Buona lettura!
venerdì, giugno 30, 2006
In like Flynn
Buona lettura!
giovedì, giugno 29, 2006
Mi chiamo Patrick...
Questa che vi riporto è una vicenda in pieno svolgimento, di cui l'esito che pare scontato piacerebbe a tanti poter cambiare. Un storia come tante - è non è un modo di dire - che questa svolta ha come sfondo contestuale Trento. Il protagonista, suo malgrado, si chiama appunto Patrick ed è un migrante, un sans-papiers. Clandestino per la legge italiana, come tanti altri, almeno fino al momento di una sanatoria quando, come per incanto, da soggetti pericolosi diventano una risorsa. L'ipocrisia di questa retorica, propinataci a piene mani dai media mainstream e da tanti attori politici, non ci impedisce di vedere le barbarie a cui sono sottoposte le sorelle e i fratelli migranti nel nostro paese. Speriamo che almeno per Patrick l'esito scontato della vicenda qui sotto narrata sia la libera possibilità di determinare il suo futuro e di perseguire la felicità: ora, in italya, perchè lui l'ha scelto.
Mi chiamo Patrick,
la mia storia è la cronaca della brutalità della legge Bossi-Fini, il percorso verso la conquista della dignità attraverso gli ostacoli che la legge impone a noi stranieri. La mia storia è quella di un ragazzo ghanese che per stare in Italia vicino alla propria madre, per lavorare in regola e per vivere da persona libera ha dovuto fare “carte false”, modificare la sua identità. La storia di un ragazzo di 21 anni che per schivare la severità della legge che non permette ad una famiglia di ricongiungersi ha dovuto negare il suo nome per non negarsi il diritto di vivere senza nascondersi.
Sono stato incarcerato con l’accusa di avere falsificato il documento di soggiorno, infrangendo le leggi che regolano l’immigrazione. Ora sono stato scarcerato, in attesa del processo che potrà costarmi l’espulsione per 10 anni dall’Italia. Il 12 luglio dovrò presentarmi in questura per regolarizzare la mia posizione: se risulterò clandestino mi sarà intimato di lasciare il territorio italiano, se non lo farò sarò nuovamente incarcerato, portato in un Centro di detenzione per migranti (CPT) e rimpatriato con la forza, obbligato ad un viaggio di sola andata verso il Ghana.
Vi chiedo di non rimanere indifferenti spettatori di fronte ad un atto che ha la forza di distruggere una famiglia, di spezzare un sogno, di interrompere un cammino che avevo quasi del tutto conquistato: vivere nel vostro Paese da cittadino straniero regolare. Vi chiedo di starmi vicino, perché possa essere riconosciuta la mia voglia di vivere vicino a mia madre e nel vostro Paese con dignità. Vi chiedo l’impegno per la dignità di tutti gli immigrati, perché la battaglia per i diritti di cittadinanza diventi la lotta per la libertà.
Chiedo a tutti quelli che mi conoscono, al mondo dell’associazionismo, ai democratici e agli antirazzisti di mobilitarsi sottoscrivendo questa lettera, partecipando all’assemblea del 29 giugno, non lasciandomi solo a lottare per la libertà.
Patrick
Il capitalismo cognitivo secondo Vercellone
Introduzione
di Carlo Vercellone
Questo lavoro si riallaccia ad un’analisi dei mutamenti del capitalismo che parte dal ruolo strutturante delle trasformazioni della divisione del lavoro per interrogarsi sull’ipotesi di un possibile crepuscolo del capitalismo industriale. Questa scelta metodologica segue la strada tracciata dai padri fondatori dell’economia politica. Infatti Adam Smith, sin dal capitolo primo de La Ricchezza delle nazioni, considera gli «effetti della divisione del lavoro sull’industria generale della società» lo sprone più potente della rivoluzione industriale, che egli illustra attraverso il famoso esempio della fabbrica degli spilli. Possiamo retrospettivamente affermare che la crescita fordista ha rappresentato sotto molti aspetti l’esito storico del modello industriale di cui Smith aveva saputo anticipare i tratti e le tendenze essenziali. Da una parte, grazie all’associazione dei principi tayloristi e della meccanizzazione, la forza-lavoro si integra con un sistema sempre più complesso di strumenti e macchine. La produttività può essere allora rappresentata come una variabile le cui determinanti non tengono più in alcuna considerazione le conoscenze dei lavoratori. In questo senso, la rappresentazione smithiana della divisione tecnica del lavoro, caratterizzata dalla parcellizzazione del lavoro e dalla separazione dei compiti di progettazione ed esecuzione, conosce una sorta di compimento storico: la conoscenza e la scienza applicate alla produzione (progettate dagli ingegneri delle grandi imprese) si sono separate dal lavoro collettivo e, come annunciava Smith, sono divenute «come ogni altro impiego, la principale o la sola occupazione di una classe particolare di cittadini» (Smith 1991, p. 77). Dall’altra il potere di accumulazione del capitale