giovedì, maggio 29, 2008

Sapienza, la verità non si arresta!

Rete per l'autoformazione - Sapienza, Roma

Sono ore convulse, dove poco è il tempo per scrivere, ma molto è il tempo che serve per raccontare. Per raccontare in primo luogo la verità sui fatti accaduti la mattina di ieri, la verità sulla violenza subita, la verità sociale e politica che continua a tenere lontani neofascisti e squadristi dall'università la Sapienza.
Proviamo a procedere con ordine. La presidenza di Lettere e filosofia, lo storico moderno, compilativo e mediocre, di nome Guido Pescosolido, autorizza un convegno di Forza nuova all'interno della facoltà. Inutile dire che il preside, il mediocre, ha fatto finta di non sapere, di non aver capito, peggio si è protetto dietro lo scudo del pluralismo culturale: che ognuno parli, tanto parlare e far parlare non costa nulla, anzi frutta molti soldi e poco importa quali sono i gesti e le pratiche politiche che accompagnano il parlante. Mediocre nel mestiere, mediocre nella vita, questo preside piccolo piccolo che semmai merita un posto nella segreteria tecnica, fotocopie e fotocopie da fare.

In modo tempestivo, lunedì mattina, occupiamo la presidenza, dopo sette ore il pro-rettore Frati revoca l'autorizzazione e il preside piccolo piccolo se ne torna a casa con la sua borsetta da uomo mediocre. Usciamo dalla facoltà e ci ritroviamo telefonicamente qualche ora dopo, voci fidate ci raccontano di un'attacchinaggio di Forza nuova lungo le mura della città universitaria. 5 macchine, armati, of course (fa parte del galateo politico del tempo presente). La notte trascorre, tutto si fa più chiaro.
Sono le 13, è martedì, e noi usciamo dalla città universitaria per attacchinare e promuovere un'iniziativa sulle trasformazioni della formazione nella crisi della globalizzazione: radicalizzazione dell'autonomia, differenziazione, vuoti del mercato delle competenze, tanti temi e molti problemi per capire dove muove l'università che cambia. Passano pochi minuti e due macchine (forse noleggiate) ci raggiungono, scendono in tanti, scendono con tante armi: spranghe, mazze ferrate, catene, qualche coltello. Sono attimi durissimi. Alcuni di noi sono feriti (punti in testa e spalle rotte), ma loro, adulti (alcuni ultra quarantenni) e armati vanno via, vanno via.

In tre in ospedale, molti di noi interrogati, la giornata procede dentro la facoltà di Lettere e in un corteo forte, pieno di studenti (almeno duemila), pieno di indignazione. Una giornata in cui in molti hanno deciso di rompere il silenzio, tra professori e ricercatori, molte le parole in nostra di difesa, potente la ricerca di verità. Eppure, puntuale la controffensiva mediatica: "è stata una rissa, uno scontro tra opposte fazioni". Ma di quale opposte fazioni si parla! Da una parte, la nostra, c'è l'università, gli studenti, dall'altra un manipolo di militanti e di squadristi che con l'università non c'entrano nulla, aggressori violenti e razzisti, funzionari politici di un partito che dovrebbe essere fuori legge. Inutile dire che alla finzione mediatica si è accompagnato l'arresto di Emiliano e Giuseppe, due studenti della Rete, aggrediti alle spalle e feriti. D'altronde all'arresto deve seguire la bugia e alla bugia l'arresto, il circolo è vizioso.
Ma un passo importante si sta compiendo in questi giorni all'università di Roma la Sapienza: il partito di Forza nuova, sulla base della sollecitazione dei movimenti, viene considerato illegale da un'istituzione pubblica. Se esistesse un'opposizione in Italia, in seguito ai fatti di questa mattina si potrebbe pensare una campagna politica vincente per ottenere lo scioglimento delle forze politiche neo-squadriste e razziste. L'opposizione non c'è, ma ci sono i movimenti, ci sono le persone in carne ed ossa, c'è la voglia di verità, il desiderio di giustizia, e non saranno le finzioni e le menzogne a cancellarli.

La partita, però, va vinta fino in fondo ed è per questo che è decisivo avere i nostri fratelli Emiliano e Giuseppe liberi subito, altrettanto dare vita quest'oggi ad una grande assemblea pubblica. Alle ore 9:00 presidio a P. Clodio, in attesa del processo per direttissima, alle ore 14:30 assemblea pubblica nella facoltà di Lettere. Giovedì 29, invece, fondamentale essere in tante e tanti presso l'entrata della facoltà (a partire dalle 8:30), per impedire che gli squadristi possano tornare e che mettano piede dentro l'università.

La verità non si arresta,
La Sapienza sarà libera,
Emiliano e Giuseppe liberi subito!

Foto di elbisreverri [Minerva at sundown], con licenza Creative Commons da flickr


Le illusioni perdute della Rete

di Benedetto Vecchi
il manifesto 28 maggio 2008

La dichiarazione di indipendenza del cyberspazio di John Perry Barlow fu lanciata, nel lontano 1996, come un sasso nello stagno e a cerchi concentrici di diffuse su Internet. Un testo che letto ancora oggi ha il fascino indiscusso del pamphlet, con quel misto di preveggenza, semplificazione che raramente hanno i documenti politici. John Perry Barlow aveva fatto parte del mouvement contro la guerra del Vietnam, scritto poesie e, soprattutto, era stato nei Grateful Dead, il gruppo rock interprete di quell'attitudine underground che in California stabiliva una linea di continuità tra il free speech di Berkeley, la produzione artistica «di strada» e le prime tecnologie digitali. La sua dichiarazione di indipendenza divenne così il documento politico di chi considerava la frontiera elettronica il luogo, seppur virtuale, dove sperimentare forme diverse di relazioni sociali, di sottrazione dal potere soffocante delle corporate company e del governo federale, nonché di costruzione della decisione politica all'insegna di una democrazia radicale che vedeva nel principio della rappresentanza un fardello da cui liberarsi al più presto. Per anni quel testo è stato il background teorico a cui attinto filosofi, economisti, sociologi e mediattivisti. Internet, il personal computer e il free software erano una «tecnologia della liberazione» che consentiva al cyberspazio di essere un habitat socio-tecnico altero, se non antagonista dell'economia di mercato.

Pragmatici e visionari
Una convinzione che ha caratterizzato anche la produzione teorica di Carlo Formenti, che ha dedicato a Internet due saggi (Incantati dalla rete e Mercanti di futuro, pubblicati rispettivamente da Raffaello Cortina e Einaudi) fortemente condizionati da quella visione libertaria del cyberspazio, seppure con una capacità innovativa e interlocutoria verso il pensiero critico di ispirazione marxiana. A sei anni dalla pubblicazione dell'ultimo saggio Carlo Formenti affronta nuovamente lo stato dell'arte della Rete nel volume Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media (Raffaello Cortina, pp. 279, euro 23). Gran parte delle tesi del passato sono passate al setaccio di un principio della realtà e con onestà intellettuale l'autore afferma che le speranze riposte nella Rete come laboratorio sociale per sperimentare nuove forme di democrazia - i soviet del postmoderno - e di produzione alternativa della ricchezza - l'«economia del dono» - si sono dissolte al sole della trasformazione di Internet in un luogo dove è invece egemone una logica capitalista. Saggio autocritico, dunque, che ha il merito di ripercorrere criticamente il meglio della produzione teorica attorno alla Rete - le teorie di Manuel Castells e Yoachai Benkler, ma anche le riflessioni del media theorist Geert Lovink, del «cripto-marxista» Wark McKenzie e del visionario Richard Florida - mettendolo in un rapporto di tensione polemica con il percorso di ricerca che Formenti definisce «postoperaismo», in particolare con il concetto di moltitudine di Toni Negri.

Macchine dell'innovazione

È noto che lo studioso catalano Manuel Castells ha considerato le tecnologie digitali il medium per l'affermazione di un «capitalismo informazionale» che ha «colonizzato» gran parte del pianeta e che è rappresentato come un flusso di capitali, informazioni, merci, uomini e donne che può essere governato solo grazie alla presenza di organizzazioni produttive reticolari e attraverso l'uso intensivo di tecnologie digitali. Allo stesso tempo lo studioso catalano considera le relazioni di complementarietà anche conflittuale delle quattro componenti culturali - tecno-scientifica, hacker, imprenditoriale e degli utenti - presenti nella Galassia Internet come fattori dinamici che garantiscono la costante innovazione della rete sia dal punto di vista del software, dei prodotti e dell'organizzazione produttiva della rete. Una teorizzazione, quella di Castells, che auspica un rinnovamento del compromesso tra capitale e lavoro che consenta una riqualificazione dei diritti sociali di cittadinanza in un mondo che prevede una flessibilità della forza-lavoro complementare a quella dell'organizzazione produttiva reticolare.
Più radicali sono le posizioni di Yochai Benkler, che parla di un «capitalismo in assenza di proprietà privata»; o quelle di Richard Florida che sostiene l'egemonia della «classe creativa» rispetto all'insieme della forza-lavoro; lettura speculare a quella di Wark McKenzie che parla della formazione di una nuova classe sociale che chiama «vettoriale» e caratterizzata da un'etica hacker del lavoro.
Un accumulo di sapere che, seppur diversificato e spesso divergente rispetto agli esiti politici, ha rappresentato Internet come un'anomalia rispetto al mondo fuori allo schermo. Ed è con la convinzione che questi autori siano riusciti a mettere a fuoco alcune tendenze del capitalismo a partire da un'analisi di come funziona Internet che Carlo Formenti giunge alla conclusione che il World wide web è stato colonizzato dalla cultura corporate. Ma più che colonizzato sarebbe meglio parlare del fatto che quel laboratorio chiamato Internet ha funzionato a pieno regime e che ha rotto lo schermo del video, diventando il sistema vigente di produzione della ricchezza. E che i nodi e le aporie nel rapporto tra cooperazione sociale produttiva e capitale cognitivo attendono ancora di essere sciolti in un'ottica di un superamento del regime del lavoro salariato.

