mercoledì, giugno 28, 2006

Né "salaristi" né "redditisti"

di Anna Curcio - Gigi Roggero, sociologi

È ora di mettere fine alle guerre di religione. La lotta all'ultima goccia di inchiostro tra «salaristi» e «redditisti», oltre ad essere noiosa, è incomprensibile. Come si fa a sostenere che la rivendicazione di un reddito sganciato dal lavoro produce divisione di classe e indebolisce le lotte per l'occupazione? È come dire che la rivendicazione della libertà per i detenuti impedisce il miglioramento delle condizioni in carcere. Pura follia. Dall'altra parte, se qualcuno pensa che chiunque rivendichi la stabilizzazione della propria posizione occupazionale è un vandeano, forse avrebbe bisogno di qualche corso di sano materialismo. Insomma, parlando di precariato, il primo obiettivo è evitare nefaste riproposizioni di teorie delle due società.
Piaccia o no, le «garanzie del fordismo» sono definitivamente tramontate.
Non perché le persone non vogliano un contratto a tempo indeterminato, ma perché non sono disposte a scambiare la loro vita con l'ergastolo del lavoro. Consigliamo di leggere «Le nouvel esprit du capitalisme» di Boltanski e Chiappello. Analizzando la letteratura padronale negli anni settanta e novanta, i due autori scoprono che il termine «flessibilità» ricorre con un rovesciamento di senso: se negli anni settanta, nel periodo dell'insubordinazione operaia, dell'assenteismo di massa e della fuga dal lavoro salariato esso assume i colori del terrore e della
disperazione, vent'anni dopo torna come salvifica ricetta di qualsiasi politica del lavoro.
Talvolta si ha l'impressione che chi chiede di tornare alle «garanzie fordiste» abbia letto solo la seconda parte del libro. Quando il lavoro vivo porta alle estreme conseguenze le retoriche del «capitalismo postfordista», quando flessibilità, mobilità, imprevedibilità e infedeltà contrattuale cessano di essere minacciose parole d'ordine delle imprese per diventare armi nelle mani dei lavoratori, equilibri e compatibilità del mercato saltano. Il problema è la rivendicazione di parzialità, non per ritornare a garanzie [di sfruttamento] sfondate dai conflitti prima ancora
che dalla controrivoluzione capitalistica, bensì per affermare nuovi diritti. In questo senso, lotte per il contratto a tempo indeterminato e conflitti per il reddito e la mobilità non solo non sono al ternativi, ma possono produrre un circolo virtuoso. Il dibattito non può riprodursi nella separazione: deve alimentarsi all'interno del corpo vivo della composizione di classe e delle sue forme di resistenza. Dopo averla spesso evocata, dobbiamo cominciare davvero a fare inchiesta militante. Abbiamo visto organizzazioni politiche qualificarsi come partiti dell'inchiesta, intesa esclusivamente come pregiato orpello. Ma non stiamo parlando di una semplice attività scientifica, che nella classica suddivisione dei compiti consegna al sindacato o al partito l'utilizzo della conoscenza prodotta. La ricerca militante è attività politica, collocata dentro e tendenzialmente oltre la crisi della rappresentanza. O così, oppure torniamo agli intellettuali organici...
Da mesi all'interno dell'EuroMayDay process si sta costruendo una rete di esperienze di conricerca, il Precarity Web Ring [www.precarity-map.net]: assumendo lo spazio europeo come terreno di azione, l'obiettivo è cartografare le soggettività, connettere i conflitti, produrre lessici comuni e sperimentare nuove forme di organizzazione. Servono intelligenze, impegno militante e risorse, anche economiche. Il terreno dell'inchiesta può essere un banco di prova per un nuovo rapporto tra movimenti e sistema politico e sindacale, che dopo Genova ha progressivamente segnato un punto di crisi. Il tempo delle parole e dei buoni propositi è finito, ci vogliono fatti e risposte concrete.
Stanchi delle guerre di religione, chissà che questa non possa essere l'occasione per una piccola pace di Westfalia...

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