuti che dura da 1994 e che ha assunto le caratteristiche di un caos-rifiuti stabile, piuttosto che di un'emergenza.
Così, sale la tensione a Ponticelli, dove gli abitanti mostrano nervosismo di fronte all'idea di creare un nuovo sito di stoccaggio in via De Roberto, in pieno quartiere, in una strada trafficata che è già ridotta ad una discarica. In tutta la zona orientale, da Barra a San Giovanni, non c'è una sola arteria stradale che non sia invasa da rifiuti, al punto in cui in certi tratti la carreggiata si è ridotta di larghezza. Letteralmente rubata dai rifiuti. Il motivo principale della rabbia degli abitanti di Ponticelli si riassume nel non voler trasformare in discarica un'area che, appena due anni fa, fu adibita in via straordinaria a sito di stoccaggio temporaneo. "Per appena due mesi", disse all'epoca il commissario di Governo. L'area si trova a ridosso del depuratore di Napoli est - quindi in una zona già profondamente colpita sul piano ambientale - e a poche centinaia di metri da condomini, mercato di quartiere, scuole. A questo si aggiunge che l’area fa anche parte dell’Ambito 13 del Piano di recupero e valorizzazione dell’area orientale; si tratta quindi di un’area che doveva essere recuperata e restituita alla vita civile dopo una bonifica.

Non cambiano le cose nella zona settentrionale della città: a San Pietro a Patierno e Capodichino capita di girare in automobile e inavvertitamente trascinare per metri un sacchetto nero di rifiuti rimasto impigliato in una ruota, a malapena si riesce a transitare tra i cassonetti traboccati da giorni. Stessa scena a Secondigliano, lungo corso Italia. A Scampia la situazione diventa particolarmente grave: alcuni residenti, per sfuggire al cattivo odore che in questi giorni senza pioggia e senza vento si sprigiona dalle strade, hanno allontanato i cassonetti dalle proprie abitazioni, scaraventandoli al centro delle carreggiate stradali, creando così situazioni pericolose per la sicurezza della viabilità. Giunti alla rotonda di Piscinola, non c'è altro da fare che invertire la marcia e tornare indietro, verso il centro della città. Se la periferia è asfissiata dai miasmi, il centro cittadino non se la passa meglio. Al quartiere Stella, poco lontano dalla casa natale di Totò, c'è piazza Miracoli, invasa non solo dai rifiuti ma anche dai ratti, che banchettano tranquillamente anche in pieno giorno, tagliano la strada all'auto, saltellano tra i sacchetti depositati lungo la strada. Si tratta di una delle situazioni più precarie dell'intera città, considerato che si tratta di un quartiere popolare, densamente abitato, e pieno di attività commerciali al dettaglio. Ridiscendendo lungo via Duomo, in direzione del mare, si giunge a piazza Mercato, dove intere vie di accesso alla piazza sono ostruite da quintali di cartoni, imballaggi, scatoli. Stessa scena nei dintorni di Porta Capuana. L'emergenza rifiuti non risparmia nemmeno le zone collinari, i quartieri più ricchi della città: anche Posillipo è deturpata dai rifiuti, mentre al Vomero si boccheggia a causa dei cattivi odori. Qui la situazione è particolarmente a rischio soprattutto nella zona dei mercati rionali, dove i cumuli di rifiuti vanno ad invadere gli spazi tra i banchi di generi alimentari.

Nella zona occidentale, si assiste ad una situazione a macchia di leopardo nella zona di Fuorigrotta e Bagnoli, dove sono le aree popolari ad essere sottoposte ai maggiori disagi. Infine, nella periferia occidentale, a Soccavo e Pianura, si respira aria mista a plastica bruciata: nella notte tra venerdì e sabato la popolazione, esasperata, ha dato fuoco a numerosi cumuli di rifiuti e ad alcuni cassonetti. Fin qui la situazione del capoluogo.

Ma se si crede di aver visto tutto, basta spostarsi a pochi minuti d'automobile, e diventa facile constatare come nella provincia, soprattutto quella settentrionale, le cose vadano persino peggio.