industriale – poco importa se la mano invisibile del mercato è rimpiazzata dalla mano visibile dei manager (Chandler 1988) – si afferma non solamente nell’organizzazione della produzione, ma anche in rapporto alla sfera finanziaria. Quest’ultima, particolarmente sotto la forma di credito, si sviluppa essenzialmente in funzione dell’espansione dell’anticipazione di capitale che, secondo Smith, condiziona e governa la riproduzione allargata del capitalismo industriale. La crisi sociale del fordismo ha determinato l’esaurimento delle modalità tayloriste di conseguimento di incrementi di produttività. Più in generale, essa ha messo radicalmente in discussione la dinamica delle relazioni incrociate che riguardano l’economia della conoscenza e i rapporti capitale/lavoro e finanza/produzione. Per questo motivo questa crisi potrebbe essere interpretata come un vero capovolgimento storico1 all’interno della dinamica di lungo periodo del capitalismo. Questo capovolgimento si manifesta in particolare attraverso due tendenze principali del capitalismo contemporaneo. La prima riguarda la diffusione e il ruolo centrale della conoscenza, all’interno di una organizzazione sociale della produzione che tende sempre più a superare i confini delle imprese. Il sapere non è più, come sosteneva Smith, monopolio di una classe particolare di cittadini, e questa diffusione sociale del sapere trasforma la dinamica del progresso tecnico e il rapporto capitale/lavoro. Derivano da ciò il declino storico del capitalismo industriale nato con la grande fabbrica manchesteriana e il passaggio verso una nuova forma post-industriale di capitalismo che potrebbe essere definito capitalismo cognitivo, nel senso che la produzione e il controllo delle conoscenze divengono la posta in gioco principale della valorizzazione del capitale. In questo passaggio, i modelli di rete, di laboratorio di ricerca e di relazioni di servizi, potrebbero, in un certo senso, giocare lo stesso ruolo che la fabbrica degli spilli di Smith ha giocato nell’avvento del capitalismo industriale. Il ruolo centrale che la nozione di tempo impartito giocava all’interno del capitalismo industriale sembra, nello stesso movimento di trasformazione, cedere il posto, nel capitalismo cognitivo, alla nozione di tempi sociali necessari alla costituzione e alla valorizzazione dei saperi. Queste trasformazioni nella divisione del lavoro e nell’economia della conoscenza vanno di pari passo con i cambiamenti profondi che riguardano i meccanismi di regolazione del mercato del lavoro. In particolare, lo sfaldamento del modello canonico del rapporto salariale (il contratto a tempo indeterminato) e la crisi del sistema di tutela sociale costruitogli attorno, si combinano con un importante processo di desalarizzazione formale della manodopera. Un’autonomia crescente delle conoscenze dei lavoratori si trova così associata a una precarietà altrettanto importante che riguarda le condizioni di impiego e di remunerazione della forza lavoro, secondo una relazione sulla quale sarebbe opportuno interrogarsi. La seconda tendenza riguarda un imponente processo di finanziarizzazione. Tuttavia, sono rari i lavori che accostano la genealogia del processo di finanziarizzazione alle trasformazioni della divisione del lavoro e del rapporto salariale. In effetti, la maggior parte delle analisi considerano la globalizzazione finanziaria come il risultato del crollo del sistema di Bretton-Woods che, secondo Robert Reich (1993), aveva segnato l’apogeo del nazionalismo economico. Queste analisi si basano sull’ipotesi secondo la quale, nella dinamica storica del capitalismo, esisterebbe un eterno contrasto tra la logica universale dell’espansione del capitale denaro e i limiti che il potere politico degli Stati tendono a imporre a questa espansione. La fase attuale corrisponderebbe allora ad un nuovo capovolgimento storico nel rapporto conflittuale tra il potere degli Stati e la tendenza della sfera finanziaria a sfuggire a ogni forma di regolamentazione. Pertanto, le relazioni tra crisi del rapporto salariale, trasformazioni della divisione del lavoro e repentino sviluppo della logica della finanziarizzazione sono trascurati. Uno degli scopi di questo lavoro è tentare di colmare almeno in parte questa lacuna, collegando questi aspetti dell’analisi agli altri cambiamenti strutturali che la finanziarizzazione implica nella regolazione del rapporto salariale, sia che si tratti della governance delle imprese o del nuovo ruolo giocato dal risparmio delle amministrazioni e dai fondi pensione. Più in generale, i contributi qui raccolti si organizzano attorno alle seguenti domande. L’evoluzione attuale dell’organizzazione del lavoro e dell’economia della conoscenza corrisponde all’esaurimento della logica secondo la quale, seguendo Smith, si presume che la divisione tecnica del