Sovranità in formazione
C'è infine un aspetto minore di Cybersoviet che invece apre un terreno di ricerca fin qui poco esplorato. È quando l'autore parla del «neomedievalismo istitutuzionale» che caratterizza le norme internazionali e la legislazione nazionale sulla rete. In questo caso è avvenuto che il processo in corso nella formazione di una nuova sovranità che stabilisca un rapporto dinamico e flessibile tra locale, nazionale e sovranazionale da fuori lo schermo venga esteso anche a Internet. Lo stato, così come gli organismi sovranazionali, hanno infatti perso il monopolio della decisione politica a causa della presenza di factory law private che definiscono norme e regole che spesso aggirano quelle istituzionali. La sovranità ha dunque necessità di una governance dove organismi sovranazionali, stati nazionali, imprese, factory law private e associazioni della cosiddetta società civile «cooperino» tra di loro in un rapporto asimmetrico di potere.
Sgomberato il campo dalle illusioni che il web potesse essere esso solo l'habitat per costruire l'altro mondo possibile, il panorama è occupato da quella cooperazione sociale produttiva che deve essere precaria, e quindi assoggettata al capitale cognitivo, senza però che questa precarietà le impedisca di essere la fonte dell'innovazione. Dunque libertà e assoggettamento, gerarchie light ma all'interno del regime del lavoro salariato. Il problema dunque non è immaginare un cybersoviet, ma un soviet adeguato a una forza-lavoro che manipola manufatti linguistici e manufatti «fisici». Un soviet, cioè, che sia dentro e fuori lo schermo. Come dentro e fuori il video è il capitalismo cognitivo.

martedì, maggio 27, 2008

In marcia per il clima

O protestatari precari che amate i mille volti della Milano meticcia e le
aree piene di erbacce, roulotte e centri sociali,
O sorelle e fratelli che sognate spazi solidali e alveari antinucleari,
O giardinieri guerriglieri che vi battete contro la città degli speculatori,
O smanettatori ecohacker attivi contro il greenwashing degli inquinatori,
Ci vediamo a piedi o in bici



Sabato 7 giugno, S/Babila ore 15
Manifestazione Nazionale x agire sull'effetto serra e impedire il
ritorno al nucleare
SPEZZONE DELL'ECOSOVVERSIONE
intorno alla CICLOMOBILE SOLARE
realizzata dal SunSystem di Agenzia X e dalla Ciclofficina della Stecca

~ NO OIL, NO NUKES, NO EXPO: Azione Ecoradicale Qui e Ora!!!

info: neurogreen@gmail.com, supersturia@hotmail.com

Se il petrolio va a picco

di F. Piccioni
da il manifesto - 25 maggio 2008

Alberto Di Fazio è astrofisico teorico presso l'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), membro della Commissione Nazionale Cnr/Igbp (Programma Internazionale Geosfera-Biosfera), responsabile italiano del Progetto Igbp/Aimes (Analysis, Integration, and Modeling of the Earth System), presidente Global Dynamics Institute, accreditato presso la Conferenza delle Parti sotto la Unfccc (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici).

Il petrolio è aumentato del 500 per cento in sei anni, mentre la produzione è di fatto stabile da tre. Cosa sta succedendo?
Non si può più fare quello che si è fatto per oltre 100 anni: pompare sempre di più moltiplicando i pozzi. Su più di 90 paesi produttori, 62 hanno raggiunto il «picco» e sono quindi in calo; quelli che non l'hanno raggiunto - come l'Arabia Saudita e altri minori - non riescono ad aumentare l'estrazione in misura sufficiente a compensare. Gli Stati uniti hanno «piccato» per primi nel 1970, dopo aver «carburato» col petrolio due guerre mondiali e un grande sviluppo economico. Il Venezuela ha piccato nel '70, così come la Libia; l'Iran nel '74. Gran Bretagna e Novegia tra il '99 e il 2001. La Russia lo aveva fatto una prima volta per motivi politici (il crollo dell'Urss), poi si è ripresa ma ha piccato di nuovo nel 2007, senza peraltro mai raggiungere il livello precedente. Di conseguenza, l'offerta è praticamente stabile - tra 86 e 87 milioni di barili al giorno (mbg) - mentre la domanda cresce rapidamente. Perciò il prezzo non può che aumentare.

Eppure le compagnie petrolifere rispondono che anni di prezzo troppo basso hanno disincentivato nuove esplorazioni.
Sono dichiarazioni di natura politica. Se ascoltiamo geologi o ingegneri che lavorano per conto di queste compagnie capiamo che c'è stato tutto il tempo - 20 o 30 anni - per cercare ancora. Ci spiegano che la tecnologia esplorativa è migliorata di un fattore 500 o 600 rispetto al 1963, quando venne raggiunto il «picco» delle scoperte. Si utilizzano satelliti, strutture a ologramma, infrarossi, cose che non ci sognavamo neppure. Negli Usa, tra il '70 e l'80, c'è stato un boom di trivellazioni, quadruplicando il numero dei pozzi. Ciò nonostante, in quella decade, la loro produzione è progressivamente calata. Non è mancata la ricerca, ma i risultati.

Sentiamo spesso di «grandi giacimenti» appena scoperti, come in Brasile o nell'Artico.
Quello in Brasile è stimato tra i 10 e i 20 miliardi di barili. E' «grande» per il Brasile, perché porterà lì ricchezza ed energia. Ma a livello mondiale, rispetto ai 1.000 miliardi di riserve dichiarate esistenti - la metà di quelle iniziali - questo giacimento sposta il «picco» di due o tre mesi. Quello sotto l'Artico non dovrebbe neppure avvicinarsi alle dimensioni di Ghawar in Arabia o di Cantarell in Messico. E in ogni caso, per poterlo sfruttare, sarebbe necessario un riscaldamento globale tale da sciogliere la calotta polare. Non proprio una cosa da augurarsi. Ci sarebbe bisogno di trovare subito, ma proprio subito, 2-300 miliardi di barili per spostare il «picco» di cinque o sei anni.

Quanto pesa il petrolio nel bilancio energetico globale? E si potrebbe sostituirlo, in modo credibile?
Il 70% del raffinato va in combustibili da trasporto (benzina, diesel, cherosene, ecc). Il 98% di questi combustibili viene dal petrolio; così come tra l'85% e il 90% dell'energia totale proviene dagli idrocarburi. Solo tra il 7 e l'8% viene dal nucleare. Il resto, pochissimo, dalle rinnovabili. Per rimpiazzare petrolio e gas naturale non c'è praticamente nulla, sulla terra. L'idrogeno non esiste in forma libera, ma va fabbricato impiegando più energia di quella resa poi disponibile. Per il carbone si parla di centinaia di anni, ma in realtà si tratta di un minerale a più bassa intensità di energia, che ne richiede molta già per l'estrazione. Il carbone realisticamente utilizzabile basterebbe per qualche decina di anni. Tra le «non rinnovabili» c'è anche l'uranio, su cui esiste una stima molto precisa di Rubbia e di David Goodstein (del Caltech): ne abbiamo per 20 anni da adesso. Usiamo 14 Terawatt di energia; a volerle fare col nucleare servirebbero 10-15.000 centrali in 20 anni. Una ogni giorno e mezzo! Anche dal punto di vista dei materiali (acciaio, cemento, ecc) è impossibile. Negli Usa ce ne sono 104 e in tutto il mondo poco più di 400. Il nucleare potrebbe essere al massimo un «ponte» a cavallo del picco del petrolio. Ma anche le rinnovabili lo sono. Per fare le pale eoliche o i pannelli solari bisogna andare a prendere l'alluminio, fare attività di miniera; e questa si fa con l'energia del petrolio, mica con pala e piccone. Ma dove sta tutto questo alluminio? Questo significa che dipendiamo dal petrolio anche per le rinnovabili.

Che cosa bisognerebbe fare, allora?
Tirare il freno a mano, conservare petrolio e gas rimanenti per fare queste benedette rinnovabili, finché è possibile. Anche la tecnologia proposta da Rubbia ha bisogno di energia da petrolio. Non possiamo fare le acciaierie con un'economia che va a legna. E nemmeno con l'energia nucleare, perché una centrale deve essere a temperatura moderata (2-300 gradi) altrimenti fonde il nocciolo. Noi potremmo concentrare quella metà di petrolio rimasta, risparmiando sui trasporti di merci voluttuarie e salvaguardando quelli «necessari». E dobbiamo tener conto che anche l'agricoltura, al 90%, dipende dal petrolio. Senza, la produzione agricola si ridurrebbe da 10 a 1.

Ma come sono conciliabili capitalismo e decrescita?
In nessuna maniera. Il capitalismo è fondato su un'equazione che è un esponenziale. Ogni incremento annuale è proporzionale a un certo coefficiente moltiplicato il capitale stesso. E' una curva che cresce sempre di più, come quella dell'interesse composto. Il capitalismo è reinvestimento e crescita. Ma non esiste un investitore che cerca di guadagnare meno di quel che investe. E quindi l'intervento pubblico sarà obbligatorio. Mi soprende che se ne cominci a rendere conto la destra, come fa Tremonti nel suo ultimo libro, dove dice apertamente che il mercato non si può più regolare da solo. Mi sorprende che non lo dica invece più la sinistra. Si capisce ormai che è in arrivo una crisi peggiore del '29, ma non si dice il perché. Questa è in realtà più grave, perché nel '29 si era partiti da una bolla speculativa temporanea. Qui avviene per un fatto naturale, geologico. Finiti petrolio, gas e carbone, nessuno ce li rimette più.