Da giorni vanno avanti le trattative per la riapertura della discarica di via Ripuaria, una vecchia cava dismessa, già in passato adibita a discarica, ed ora già esaurita. Nell'area dovrebbero essere sversati i rifiuti dei Comuni a Nord di Napoli.
I cittadini però non vogliono aspettare, e chiedono risposte immediate da amministrazioni e commissariato di governo. La rabbia si ripercuote sui cumuli di rifiuti sparsi per strada. Il sabato sera diventa così uno scenario surreale, quasi da film: notte di fiamme a Casavatore, come a Casoria, Frattamaggiore, Afragola. Notte illuminata dai roghi, dalle periferie fin nei centri storici dei vari comuni, con un lungo susseguirsi di colonne di fumo e cassonetti che bruciano. L'aria è sempre acre ed invita ad indossare una mascherina. Il fumo è denso, sembra anch'esso fatto di plastica. Nella notte rischiarata dagli incendi, nessuno si cura neanche di spegnerli: "Forse, è l'unico modo per eliminare dalle strade i cumuli", dice un barista di Afragola, "certo puzza, ma se non li bruciamo puzza lo stesso, e anche di più. Pensi che devo tenere le porte del bar chiuse, altrimenti entra la puzza dentro: io vendo cornetti, mica mazze di scopa!".

A Cercola, comune dell'area orientale, la rabbia dilaga nelle strade poiché i marciapiedi non sono più praticabili. Intanto, il sindaco di Nola ha emanato un'ordinanza con la quale sospende il mercato del mercoledì nella centralissima piazza d'Armi invasa da rifiuti, scrivendo esplicitamente nella motivazione che si tratta di un provvedimento finalizzato alla tutela della salute dei cittadini. Non va diversamente nella zona costiera: a Castellammare di Stabia il sindaco è riuscito ad ottenere una "autorizzazione straordinaria" per prelevare i rifiuti solo nelle zone adiacenti le scuole e l'ospedale. A Torre Annunziata, rivolta di docenti, studenti e genitori di una scuola media, che hanno scaraventato cassonetti e rifiuti a centro strada, bloccando la circolazione e causando l'intervento della polizia. In gran parte della provincia di Napoli, le scuole sono state chiuse proprio a causa dell'emergenza rifiuti. Con il passare dei giorni, la situazione diviene sempre più critica sia per l'ordine pubblico sia per gli aspetti sanitari e la popolazione si chiede perché ci sono voluti 12 anni di emergenza e di commissariato di Governo per arrivare ad una situazione come quella appena descritta. Per risolvere queste fase di emergenza acuta, il commissariato di Governo intende usare le discariche di Villaricca, di Difesa Grande e di Tufino: cioè tre discariche esaurite da cinque anni, e già contenenti quantità di rifiuti superiori a quelle per le quali erano state progettate. In particolare, il sito di Tufino vede una "montagna" di rifiuti compattati che si innalza addirittura per 25 metri sopra il piano della campagna circostante.

Combatteranno l’emergenza provocando altre emergenze?


da Altrenotizie

La querelle continua...

Prometto che questo è l'ultimo post a riguardo della querelle fra complottisti o meno sulla vicenda delle Twin Towers. Prima avevo postato un articolo di Giulietto Chiesa, poi il mio ultimo post sul numero di Diario che promette di smontare le tesi complottiste.


Oggi pubblico qui sotto la risposta di Chiesa e Franco Cardini al Direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli, a Romano e a Deaglio. Come dicevo è l'ultimo post sulla vicenda, almeno fino a che sarà possibile capirci qualcosa.


Questo non ha infatti come obiettivo tanto il darvi conto delle querelle ma piuttosto mostrare a quale tipo di dinamica portano generalmente tesi dietrologiste.