lavoro agisca sulla produttività e promuova il cambiamento tecnico e organizzativo? A questo riguardo, si può affermare che il modello della fabbrica degli spilli non sia stato in ultima istanza che una parentesi storica all’interno della dinamica del capitalismo? Se la risposta è affermativa, in che senso la diffusione e il ruolo primario del sapere definiscono l’apertura verso un XXI secolo postsmithiano? E quale sarebbe allora il modello che, alla stregua dell’esempio smithiano della fabbrica degli spilli per l’avvento del capitalismo industriale, potrebbe sintetizzare, con alcuni fatti stilizzati (nel senso di Kaldor), le nuove determinanti della divisione del lavoro e del progresso tecnico nell’ambito del capitalismo cognitivo? I diversi modelli che le teorie della crescita endogena e di una knowledge based economy hanno elaborato, spiegano il cambiamento attuale della divisione del lavoro e del nuovo ruolo giocato dalla conoscenza? In che modo, infine, lo sviluppo dell’economia della conoscenza è all’origine di nuovi dualismi che riguardano il mercato del lavoro e la specializzazione nella produzione delle nazioni e dei territori? La globalizzazione finanziaria sarebbe dunque indipendente dalle trasformazioni che colpiscono i rapporti di lavoro? O, al contrario, gli sconvolgimenti che la crisi sociale del fordismo ha provocato nella divisione del lavoro e nel rapporto salariale hanno giocato un ruolo primario nella finanziarizzazione del capitalismo contemporaneo? Quali sono le forme di articolazione e di captazione del sapere da parte del capitale finanziario? Quali sono i possibili scenari di evoluzione della regolazione del rapporto salariale e del sistema di protezione sociale nel nuovo capitalismo? Quale ruolo potrebbe qui giocare lo sviluppo dell’azionariato salariale e dei fondi pensione? Esiste un’alternativa al modello americano di cui l’Europa potrebbe essere portavoce? Infine, queste trasformazioni delle sfere produttive e finanziarie, non dovrebbero far nascere una riflessione sulla necessità di nuove norme di distribuzione? In particolare, la questione di un reddito garantito che sia indipendente dall’impiego, non potrebbe trovare nuovi fondamenti teorici nella considerazione del carattere sempre più sociale della crescita della produttività e delle esternalità positive legate alla diffusione e al ruolo motore del sapere? Per rispondere a queste domande, questo lavoro si propone di coniugare teoria e storia economica recuperando una visione centrata sulla dinamica a lungo termine del capitalismo. Questa prospettiva storica sembra tanto più necessaria se si considera che il capitalismo contemporaneo, sebbene segni una rottura con le tendenze della divisione del lavoro promosse dalla prima rivoluzione industriale, presenta numerose analogie con la struttura del capitalismo anteriore alla prima rivoluzione industriale. Il piano di questo lavoro si articola in tre parti, destinate a rendere conto dei diversi aspetti e delle diverse implicazioni che le trasformazioni della divisione del lavoro hanno sulla finanziarizzazione e la regolazione del rapporto salariale. La prima parte, Dal capitalismo industriale all’economia della conoscenza: verso un XXI secolo postsmithiano?, si interroga sull’ipotesi di una nuova tappa storica della divisione del lavoro corrispondente all’avvento di un’inedita forma di capitalismo, definita col termine di capitalismo cognitivo da alcuni degli autori dei contributi qui raccolti. Ne deriva un dibattito centrato tanto sull’importanza delle fratture intervenute rispetto alla logica dello sviluppo del capitalismo industriale quanto sull’impatto di una «economia fondata sulla conoscenza» sulle trasformazioni del rapporto salariale. La seconda parte, Trasformazione della divisione del lavoro e mercati finanziari, tratta una delle questioni più complesse (e meno analizzate) che riguarda i rapporti dinamici tra le trasformazioni della divisione del lavoro e le cause dell’attuale processo di finanziarizzazione. La terza parte, Trasformazioni della divisione del lavoro e nuove norme di distribuzione: il reddito sociale garantito (RSG), si propone di articolare l’analisi delle trasformazioni della divisione del lavoro e del processo di valorizzazione del capitale con la riflessione sulle nuove norme di ripartizione e ridistribuzione del reddito. Il problema centrale qui affrontato riguarda un reddito sociale garantito che sia indipendente dall’impiego e le cui basi poggino sull’analisi dei cambiamenti dell’organizzazione sociale della produzione. Bernard Paulré, infine, tenta nella sua postfazione una sintesi del dibattito sull’esaurimento del capitalismo industriale e i cambiamenti della divisione del lavoro ponendo l’accento sull’esistenza di due paradigmi alternativi, il capitalismo cognitivo e il capitalismo finanziarizzato.