Tutto questo era già stato anticipato dal Club di Roma, addirittura nel 1972. Poi non si è fatto nulla. Quelle previsioni furono definite ad un certo punto sbagliate. Come stanno adesso le cose?
Alcuni governi, come Gran Bretagna e Usa, hanno costruito delle task force interministeriali per gettare fumo. Hanno prodotto libri per dire che non era vero, ovviamente senza alcun fondamento scientifico. Il Club prevedeva la crisi economica mondiale nel 2020-2030, il crollo della produzione agricola nello stesso periodo, il calo della produzione di greggio e gas naturale (ma non l'«esaurimento»!), e il picco della popolazione globale un po' più in là nel tempo, nel 2040-50. Sulla popolazione ci hanno preso in pieno: 6 miliardi di persone nel 2000 e così è andata. Sulla crisi industriale, mi sembra proprio che ci stiamo arrivando. Sulla produzione agricola ci siamo già: il prodotto agricolo pro capite ha cominciato a flettere nel '98, ora anche quello totale. Basta guardare i grafici da loro prodotti nel '72, nel '92 e poi ancora nel 2002 per vedere che in tutte e tre le previsioni si calcolava che le risorse nel 2000 sarebbero state consumate per un quarto e quindi, sapendo che il «picco» si colloca sulla metà, invitavano ad agire in tempo. Semmai i loro calcoli sono stati fin troppo ottimistici, visto che siamo sul «picco» già ora invece che nella terza decade di questo secolo. Loro speravano che il sistema avrebbe reagito subito alla scarsità a alle crisi locali, riallocando nella maniera più saggia le risorse. E invece vediamo che persino il protocollo di Kyoto - un puro esperimento di riduzione delle emissioni del 5% (mentre servirebbe l'80%) - è rimasto lettera morta. Il modello, infine, era superottimistico perché non prevedeva né guerre né conflitti sociali di grande ampiezza. E invece, oltre quelle già avvenute o in atto, c'è una pletora di analisti che ci mostrano come altre se ne stiano preparando. E più violente delle attuali.

Foto di ~~ zorro ~~, con licenza Creative Commons da flickr

venerdì, maggio 23, 2008

Follia antizigana in Italia. EveryOne sul rapimento di Napoli

da www.everyonegroup.com

Oltre alla conferma che si tratta di una montatura, Angelica è risultata essere una giovane slava e non una Romnì. Non è la prima volta che reati commessi da altre etnie (ma nel caso di Angelica si conferma anche la sua estraneità ai fatti delittuosi che le sono stati attribuiti) vengono addossati ai Rom al fine di giustificarne la persecuzione.

La testimonianza di Flora Martinelli, la madre della bambina, del padre di lei Ciro e dei loro vicini di casa è falsa. Il Gruppo EveryOne ha indagato accuratamente sull'evento che ha scatenato una vera e propria caccia al Rom, che da Napoli si è diffusa a macchia d'olio in tutta Italia. Fin dall'inizio le dinamiche del rapimento non ci hanno convinto, perché chi conosce la palazzina in cui sarebbe avvenuto il reato sa che è praticamente inaccessibile, sia per il cancello che per l'attenta sorveglianza degli inquilini, affermano i leader del Gruppo EveryOne Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau. Vi sono poi discordanze fra le testimonianze della Martinelli, di suo padre e dei vicini. La donna in un primo momento ha dichiarato che la porta del suo appartamento sarebbe stata forzata, poi ha ricordato di averla lasciata aperta. Dopo aver notato la porta aperta, la madre sarebbe andata a controllare la culla, quindi sarebbe tornata verso il pianerottolo dove avrebbe sorpreso - passati almeno venti secondi - la ragazzina Rom con la sua piccola in braccio. Non solo: avrebbe avuto ancora il tempo di raggiungerla e strapparle la bambina. Quindi la Rom si sarebbe mossa al rallentatore, consentendo a nonno Ciro di raggiungerla, afferrarla e schiaffeggiarla al piano di sotto. Alcuni dei vicini hanno riferito alle autorità che Angelica aveva ancora la bambina in braccio, quando l'hanno fermata. Ma non basta, perché nei giorni precedenti al fatto, gli inquilini della palazzina si erano riuniti più volte, con un solo ordine del giorno: come ottenere lo sgombero delle famiglie Rom accampate a Ponticelli. Dopo queste analisi di massima, il Gruppo EveryOne - che può contare su attivisti e organizzazioni locali - ha effettuato ulteriori accertamenti, sia presso il carcere, dove un funzionario, dopo aver ascoltato le ipotesi che scagionavano la presunta rapitrice, ammetteva:

Avete ragione, anche noi siamo in difficoltà, perché questo non è un evento diverso da tanti altri, ma qualcuno ha voluto trasformarlo in un caso nazionale. Gli inquilini di Ponticelli fanno blocco: i Rom non li vogliono più. Qualcuno però, mostra qualche scrupolo di coscienza, ma ha paura, perché le pressioni sono forti e mettersi contro il comitato di Ponticelli è pericoloso. Angelica, in realtà, conosceva una delle famiglie che abitano in via Principe di Napoli, dove è avvenuto l'episodio, continuano gli attivisti del Gruppo EveryOne, ha suonato al citofono ed è stata notata da alcune inquiline. Pochi istanti dopo è scattata la trappola e la furia dei condomini si è scatenata contro di lei, che è stata raggiunta in strada, afferrata, schiaffeggiata e consegnata alla polizia. Vi sono testimoni che conoscono la verità e due di loro sono disposte a parlare al giudice. E' importante che l'avvocato Rosa Mazzei, che difende la ragazza Rom, non si faccia intimidire e sostenga la verità in tribunale. Un attivista di Napoli suppone che la linea di difesa potrebbe essere, invece, quella di ammettere il furto, ma non il tentato rapimento. Le conseguenze del caso di Ponticelli, con l'eco mediatica promossa da quotidiani e network, sono state gravissime e sono un indice evidente di come sia necessario abbandonare razzismo e xenofobia per riscoprire la strada dei diritti umani.

(continua qui)

Lo stereotipo senza prove che perseguita i rom

di S. Tosi Cambini
da il manifesto - 22 maggio 2008

Quando si dà notizia di fatti come quello recente di Napoli, si apre una voragine in cui la confusione e i luoghi comuni si alimentano a vicenda. Uno studio sui presunti rapimenti di infanti da parte di rom e sinti (che sta per andare alle stampe presso la casa editrice Cisu) ci aiuta a capire meglio. L'indagine fa parte di un progetto di ricerca più ampio sotto la direzione di Leonardo Piasere commissionato dalla Fondazione Migrantes al Dipartimento di Psicologia e Antropologia culturale dell'Università di Verona.

La ricerca originariamente copriva il ventennio dal 1986 al 2005, ma si è protratta fino al 2007. I casi studiati sono stati individuati e analizzati partendo dall'archivio Ansa e arrivando alla consultazione dei fascicoli dei tribunali. Tra i risultati generali dobbiamo anzitutto dire che non esiste nessun caso in cui si riscontra un rapimento. Nessun esito, infatti, corrisponde a una sottrazione dell'infante effettivamente avvenuta e provata oggettivamente. Anche laddove si apre un processo, il fatto contestato viene sempre qualificato come delitto tentato e non commesso, le cui circostanze aprono a una complessa valutazione dell'esistenza o meno della volontà dolosa. Inoltre, in alcuni casi l'identità rom della persona è solo ipotizzata dai denuncianti; in altri l'esito dell'intervento delle Forze dell'Ordine e delle indagine portano a ritenere che si è trattato di un equivoco, che i fatti svolti non erano tesi a un'azione criminosa e comunque all'assoluta certezza dell'inesistenza di un tentativo di rapimento; ancora: si scopre che coloro che denunciano il fatto sono persone che cavalcano volontariamente il luogo comune degli «zingari ladri di bambini» per un secondo fine; oppure controlli e perquisizioni nei campi nomadi non portano a niente.

Comparando i casi studiati è possibile notare il ricorrere di poche variabili sia per quanto riguarda gli attori coinvolti che le dinamiche: gli elementi ripetitivi dei fatti narrati vanno a costruire una struttura contestuale che si ripete. Ad esempio, nella grande maggioranza, si tratta di «donne contro donne» ossia è la madre (o un'altra parente stretta) ad accusare una donna zingara (o più donne zingare) di aver tentato di prendere il bambino; non ci sono testimoni del fatto, tranne i diretti interessati; gli eventi accadono spesso in luoghi affollati come mercati o vie commerciali; nessuno interviene in soccorso della madre. Si può affermare che laddove vi è la presenza di un infante, l'avvicinamento di una persona rom è subito vissuto come un pericolo per il proprio figlio: lo stereotipo «gli zingari rubano i bambini» risulta essere molto più potente di qualsiasi altro. Non si ha paura, infatti, che sottraggano il portafogli o la borsa (secondo lo schema mentale «gli zingari rubano»), ma che portino via il bambino. Infine, per quanto riguarda episodi di sparizione di bambini, abbiamo ricostruito i vari momenti in cui i rom e sinti entravano tra i soggetti sospetti e gli esiti degli accertamenti investigativi (sempre negativi).