Caro Direttore,
chiedendo a Lei (o, se ciò è da Lei ritenuto più opportuno, al dott.
Sergio Romano ) di pubblicare questa nostra lettera ci appelliamo,
prima
che alla legge sulla stampa, al Suo rispetto per la verità.
Nella rubrica "Opinioni" di qualche giorno fa, il dottor Pierluigi
Battista indica i sottoscritti e altri loro omonimi, che noi non
conosciamo (deduciamo ciò dal fatto che egli ci denomina "i Giulietto
Chiesa e i Franco Cardini": siamo dunque più di due) quali titolari di
un "circo itinerante dei complottisti" che starebbe facendo "un tour"
per propagandare una "Grande Cospirazione ...intessuta di colossali
sciocchezze" a proposito dei fatti dell'11.9.2001. Le sciocchezze che
noialtri "maniaci del complotto" propaganderemmo sarebbero state
smentite dal n.XI.37/38 del "Diario" diretto da Enrico Deaglio"che ha
portato in Italia il lavoro certosino di trenta giornalisti del Popular
Mechanics i quali avrebbero smascherato il "cumulo di menzogne e di
teoremi bislacchi al centro della grande fantasia complottista".
Pertanto, a quel che sembra, noi propaganderemmo "un sacco di bugie".
Purtroppo per il Suo valente collaboratore, la realtà è ben diversa.
Enrico Deaglio ha riciclato, con un anno e mezzo di ritardo, il numero
del marzo 2005 della rivista Popular Mechanics in cui compariva
un'inchiesta-dossier dal titolo Debunking 9.11 lies ("Smentiamo le
menzogne dell'11 settembre"), redatto non da "trenta giornalisti",
bensì
da uno solo, Benjamin Chertoff, dal giornale definito our senior
researcher ("il nostro ricercatore più esperto"), il quale avrebbe -- a
suo dire -- intervistato ben 300 testimoni. Preferiamo tradurre senior
con "più esperto" (la lingua inglese usa tale aggettivo in questo
senso), giacché non possiamo credere ch'egli sia "il più vecchio", come
una traduzione letterale indurrebbe a far credere. Difatti, il signor
Chertoff è un promettente venticinquenne. Ignoriamo quanto sia esperto,
e in quali campi, ma una cosa la sappiamo: egli è nipote di Michael
Chertoff, un signore che il Presidente Bush ha nominato a capo del
Dipartimento "Homeland Security". Un ministro, quindi: il quale ben
conosce le questioni dell'11 settembre, in quanto era a quel tempo
assistant attorney a New York (e in tale veste è stato anche sospettato
di aver occultato alcune prove che sarebbero state utili
all'inchiesta).
La parentela è stata confermata dal giornalista Christopher Bollyn su
American Free Press del 7 marzo 2005 (al quale il Chertoff aveva
cercato
di mentire, negando il fatto). Naturalmente, dopo che negli States la
cosa è stata smascherata, il dossier di Popular Mechanics è rapidamente
scomparso dalla circolazione: oggi più nessuno lo citerebbe senza
coprirsi di ridicolo. Ma, come accade sovente, lo si è ripresentato
sotto altra forma (il libro Debunking 9/11 myths a cura di David Dunbar
e Brad Reagan, Hearst Books, nato già vecchio) e intanto, secondo una
buona regola commerciale di stampo liberista, si è cercato di
riciclarlo
alla periferia dell'impero. Non fanno così le multinazionali, quando
"regalano" ai bambini africani derrate e medicinali scaduti, deducibili
dalle imposte? Ha quindi davvero ragione la copertina del periodico del
Deaglio: "Una boiata pazzesca".
Pertanto, tutto quello che, riassumendo il Deaglio che ricicla il
Chertoff, il Battista afferma a proposito dei dubbi emersi su alcuni
aspetti della ricostruzione ufficiale di quella tragica giornata, non
solo è stato ampiamente contestato dal marzo dello scorso anno ad oggi,
ma è destituito di plausibile fondamento. E' purtroppo stato altresì
accertato che i molti pretesi intervistati dal Chertoff si riducevano
da
intervistati a ripetitori delle tesi avallate e fatte proprie
dall'amministrazione Bush, quando non addirittura a persone in un modo
o
nell'altro legate agli organi governativi. Quanto noi affermiamo, e
molto di ben più grave, è ampiamente documentato in molte ricerche
uscite sia a stampa, sia on line. Ci limitiamo a citare almeno tre fra
le pubblicazioni più serie e attendibili: Jürgen Elsässer, Comment le
Jihad est arrivé en Europe, Vevey, Xenia, 2006 (l'edizione originale è
in tedesco; quella francese si avvale di una Prefazione di J.-P.
Chevènement); Webster Tarpley, 9/11. Synthetic terror made in USA,
Joshua Tree, California, Progressive Press 2006, ben 492 pagine; Barrie
Zwicker, Towers of deception. The media cover-up of 9/11, New Society
Publishers (Canada), 2006, pp.400 accompagnate dall'impressionante DVD
The great conspiracy. Aspettiamo con ansia il prossimo elzeviro
dell'amico Battista, quando si sarà letto queste oltre mille pagine.

Cordiali saluti.




lunedì, ottobre 02, 2006

Sulle tesi complottiste a proposito di 11/9


In questi giorni è in edicola un numero di Diario che - come vedete qui a lato dalla copertina - mette in discussione le tesi complottiste sul 11/9. Probabilmente non a caso in questi giorni, in particolare visto il successo della puntata di Report della settimana scorsa in cui veniva presentato un video che proponeva tutti i punti oscuri sulla vicenda della Twin Towers, proponendo come già tutti sapete una versione che vede coinvolto direttamente il governo U.S.A. nella preparazione degli attentati.

Sul sito di
Arcoiris.tv è possibile vedere un intervento di Deaglio (direttore di Diario) in cui spiega il contenuto del reportage in questione.