Howard Zinn on the Ludlow Massacre

martedì, maggio 20, 2008

Pontiac. Storia di una rivolta

Un nuovo esperimento dalla fucina della Wu Ming Foundation, il tentativo di smuovere un prodotto narrativo che si è fatto strada anche nel mercato culturale italiano ma che non riesce a decollare, che non convince fino in fondo: l'audio-libro. Ed ecco che allora, come avevano preannunciato un pò di tempo fa, arriva direttamente on-line un prodotto che incrocia i saperi di tanti e diversi "evocatori" - evocare:"chiamare a manifestarsi da mondi ultraterreni per mezzo di facoltà medianiche o magiche", da Dizionario De Mauro) - che lavorano per costruire una cornice che coinvolga la nostra immaginazione mentale e i nostri sensi.

Il titolo dell'opera (calza chiamarla così, no?) - con testi, disegni, musica - è Pontiac. Storia di una rivolta, può essere letto come un racconto ammutinato di Manituana (l'ultimo romanzo dei Wu Ming) ma è anche assolutamente libero e autonomo rispetto al romanzo. Nella presentazione del progetto così si indica alla centralità della rivolta di Pontiac:

Nelle pagine di Manituana, il nome di Pontiac compare di sfuggita, giusto un paio di volte.
Si può leggere il romanzo senza saperne nulla, eppure la rivolta che porta il suo nome è considerata dagli storici un prologo fondamentale della Rivoluzione americana.
Fu colpa di Pontiac se Re Giorgio III impose un limite alla libera avanzata dei coloni. Quel confine, la Proclamation Line, colpì i sudditi americani almeno quanto la famosa legge sull’importazione del tè.
Fu colpa di Pontiac se le Sei Nazioni Irochesi incrinarono il loro legame, combattendo su fronti opposti per la prima volta dopo seicento anni. Non ci furono scontri diretti, ma i Seneca parteciparono alla rivolta indiana, i Mohawk alla repressione inglese.

Il prodotto è immateriale e non sembra destinato - al momento - al finire in libreria. Potete scaricarlo direttamente - modalità In raimbow dei Radio Head: gratis, prezzo indicato o prezzo libero. La vocazione vera di quest'opera ci dicono sarà lo spettacolo live, aspettatelo quando passa dalle vostre parti e segnatevelo in agenda.

Buona lettura, buona visione e buon ascolto.




(Clicca sul banner qui sopra per il sito dedicato e il download)

lunedì, maggio 19, 2008

Maggio francese

Il seguente testo è l'Introduzione al libro appena edito da DeriveApprodi Maggio '68 in Francia nella collana Biblioteca dell'operaismo. Al centro del libro il saggio "maggio '68" scritto in presa diretta da Sergio Bologna e Giairo Daghini ai tempi dei fatti e pubblicato nel luglio di quell'anno sulla rivista "quaderni piacentini", a cui si affianca un saggio storico che "prevede una presentazione teorica degli autori e il racconto del loro viaggio di andata e ritorno che si avvalse anche della partecipazione di Ruggero Savinio, figlio di Alberto Savinio e nipote di Giorgio de Chirico".

Si tratta di una lettura che già all'epoca venne considerata eretica rispetto ai canoni della sinistra rivoluzionaria tradizionale, che chiaramente oggi può suonare - sia per il linguaggio che per una certa determinazione argomentativa - in parte ridondante, ma che comunque rappresenta ancora una visione fortemente alternativa rispetto alla lettura dei fatti narrati - e di cui quest'anno ricorre il quarantesimo anniversario - ed è quindi un ottimo antidoto alle interpretazioni oggi dilaganti e pacificatorie sulle rivolte del '68.
(frnc)

di Sergio Bologna e Giairo Daghini
da deriveapprodi

Niente Amarcord, è solo per dire com’è andata che mettiamo giù queste note, per dire quanto eravamo esaltati e quanto riuscivamo a mantenere la mente fredda. Stavamo cenando sul terrazzo della «Comune» di via Sirtori, a Milano, che è stato il luogo di tanti incroci culturali, casa di filosofi della scuola di Enzo Paci, albergo dei compagni di passaggio, sede di tante riunioni di «classe operaia» e, ancor prima, di gente dei «quaderni rossi». Dalla radiolina sul tavolo sentiamo le notizie in diretta sui primi grandi scontri al Quartiere Latino. Avvertiamo che lì si annuncia un immenso scoppio di desiderio che sta coinvolgendo tutta intera la grande città. Non avevamo per niente quello stile un po’ maniacale dei «rivoluzionari di professione». Volevamo avere una vita ricca ed eravamo convinti che anche in Occidente si potessero avviare processi di grandi modificazioni, di nuovi divenire in cui il lavoro, quello operaio e quello «di conoscenza», potesse avere più potere, più rispetto, più libertà. Decidiamo di partire. Il tempo di procurarci qualche minima copertura, una stanza. C’è già lo sciopero dei distributori in Francia. Con previdenza carichiamo sul «Maggiolino» quattro taniche piene da venti litri ciascuna. Viaggiava con noi un amico pittore di nobili tradizioni parigine: Ruggero Savinio. Al confine del Monte Bianco si passa senza controlli, «La Douane aux douaniers» c’è scritto su grandi striscioni. Cominciamo a esaltarci, ma dopo venti chilometri è il gelo nelle ossa. La Francia profonda – e così tutto il percorso fino a Parigi – restava immobile, come se nulla fosse accaduto. Alternandoci alla guida, arriviamo la sera. Da poco erano cessati i secondi grandi scontri al Quartiere Latino, qualche macchina bruciava ancora, selciato divelto, i Crs in posizione. La dimensione e l’estensione delle barricate dovevano essere notevoli, ma tutto sommato – ce ne rendemmo conto nei giorni successivi – non erano quelle le novità, le avevamo viste, magari in formato ridotto, altre volte. Certo, i parametri mentali cominciarono a ballare quando entrammo alla Sorbona trasformata in infermeria, con decine di brandine e feriti distesi, uno stuolo di giovani in camice bianco, stetoscopio al collo e qualcuno con bottiglie che spuntavano dalla tasca, interpretate subito da noi come molotov, invece erano disinfettanti.

La grandezza del maggio francese stava in quello che vedemmo nei giorni successivi, quando la maggioranza s’era fermata, gli operai cominciavano a invadere il centro e quella macchina infernale che si chiama metropoli cominciava a funzionare con altre regole, con altri ritmi. Perché continuava a vivere in un’atmosfera liberatoria, quasi di euforia, in cui tutti sembravano divenire qualcun’altro, qualcuno che fino ad allora era rimasto compresso e che ora prendeva respiro. I trasporti erano bloccati, ma la gente s’era inventata di tutto per muoversi, forse scopriva per la prima volta la città e si spostava per grandi insiemi sempre dialoganti, in una grande animazione. Dovevamo ogni giorno aggiustare i nostri schemi mentali, in fin dei conti non ci era mai capitato di vivere una situazione nella quale un’intera società spezza i ritmi, le convenzioni. Così, perché è stufa, ne ha abbastanza, vuol andare altrove dal Piano in cui l’hanno costretta, e in fondo non le importa di come andrà a finire. Certo, il fronte operaio gli obbiettivi concreti li aveva, seguiva la logica del conflitto e del negoziato, qui le cose tornavano, ma in realtà, a pensarci bene, quel che di eccezionale stava succedendo sotto i nostri occhi era qualcosa che non potevi classificare come «rivoluzione», eppure sì, lo era, era la forma contemporanea di quella cosa lì, ma che nulla aveva a che fare con quel che sapevamo del 1789 in Francia o del 1917 in Russia.

Parigi allora recava ancora i segni, il sapore, delle stagioni d’oro degli anni Venti o degli anni Cinquanta, lo studio di Ruggero in rue de l’Abbé Groult, dove dormimmo la prima settimana, sembrava un luogo rimasto uguale dai tempi di Modigliani. Ma il maggio francese e la reazione successiva chiusero per sempre quel capitolo. Da allora Parigi si è sempre più americanizzata e la Parigi esistenzialista è stata reinventata in laboratorio per le greggi turistiche. Ci gustammo anche questo, l’ultimo sprazzo di aura parigina, nella stagione delle ciliegie. Intruppati nelle manifestazioni di massa, presenti in assemblee che duravano per dei giorni, ormai non ci chiedevamo più che cosa ci fossimo venuti a fare, che progetto politico ci fossimo proposti. C’era da viverla questa stagione, e basta.

Quando De Gaulle riprende la situazione in mano e rimanda la chienlit al lavoro, torniamo in Italia e a quel punto non possiamo più sottrarci al problema di che fare di quell’esperienza. Finita la festa sì, ma il processo continua, è stata una spinta – e che spinta! – per riprendere quell’onda iniziata con le rivolte studentesche dell’autunno-inverno 1967 per farla durare il più a lungo possibile. Qui rientra in gioco il nostro «operaismo», il nostro bagaglio teorico-politico torna in primo piano rispetto all’esperienza esistenziale. Scrivere un reportage? Tracce sull’acqua. L’alternativa era quella di tentare di costruire un paradigma, il maggio francese come esemplificazione di una teoria politica, di una teoria delle dinamiche di classe, e come tale offerto alla riflessione del movimento con un preciso intento politico: spostare il suo asse dalla fase studentesca antiautoritaria e terzomondista a una fase operaia. A pensare come sono andate in seguito le cose, ci riuscimmo. La sequenza fa ancora impressione: lotte alla Pirelli nell’autunno, scioperi Fiat nell’estate del ’69, autunno caldo, Statuto dei Lavoratori nel maggio ’70.

Chi volesse capire che cosa è successo quarant’anni anni fa a Parigi deve prendere questo testo con le molle e riconoscerlo nella sua «parzialità». Un po’ di ragione ce l’avevano i nostri compagni situazionisti ad accusarlo di dogmatismo. Però, che dentro quell’evento eccezionale e multiforme ci fosse anche il filo logico che noi credemmo di trovarvi, difficilmente lo si potrà negare. Piergiorgio Bellocchio lo pubblicò nei «quaderni piacentini» (VII, n. 35, luglio 1968). Da persone come lui abbiamo imparato a guardare con distacco anche la nostra esperienza politica; senza persone come lui quella nostra esperienza non avrebbe lasciato il segno che, nel bene e nel male, ha lasciato.

domenica, maggio 18, 2008

Dodicimila persone hanno sfilato oggi a Verona per ricordare Nicola

Comunicato dell'assemblea aperta cittadina. Verona
17 maggio 2008

Circa dodicimila persone hanno sfilato oggi a Verona per ricordare Nicola Tommasoli, il giovane ucciso nella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio da cinque simpatizzanti dei gruppi neofascisti.
Per Nicola la manifestazione si è fermata davanti alla chiesa di San Fermo, per un minuto di silenzio e un lungo applauso, per portare fiori e ricordi sul luogo della sua morte, lì a pochi metri, a Porta Leoni.
A questa grande e importante manifestazione si deve aggiungere quella altrettanto importante e significativa che le organizzazioni dei migranti hanno promosso in piazza Bra.
Da queste manifestazioni nasce una nuova Verona che vuole propagare una nuova sensibilità fatta di socialità vitale e tolleranza.
Il corteo - comunicativo, aperto, partecipato, pacifico - è stato aperto da uno striscione disegnato da un artista/writer amico di Nicola, portava questa scritta: "Nicola è ognuno di noi".

La manifestazione, promossa dall'Assemblea aperta cittadina, ha fatto appello alla coscienza civile e alla capacità di autocritica di Verona per sconfiggere l'intolleranza e la discriminazione, un atto d'amore verso la città stessa, perchè è proprio dalle condizione estreme che possono nascere pensieri e pratiche vivificanti, perchè è proprio dal dissenso che possono nascere sensibilità, coscienza, saperi nuovi. E' necessario quindi costruire progetti per nuove sensibilità, forme di vita libere.
Erano presenti molti cittadini, uomini e donne, ragazze e ragazzi, associazioni culturali, musicali, teatrali, sociali di Verona e del territorio. Tra i molti striscioni anche uno degli amici di Nicola, con la scritta: BIBOA, una gioiosa imprecazione inventata da Nicola stesso. Molte anche le realtà giovanili e i centri sociali di varie città, da Roma a Brescia, da Padova a Bologna.

A metà corteo, qualche tafferuglio provocato da poche persone è stato pacificato dai manifestanti stessi. Il corteo si è concluso a piazza Erbe e in piazza Dante con gli interventi delle realtà che hanno organizzato e partecipato alla manifestazione.

Si è manifestato per ricordare chi ci è stato affine. Non ha importanza se Nicola si dichiarasse antifascista o meno. In questi anni di ripensamenti e ricombinazioni sociali, culturali, politiche, esistenziali, abbiamo imparato a definirci non per quello che siamo ma per ciò che non siamo. A differenza dei suoi assassini Nicola non era nazista, non era fascista, non era razzista, non era leghista, non era un reazionario. Sappiamo ciò che non siamo, ciò che saremo dobbiamo inventarlo. Lontani dalle passioni tristi, gioiosamente, naturalmente, vivere come l'aria che si respira, come ha fatto Nicola. A Nicola piacevano il surf, la montagna e il colore arancio. Skate: ebrezza e surf dell'anima. Montagna: tregua, respiro, silenzio. Colore arancio: vitalità e spiritualità. Immaginazione. Vita contro la morte.

Provate ad immaginare. L'Italia dei pogrom

da Federazione Anarchica Torinese - FAI

Provate ad immaginare.
Una persona del vostro quartiere è sorpresa dentro un appartamento: forse voleva rubare, forse voleva portar via una neonata. Viene arrestata.

Provate ad immaginare. Il giorno dopo e poi quelli successivi ragazzi in motorino lanciano
una molotov contro la casa di un vostro vicino. L'incendio brucia in parte l'appartamento ma per fortuna l'uomo, la donna e i due bambini che ci vivono se la cavano. Spaventati ma incolumi. Poi è la volta di un intero quartiere: arrivano a centinaia con i bastoni e le bottiglie
incendiarie. La gente scappa si rifugia da parenti.

Provate ad immaginare. Un bambino che vive ad un paio di isolati da casa vostra viene circondato da gente ostile che, sapendo che è del vostro paese, lo insulta, lo schiaffeggia, lo spinge a forza dentro una fontana. Il bambino è piccolo, forse piange, forse stringe i denti perché la violenza degli altri è un pane duro che ha imparato a masticare sin da quando è nato.

Provate ad immaginare. La furia non si placa: anche i quartieri vicini sono sotto assedio.
Raccolte in fretta poche povere cose intere famiglie si allontanano. La polizia non ferma nessuno degli incendiari ma "scorta" voi e i vostri compaesani. Andate via. Non sapete dove. Lontano dalle molotov, lontano dalla rabbia, lontano dalla ferocia di quelli che sino al giorno prima vivevano a poche centinaia di metri da voi. Andate in cerca di un buco nascosto, dove, forse potrete resistere per un po'. Fino alla prossima molotov.

Provate ad immaginare. Vostri compaesani e parenti che vivono lontano, in altre città, vengono
assaliti, le loro case bruciate. Anche loro sono in strada.

Provate ad immaginare. Il governo del vostro paese vara misure straordinarie per far fronte
all'emergenza. Leggi per fermare la violenza e l'illegalità. Leggi contro di voi ed i vostri parenti, contro i vostri vicini di casa, contro quelli del vostro quartiere e contro tutti quelli del vostro stesso paese.

Provate ad immaginare di essere in Italia, in questo maggio del 2008. Non vi pare possibile?
Eppure è cronaca di tutti i giorni. La cronaca di un pogrom. Un pogrom che sta incendiando l'Italia. Brucia le baracche dei rom e corrode la coscienza civile di tanti di noi. Qualcuno agisce, i più plaudono silenti e rancorosi, convinti che da oggi saranno più sicuri. Al riparo dalla povertà degli ultimi, di quelli che non si lavano perché non hanno acqua neppure per bere, di quelli che di rado lavorano, perché nessuno li vuole, di quelli che vanno a scuola pochi mesi, tra uno sgombero di polizia ed un rogo razzista.

Forse pensate che questo non vi riguarda. Forse pensate che questo a voi non capiterà mai. Siete cittadini d'Europa, voi. Siete gente che lavora, che paga il mutuo, che manda i figli a scuola. Forse avete ragione.
Forse no. Nella roulette russa della guerra sociale c'è chi affonda e chi resta a galla. Il lavoro non c'è, e se c'è è precario, pericoloso, malpagato. Il mutuo vi strangola, non ce la fate ad arrivare alla fine del mese, a pagare tutte le spese, ma forse, tirando a campare, con la paura che vi stringe la gola, ce la farete. Gli altri, quelli che restano fuori, che crepino pure. Nemici, anche i bambini. O li caccia il governo o ci penserete voi stessi, di notte con i bastoni e le molotov. A fare pulizia. Etnica.

Intanto, giorno dopo giorno, i nemici, quelli veri, vi portano via la vita, rendono nero il vostro futuro. Il nemico marcia sempre alla nostra testa: è il padrone che sfrutta, è il politico che pretende di decidere per noi, che vuole che i penultimi combattano gli ultimi, perché la
guerra tra poveri cancella la guerra sociale.

Provate ad immaginare. Provate ad immaginare che un giorno il padrone vi licenzi, che la
banca si prenda la casa, che la strada inghiotta voi e i vostri figli. Sarà il vostro turno. Ma allora non ci sarà più nessuno capace di indignazione, capace di rivolta.

Provate ad immaginare. Un giorno qualcuno potrebbe chiedervi "dove eravate mentre bruciavano le case, deportavano la gente, ammazzavano i bambini?"
Non dite che non sapevate, non dite che non avevate capito, non dite che voi non c'entrate. Chi non ferma la barbarie ne è complice.

Provate ad immaginare un futuro come questo presente da incubo.

venerdì, maggio 16, 2008

Emilio Lussu, rivoluzionario

di Valerio Evangelisti - tratto da carmillaonline

Che io sappia, nessun rivoluzionario italiano, prima di Emilio Lussu, aveva scritto un vero e proprio manuale sull’ “arte” di insorgere, e nessuno lo avrebbe fatto dopo di lui. E’ vero che il saggio rappresenta, in larga parte, una disamina delle rivoluzioni dei primi decenni del Novecento, e soprattutto della rivoluzione russa. Però è anche vero che l’analisi non è puramente storica o filosofica, ma persegue un fine preciso: individuare i mezzi necessari per abbattere il fascismo attraverso la lotta armata.

Questo semplice dato fa comprendere la differenza tra Emilio Lussu e altri antifascisti a lui coevi. Quando Lussu scrisse a Parigi la Teoria dell’insurrezione (1936), nella sinistra non comunista in esilio le idee su come abbattere il regime di Mussolini erano confuse. C’era chi pronosticava l’ingresso in Italia, attraverso le Alpi, di una colonna armata (e un discendente di Garibaldi tentò in effetti la costituzione di una velleitaria “legione” destinata a quel compito); c’era chi sperava in sollevazioni spontanee; c’era chi confidava nella propaganda e finiva nell’attendismo. Nei caffè in cui si riunivano gli esuli si riproduceva, amplificato, l’antico vizio dei socialisti massimalisti: parlare di rivoluzione senza farla.

Lussu era un tipo molto diverso, e diverso anche da molti suoi compagni di Giustizia e Libertà. Ex interventista (ma non nazionalista) nella prima guerra mondiale, ex ufficiale abituato alla vita penosa e sordida delle trincee e agli assalti disperati, ex sardista (ma non separatista), non concepiva l’inazione. Ai comunisti, lontani da lui per le tendenze autoritarie, lo accomunava una convinzione: la lotta antifascista doveva radicarsi in Italia, e non essere importata. Inoltre era convinto che la propaganda, per essere efficace, dovesse accompagnarsi all’azione armata. Non il “gesto esemplare” caro a tanti di GL (che pure non andava escluso, anzi), bensì un moto sovvertitore che nascesse dalla società e, facendo perno sulle istanze di giustizia sociale latenti in chi pativa la dittatura fascista, sapesse fondere aspetto politico e aspetto militare.
Lussu in effetti, pur parlando di “insurrezione”, è le rivoluzioni che studia. Di queste, l’atto insurrezionale non è che il primo momento. Per scatenarlo, però, non si può confidare in una semispontanea presa di coscienza delle masse. Occorre invece una “avanguardia” composta da un manipolo di coraggiosi – poco importa che si tratti anche solo di una decina d’uomini – capaci di affrontare la violenza illimitata del nemico senza lasciarsi intimidire, e di reagire colpo su colpo. Il nucleo di un esercito, insomma, che crescerà col progredire della lotta. Il fascismo prospera perché è sicuro di se stesso, e ha liquidato come insetti molesti i socialisti chiacchieroni che, in esilio, si carezzano al bar le lunghe barbe.

Tale sicurezza si incrinerà solo quando i fascisti inizieranno ad avere paura, a temere per le proprie vite. Reagiranno scompostamente, è logico, ma la compattezza dei loro ranghi prenderà a vacillare. In pratica, per imporsi, l’antifascismo deve anzitutto proiettare di se stesso un’immagine forte, temibile. E’ l’unico modo per attrarre il popolo, che le sole promesse vacue di riscatto politico-sociale non indurranno mai all’azione. L’avanguardia è una sorta di giustiziere collettivo, capace di colpire dove e quando vuole e, in tal modo, reclutare “soldati” nell’esercito liberatore.

Si sa che la Liberazione, in Italia, non seguì esattamente questo tracciato. Tuttavia – e credo di essere il primo a notarlo – le “regole” di Lussu troveranno piena applicazione sotto altre latitudini. In America Latina, per esempio. Le rivoluzioni a Cuba o in Nicaragua nasceranno da esigui manipoli di gente determinata: un pugno di uomini e donne decisi, attraverso azioni armate a un primo sguardo avventuriste, a fare sollevare un popolo intero, oppresso da una dittatura. Certo, né Fidel Castro né Che Guevara né Daniel Ortega avevano letto Lussu (suppongo). Ma ciò non fa che confermare la valenza generale dei principi che Lussu trae dalla disamina delle rivoluzioni precorse. Nel caso di quella russa comportandosi, lui saggista politico, da storico.
Si tenga presente che nel 1936 un italiano in esilio aveva a disposizione una quantità esigua di testi sull’Ottobre, ben inferiore a quella odierna. Ebbene, le osservazioni di Lussu sono quasi sempre puntuali, e tuttora utilissime.

Lussu, antifascista impaziente di agire, ricorda un poco un Errico Malatesta, un Camillo Berneri, un Guido Picelli (altro ex ufficiale ribelle), che in epoche differenti compresero che era venuto il momento di spaventare il nemico. Preparati alla sconfitta immediata, però certi che essa avrebbe condizionato il futuro. Purché un’avanguardia si ricostituisse, purché il legame con la questione sociale rendesse una sollevazione di minoranza non gratuita.
Il resto della vita di Emilio Lussu è all’insegna della stessa coerenza. Protagonista di lotte contadine nella sua Sardegna, ostile alle derive moderate del PSI cui aveva aderito, pronto a dissociarsi da un nuovo partito – il PSIUP – non appena questo si era rivelato subalterno al PCI.

Lussu rimane tra le grandi figure rivoluzionarie e libertarie (poche) di questo paese, da Malatesta ad Armando Borghi. E la sua Teoria dell’insurrezione, profetica per tanti versi, potrebbe rivelarsi ancora attuale, se i tempi bui che viviamo si incupissero ulteriormente.

giovedì, maggio 15, 2008

Roma k.o. Romanzo d’amore odio e lotta di classe

di Duka e Marco Philopat - Agenzia X

Alla fine sai cosa penso, Gerardo?
Abbiamo fatto bene a scatenar
e quel putiferio l’altro giorno...
È ora di farne scoppiare un altro.


Roma, settembre 2008. Il Corviale, leviatano edilizio lungo un chilometro, subisce all’improvviso gravi danni strutturali. Il sindaco V. decide di trasferire i suoi seimila abitanti in una tendopoli allestita negli studios di Cinecittà, proprio a ridosso di un grande centro commerciale.
La rabbia degli sfollati e l’irrefrenabile desiderio di possedere merci fanno scattare un meccanismo fuori dagli argini della razionalità, destinato a cambiare persino gli equilibri meteorologici della città eterna.
Il romanzo si svolge in cinque adrenalinici giorni, con la continua irruzione della voce del Duka che, attraverso iperboliche testimonianze, narra trent’anni di inedita storia underground, fino allo scontro frontale, a tutta velocità, tra fiction e realtà. Un pugno da K.O. a qualsiasi forma di normalizzazione.

mercoledì, maggio 14, 2008

Assalti Frontali Free Download nuovo singolo: Mappe della libertà

In attesa del nuovo album in uscita in giugno segnalo al volo il nuovo singolo Mappe della libertà che anticipa l'uscita di Un'intesa perfetta, liberamente scaricabile e godibile cliccando sull'immagine qui a fianco.

In questa occasione scopro - tardi, fuori tempo massimo - il sito degli Assalti Frontali e mi sbrigo a segnalarvelo... un sacco di materiali, testi, comunicati e altro. Merita un giro.

www.assalti-frontali.com

martedì, maggio 06, 2008

Il bello è essere in ottantamila - Comunicato post Euromayday 2008

Il bello è essere in ottantamila, migranti e precari, insieme, a Milano, per l'EuroMayDay 008, la parata del primo maggio dei precari europei. Da Piazza XXIV maggio fino a Piazza Castello, 30 carri hanno sfilato dalle tre del pomeriggio alle otto di sera, musica a palla, età media meno di trent'anni. Sotto un sole caldo nel cielo limpido che ha sconfessato tutte le brutte previsioni, alla faccia di chi ci vuole male. Da Torino, da Bologna, da Vicenza, da Brescia, da Piacenza, da Feltre, da Bergamo, da tutta la Lombardia. Apre il carro dei migranti, affidato a San Precario, versione mediorientata, con in testa una kefiah, con gli striscioni che dicono "No border, no precarity", "Libertà di movimento". Il bello è essere in ottantamila a condividere queste rivendicazioni: regolarizazzione permanenet, no al legame fra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, chiusura dei cpt.

Rivendicazioni che parlano di precarizzione della vita e del lavoro e che quindi non riguardano solo i migranti ma tutti/e coloro che hanno invaso le strade di Milano. I tamburi tuonano mentre uomini e donne di nazionalità diversa portano, su un palmo di mano, vien da dire, lo striscione "patchwork" della catena transazionale delle realtà di lotta dei migranti europei, ogni pezzo cucito vicino all'altro corrisponde a un nuovo appuntamento: adesso è qui, EuroMayDay 008. Subito dietro, il carro delle donne precarie che vogliono "partorire i loro diritti" e ballano arrabbiate dentro una gabbia, la gabbia della precarietà che deve saltare. Sfilano le realtà di lavoro della rete Intelligence Precaria: i lavoratori dei call center, gli operatori sociali, le cassiere Esselunga e gli autorganizzati delle Scala, l'autobus delle autoproduzioni, i giornalisti freelance sul carro di City of Gods, la free-press precaria. E poi ancora i centri sociali e i sindacati di base: confederazione Cobas, cub, Sdl, Slai cobas.

Ma non è festa solo per chi marcia, è festa di tutta la città, anche di chi sta ai bordi delle Parade e legge City of Gods, sorride, resta a guardare e commenta. Chi accusa la Mayday di essere "soltanto una festa" dimentica che "uno degli aspetti essenziali della Vera Festa costiste nella presa dello spazio, nel suo rovesciamento, nella risacralizazzione umanizzata" di una festa addomesticata, distante, senile come quella del Primo maggio tradizionale. I precari festeggiano perché è in questo spazio che si risonoscono e perchè è in questo tempo che la loro presa di parola, lasciadosi alle spalle autocommiserazioni e sfighe, si sta tramutando in forza Non ci sentiamo precari/e: lo siamo. Noi siamo precari e precarie, lavoratori e lavoratrici, uomini e donne, migranti e nativi. E siamo i più incazzati Intanto su un balcone, in via Torino, appare una scritta: "Migranti abbiamo bisogno di voi, non lasciateci soli con gli italiani". E dal camion rispondono le voci, al microfono, dei latinoamericani, dei magrebini, dei senegalesi, stanchi di veder appiattita la loro esistenza sul lavoro, ricchezza vitale di uomini e donne che non solo viene disconosciuta ma addirittura si trasforma in problema per una sinistra che ha smarrito il senso di sè e a cui restano solo le politiche securitarie della destra.

La parte migliore di questo paese si è fatta viva a Milano il Primo maggio 2008. Per collegarsi e ricomporsi, i partecipanti raccolgono e mettono insieme i pezzi del puzzle precario distribuito dai carri. Collegamenti anche in senso radiofonico: dal carro dei giornalisti precari di City of Gods vanno in onda i collegamenti in diretta/differita con le Mayday di Aachen, dove Sarkozy e Merkel vengono ricoperti di fischi; con i migranti di San Francisco e Washington; con le Euromayday sparse per tutta Europa, da Lisbona a Maribor. Ci si collega con Pomigliano d'Arco, dove ci si oppone alla deportazione di 316 "operai e precari" e con Roma dove precari e migranti hanno occupato un'ex sede del messaggero proprietà di caltagirone.Una partecipazione, quest'anno, che non solo è cresciuta numericamente e si è allargata a nuovi soggetti precari, ma è maturata, si è fatta più analitica, condivisa e rivendicativa. DeCorato, vicesceriffo di Milano sul Corriere della sera la mette giù così: "A dispetto delle assicurazioni date dagli organizzatori del corteo, i bravi ragazzi dell'area no-global e dei centri sociali che hanno partecipato alla MayDay hanno lasciato il segno. Una vergogna che grazie agli impianti di video sorveglianza e alla collaborazione dei cittadini non resterà impunita!" Come ogni anno, De Corato & company gridano allo scandalo.

E i giornali -- da buoni vassalli -- amplificano. Ovviamente senza scrivere nulla sul perché della MayDay, sui suoi contenuti e sulle decine e decine di migliaia di uomini e donne che l'hanno attraversata. Per i giornali, la MayDay esiste solo grazie alle scritte sui muri. La stampa e De Corato possono stare tranquilli. Finchè l'informazione sarà questa, continueremo a scrivere sui muri. Almeno, alcuni concetti, del tutto condivisibili, quali "Equo canone", "Diritto alla casa" "Più case, meno chiese", passeranno sulle pagine dei giornali. Concetti, inoltre, ben più pregnanti - solidarizziamo con i denunciati !- e sapienti di quelli veicolati attraverso i tantissimi manifesti pubblicitari che infestano le vie della città, rovinandola, oltraggiando il decoro metropolitano, svilendo l'intelligenza dei cittadini. Questo è un vero esempio di vandalismo urbano, come lo sono i cantieri a cielo aperto di decine di parcheggi inutili, costosi e tangentati.

Ed ancora: il vandalismo per noi è quello dell'Expo, come ricorda il carro dei comitati NoExpo: un mostro di precarietà e distruzione degli spazi pubblici della città di Milano. Cementificazioni, infrastrutture immense che "utili" per poco diventeranno un attimo dopo cattedrali nel deserto. Si stanno abbattendo ora le brutture di Italia90. L'Expo attirerà investimenti miliardari che per noi che viviamo qua in basso, nel mondo di sotto, si tradurranno in contratti precari, per i fortunati, in lavoro nero, per tutti gli altri addetti alla costruzione della metropoli vetrina del 2015. Non lamentatevi delle scritte sui muri voi che sfregiate l'anima di una città! Nel silenzio assordante della politica che si ricorda della precarietà solo in campagna elettorale, i precari della EuroMayDay 008 mandano a dire che possono fare da sè. Non hanno solo cuore ma idee, creatività, capacità comunicativa ma anche proposte sul reddito, sul welfare, la casa, l'ambiente.

Mentre la sinistra dei partiti e dei sindacati confederali si lamenta, e s'allontana dal paese reale, la Mayday s'incammina per darsi continuità e stringere nuove complicità precarie .

Una la Long-lunga-larga EuroMayDay che si farà sentire nei prossimi mesi. Ma questa è una altra storia.

Per il momento, ricordiamo il primo appuntamento dell'Assemblea MayDay per domenica, 11 maggio, h.15.00, Ponte della Ghisolfa, V.le Monza 255, Milano.

EuroMayDay Milano

Al posto di Nicola poteva esserci ognuno di noi

Mercoledì alla notizia abbiamo tremato. Un dolore alla pancia, un presentimento. Mai come ora avremmo voluto essere smentiti. Non è così. La cronaca riassume drammaticamente la storia di questa città. Degli ultimi anni ma anche di trent’anni fa. Abel e furlan. Figli annoiati
della Verona bene che riempivano il loro tempo dando la caccia a presenze non conformi della nostra città.

Avevamo purtroppo ragione. Cinque ragazzi. Giovanissimi. Chi più, chi meno figli della Verona bene, legati agli ambiti della tifoseria neo fascista, militanti o anche semplicemente simpatizzanti alla lontana dei movimenti o dei partitucoli dell’estrema destra cittadina. Vestiti bene, all’ultimamoda. Alcuni con precedenti recenti, per atti di razzismo o per problemi allo stadio.
Perché la composizione sociale e il profilo caratteriale del neofascista scaligero negli ultimi anni è cambiato. Una certa clima culturale e sociale, alcuni imprenditori politici, un generale vento che spira ha suggerito un processo di riterritorializzazione: lasciare, o meglio, non limitarsi alle periferie, accantonare l’anima stradaiola e la “storica” attitudine “antiborghese” per rimpossessarsi del centro città. E con esso ridefinire formalizzare rappresentare un’identità.

L’ossessione identitaria alla mia città, il mio territorio, la mia “forma di vita” si sostituisce all’appartenenza alla piccola compagnia, al bar, al quartiere, al giardino. Nicola è in fin di vita non perché avversario politico, non perché rappresentava il nemico, nemmeno perché diverso : migrante, comunista, gay, zingaro, barbone...
Solo e “semplicemente” l’estraneo.non familiare.non compatibile. Parte di un gioco “perverso” , perché di questo si tratta, di un gioco contro la noia: “ripulire il centro” per ripulire la città, da chi non merita, non è all’altezza. La “veronesità” e i suoi codici espressivi.

Verona è una città malata. E il virus sta proprio nel cuore, nel ventre molle del suo dna.
Il male, il pericolo è sempre un elemento esterno, sempre importato.
Come se ammettere ciò che non va all’ interno e cercare nelle radici facesse traballare le fondamenta stesse di ciò che siamo. Così è sempre stato in questi anni, ogni volta che Verona è finita sotto i riflettore nazionali per fatti di cronaca nera, che si trattasse di razzismo o di inquietanti fatti di cronaca (da maso a Stevanin ecc.) la città e le sue stesse istituzioni hanno fatto quadrato nella difesa di una presunta “forma di vita” che nulla avrebbe a che fare con i fatti in questione.

A che serve oggi raccontare per l’ennesima volta lo stillicidio di aggressioni?...

Uno stillicidio di aggressioni motivate da “futili ragioni”, spesso nel pieno del centro città.
Come gli accoltellamenti dell’ estate 2005, come le sistematiche azioni contro i diversi (capelloni, alternativi, mangiatori di kebab…) compiute da una ventina di ragazzi figli della Verona bene, emerse da un inchiesta della DIGOS nella primavera scorsa. Come la “cacciata” da piazza erbe, l’autunno scorso, l’episodio non più violento ma più emblematico, quando alcuni antagonisti veronesi in quella piazza per bere lo spritz vennero aggrediti ed espulsi dalla stessa tra l’applauso generalizzato e pre-politico di decine e decine di astanti. O come l’ultimo fatto “marginale” in valpolicella (il paese di Nicola) la lettera di una madre sul settimanale locale, del mese scorso, in cui si cercano testimoni di un’aggressione avvenuta in un bar , dove un ragazzo di colore giovanissimo è stato massacrato e ridotto in stampelle (fortunatamente provvisorie) tra cori da stadio e inni del ventennio, nell’imbarazzante omertà dei clienti...

Ad evitare che si ripeta.

Guardando al futuro. Partendo dalle radici, quelle storiche certo. Innanzitutto quelle attuali. Il delirio securitario, la paranoia della paura, l’emergenza criminalità diffusa, il decoro. da tempo e in maniera esponenziale con le ultime amministrative un linguaggio si è imposto. Ci siamo svegliati una mattina ed abbiamo scoperto di essere in guerra, sotto assedio. Il nemico viene sempre da fuori e fuori deve tornare. Questo è il linguaggio criminale che succhiano col latte i figli di questa città.

Caro sindaco, alcune provocazioni….
Dovremmo immaginare che quest’ ultima aggressione sia solo un effetto collaterale di una ronda autogestita? Dobbiamo spalleggiare il sindaco nella richiesta di 72 agenti di polizia per presidiare la notte il Bronx di Piazza Erbe? Dovremmo concordare con la lega la liberalizzazione della armi di difesa personale e suggerire a tutti i diversi di questa città di girare armati?

Noi chiediamo le sue dimissioni perché simbolicamente lei è uno dei mandanti morali di questa tragedia. Perché riempiendosi la bocca della parola d’ordine sicurezza ha alimentato una forma di “insicurezza” che non produce voti, legittimando la libera e spontanea pretesa di ristabilire il decoro, di ripulire il centro città e i quartieri dai nemici della presunta veronesità. Perché il suo successo poggia sull’odio, non vive senza un nemico, alimenta una guerra irresponsabile le cui conseguenze pagheremo a lungo.
Si deve vergognare per ciò che ha detto e per i silenzi, perché l’acqua che oggi getta sul fuoco se fosse stato coinvolto un non veronese sarebbe diventata benzina…

Quante vite rovinate servono per aprire gli occhi?

A cosa è servita la tragedia di Nicola?

Quanto è successo a Nicola non può “capitare”
Quanto è successo a Nicola non può non insegnare
Quanto è successo a Nicola non può ripetersi.

*csoa la chimica*
*circolo pink*

lunedì, maggio 05, 2008

[Precog] mayday protests mar charlemagne prize of eu elites in aachen

di Alex Foti - da Precog

between 10 and 12:30 scuffles with police as a euromayday contingent got up in front of merkel, sarkozy, trichet, barroso, solana, ciampi, balkenende, pottering to wave the four mayday stars and bringing them to account for the inequality, precarity, securitization of european society they are engineering. 7 arrested, among whom author of mayday poster and later released as parade was split in too by riot cops who ran after pink clowns and pink sambas. we are now back at welthaus after having played cat and mouse with police for hours in old quarter and in front of the station of aachen.

in the morning 500 people converged behind two trucks to go to marktplatz. fascists attack pink contingent but are quickly put on the run by koeln antifas. we run thru the city to get to destination. we pass one barrier of vans then another people are stopped and others block police vans. finally half get to the area were a megascreen pictures merkel and the others with charlemagne medal. we get up in front: no border no nation stop deportation in brussels and everywhere. mayday is our day not your day. we are europe, you are the undemocratic rulers of the minor european empire of christian, nationalist, miitarist, charlemagne europe. thanks for poverty, discrimination, monetarism. as they waved the crowd we were there lifting the finger and screaming bastard at a barroso caught under a moment of rain and hail, at a trichet frozen is disbelief and outrage.
then sun return bus from liege arrives and train from koeln. two other soundtrucks join, no border no precarity fight against new inequality, food not bombs too. we are more than 1500 now. turin samba starts playing the vibe is good and we move slowly. they block the vegan truck (another great group,le sabot is feeding maydayers night and day).

we continue and stop at the station. in malaga maydayers are blocking a station at the same time because police wont make 2000 precarious and migrants leave for the parade. 6000 people and 9 trucks in berlin. 100.000 in milan at the mayday parade says the metalwokrers union! we are there asking the release of the four caught when a reported sitin at the start of parade blocked stream of black limousines and got arrested. we wont continue until thezy are releaseed. the atmo for a while winds down. people dance the chiki chiki precario, listen to mayday songs, drink beer, listen to san precario mock prayers. speeches are made. but then the situation gets tens. 400 riot cops are moving in. we gotta move. the organizers many close to die linke are hesitant. the cops are moving in we have just started to move the people to the arrival point of the parade. the cops break the road in two. other than for clowns they split friends in two. two arrests are made before my eyes, two other on the other side. the cops try to push us away. we resist. then after we move.

suddeny they run after us. the parade is broken. clown army and pink samba from liege completely surrounded. some escape on roofs receiving assistance from local people. than after more than one hour we manage to reach the columns and stairs were the sound system is booming. we count th emissing the legal team starts working to release the prisoners. when mike and sebastian get here they are cheered with relief. slowly also the others are liberated. we defended mayday in aachen against karlspreis and exposed the extreme aggressiveness of the german version of the security state that sarko and berlusconi are building in france and italz. cops sought to provoke us into a riot and prevent freedom of movement and expression. they failed. mayday mayday all over europe, solidarity from activists and protesteersfrom belgium, france, holland, italy, spain, japan in aachen/ aix la chapelle, the city of the eu oscar ceremony held on ascension day where charlemagne is buried. let´s build a radical europe against discredited elites....



MayDay scaccia la solitudine

La giornata si presenta bene, il sole si fa spazio fra un velo di foschia. Arriviamo - in un gruppetto - che la manifestazione è già iniziata, si stende da Porta Ticinese in su: finalmente aria di MayDay. E' sempre con un pò di ansia che si arriva alla MayDay, perché risulta incredibile che ogni anno si azioni l'alchimia che fa di questa la grande manifestazione del Primo Maggio italiano, moltiplicatasi oramai in Europa e oltre, che si aggancia e relazione con il movimento degli migranti statunitensi - in primis latinos - che si mobilitano da qualche anno il primo di maggio.

L'alchimia della MayDay è tutta nella sua indomabilità da parte di partiti, sindacati, gruppi di movimento. Una marea di singolarità che cancella e rende alieni i piccoli spezzoni dietro le bandiere di qualche "partito comunista e qualcosa", mentre la marea delle singolarità si muove su e giù dal corteo questi gruppetti compatti e discliplinati, dietro qualche "funzionario", evidenziano la separatezza dai simboli e dalle pratiche che abbiamo ereditato dall'era del capitalismo industriale.
In testa biciclette e spezzoni di migranti, ordinati e determinati.

Dai tanti camion musica e birra, prosecco dal autobus di Fiere Precarie per brindare: ci siamo, possiamo guardarci e toccarci. Possiamo esserci senza cancellare nei numeri le singole vicende, le singole lotte (anche individuali), la singola incazzatura contro l'imposizione lavorativa e contro un'omologazione che ci piega all'auto-sfruttamento, alla ricerca di visibilità sociale attraverso il consumo. L'advertising è come sempre la forza della MayDay, la capacità di costruire un mondo di simboli, linguaggi e narazioni: è presente la consapevolezza che la definizione dei termini dei conflitti è una parte fondamentale dei conflitti stessi, che l'affermazione di una determinata lettura del lavoro dei giorni nostri nella società - così come delle singole scelte di vita, in ogni suo aspetto - è centrale per sperare in una nuova riattivazione delle capacità di coalizione.

Ognuno delle e dei presenti forse non sa, ma mi accollo il rischio e scommetto che ognuno è in MayDay per uscire dalla solitudine e per strappare il diritto materiale ad autodeterminare la propria esistenza. E' già un passo in avanti.

domenica, maggio 04, 2008

[RK] Il fantasma col sigaro in bocca

di bifo - da rekombinant

Sbancor aveva molte cose da dirci, ed il suo è un messaggio a più strati. L'ironia è la chiave essenziale per penetrare nel suo regno. Pensate al suo nome. Sbancor è la negazione dell'asservimento al dominio del denaro, la consapevolezza della menzogna implicita nel danaro, nell'economia. Ma c'è una venatura amara di consapevolezza nel suo stile discorsivo. Sbancor sapeva bene che il dominio dell'economia è tutt'uno con il dominio dell'ignoranza, e sapeva che l'ignoranza è interminabile, come Freud diceva della psicoanalisi. (Si tratta infatti dello stesso tema: l'analisi è il processo di liberazione dal nostro non vedere noi stessi. E il non vedere è costitutivo del nostro essere). Interminabile come il rapporto con il debito, e con la banca, da cui peraltro pare che Sbancor traesse i mezzi del suo sostentamento.

Ricordo la sua relazione al Convegno di Rekombinant dell'ottobre del 2005. Fuori pioveva a dirotto, e il clima era plumbeo. L'intervento di Sbancor fu lungo articolato, documentatissimo, e tenne col fiato sospeso una sessantina di persone che stavano ad ascoltarlo.

Non è vero, disse, che gli americani abbiano perso la guerra iraqena. L'hanno vinta perché il loro scopo non è quello di rende il mondo più governabile, né di mettere le mani sul petrolio iraqeno. Lo scopo dei petrolieri della Casa Bianca non era tenere bassi i prezzi del petrolio, ma piuttosto il contrario. Lucrare sulla guerra e sul petrolio. Da questo punto di vista, diceva Sbancor, la Halliburton non ha certo perso la guerra. Tre anni dopo sappiamo che il prezzo del petrolio si è messo a correre, moltiplicandosi più di quattro volte. Quanto al costo della forza lavoro, disse quel pomeriggio, descrivendo davanti ai nostri il divenire prossimo del mondo, il dumping cinese sta producendo i suoi effetti sul potere di acquisto del proletariato internazionale. Nei prossimi anni assisteremo a un avvicinamento progressivo del livello salariale crescente degli operai indiani o cinesi e il salario calante degli operai occidentali.

In questo quadro, diceva ancora, l'entità europea va considerata come un'entità economica, punto e basta. E la catastrofe italiana può ormai considerarsi compiuta. Quello che seguirà, diceva Sbancor nell'ottobre del 2005, (qualche mese prima del penultimo atto della tragica farsa italiota, la vittoria risicata del centrosinistra), quello che andrà a seguire, è scritto nelle cifre del debito, nel peso decisivo dell'economia criminale, nell'inesistenza di una classe dirigente di ricambio, perché le elite sono state distrutte, incarcerate, perseguitate, affamate, espulse, umiliate, esiliate. Come sappiamo, tutto quello che Sbancor ci ha detto in quel pomeriggio di ottobre, si è rivelato vero, parola per parola. Non faceva il profeta, ma semplicemente guardava alle cose con uno sguardo ironicamente disperato, o disperatamente ironico.

Tanto che talvolta mi viene un dubbio sullo pseudonimo che aveva scelto questo compagno e amico, di formazione consiliar-libertaria, woobly e antilavorista, lettore raffinato di letteratura e scrittore lui stesso.

Non gliel'ho mai detto questo dubbio. Ora me ne rimprovero, avremmo potuto chiacchierarci sopra per un paio d'ore, e invece non gli ho mai chiesto: hai pensato a questa assonanza, a questa duplicità?
Sbancor non suggerisce solo la negazione del dominio del danaro sulla vita umana, ma anche il nome della vittima della violenza idiota del potere. Una vittima invincibile, che non smette di ritornare, ossessionando il potere assassino. Ricordate il Banquo che MacBeth fa uccidere nel dramma shakespeariano? E ricordate che la vittima ricompare, come fantasma, al posto riservato per MacBeth?

Così ora vedo Sbancor: come un fantasma che irride ai vincitori, perché sa bene che chi vince non vince niente, e l'importante è essere impeccabile.
Col suo sigaro in bocca ripete la canzone:

« Life's but a walking shadow; a poor player,
That struts and frets his hour upon the stage,
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing. »

ben tornato, amico mio fantasma.