mercoledì, giugno 28, 2006
A proposito di Precarity Web Ring
Introduzione
Il progetto del WebRing per la comunicazione e la ricerca militante sulla precarietà è una piattaforma aperta e un network in progress che connette ricerche militanti sulla precarietà e attivisti già interni alle mobilitazioni dell’EuroMayDay. Il Precarity_WebRing si propone di unire siti e weblogs di conflitti sul lavoro e di lotte sulla precarietà della vita, con l’obiettivo di creare uno spazio di discussione, ricerca e azione politica. Ciò dà la possibilità di costruire pratiche, concetti e nozioni comuni, di sviluppare progetti di ricerca militante “con” (anziché “su”) i soggetti precari e le loro/nostre lotte. Il progetto intende produrre e condividere saperi, esperienze e materiali, raccogliere informazioni e pratiche sui collettivi e sui conflitti, e diffondere notizie, analisi e inchieste. Intende realizzare progetti di conricerca militante in forme radicalmente alternative alla ricerca accademica o alle tradizionali inchieste operaie. La conricerca militante è al contempo produzione di conoscenza, soggettività, cooperazione e autorganizzazione politica. È un’inchiesta “per” e “dentro” le azioni politiche e i conflitti sociali. Il P_WR si propone di costruire una mappa delle condizioni di precarietà di vita e lavoro in Europa con l’obiettivo di visualizzare e intensificare la densità dei gruppi militanti, delle lotte e delle azioni politiche. Questa mappa sarà presente sull’interfaccia grafica del sito web del P_WR e consisterà di differenti livelli interconnessi, costruiti “step by step”.
Qui i tre step in dettaglio.
Né "salaristi" né "redditisti"
È ora di mettere fine alle guerre di religione. La lotta all'ultima goccia di inchiostro tra «salaristi» e «redditisti», oltre ad essere noiosa, è incomprensibile. Come si fa a sostenere che la rivendicazione di un reddito sganciato dal lavoro produce divisione di classe e indebolisce le lotte per l'occupazione? È come dire che la rivendicazione della libertà per i detenuti impedisce il miglioramento delle condizioni in carcere. Pura follia. Dall'altra parte, se qualcuno pensa che chiunque rivendichi la stabilizzazione della propria posizione occupazionale è un vandeano, forse avrebbe bisogno di qualche corso di sano materialismo. Insomma, parlando di precariato, il primo obiettivo è evitare nefaste riproposizioni di teorie delle due società.
Piaccia o no, le «garanzie del fordismo» sono definitivamente tramontate.
Non perché le persone non vogliano un contratto a tempo indeterminato, ma perché non sono disposte a scambiare la loro vita con l'ergastolo del lavoro. Consigliamo di leggere «Le nouvel esprit du capitalisme» di Boltanski e Chiappello. Analizzando la letteratura padronale negli anni settanta e novanta, i due autori scoprono che il termine «flessibilità» ricorre con un rovesciamento di senso: se negli anni settanta, nel periodo dell'insubordinazione operaia, dell'assenteismo di massa e della fuga dal lavoro salariato esso assume i colori del terrore e della
disperazione, vent'anni dopo torna come salvifica ricetta di qualsiasi politica del lavoro.
Talvolta si ha l'impressione che chi chiede di tornare alle «garanzie fordiste» abbia letto solo la seconda parte del libro. Quando il lavoro vivo porta alle estreme conseguenze le retoriche del «capitalismo postfordista», quando flessibilità, mobilità, imprevedibilità e infedeltà contrattuale cessano di essere minacciose parole d'ordine delle imprese per diventare armi nelle mani dei lavoratori, equilibri e compatibilità del mercato saltano. Il problema è la rivendicazione di parzialità, non per ritornare a garanzie [di sfruttamento] sfondate dai conflitti prima ancora
che dalla controrivoluzione capitalistica, bensì per affermare nuovi diritti. In questo senso, lotte per il contratto a tempo indeterminato e conflitti per il reddito e la mobilità non solo non sono al ternativi, ma possono produrre un circolo virtuoso. Il dibattito non può riprodursi nella separazione: deve alimentarsi all'interno del corpo vivo della composizione di classe e delle sue forme di resistenza. Dopo averla spesso evocata, dobbiamo cominciare davvero a fare inchiesta militante. Abbiamo visto organizzazioni politiche qualificarsi come partiti dell'inchiesta, intesa esclusivamente come pregiato orpello. Ma non stiamo parlando di una semplice attività scientifica, che nella classica suddivisione dei compiti consegna al sindacato o al partito l'utilizzo della conoscenza prodotta. La ricerca militante è attività politica, collocata dentro e tendenzialmente oltre la crisi della rappresentanza. O così, oppure torniamo agli intellettuali organici...
Da mesi all'interno dell'EuroMayDay process si sta costruendo una rete di esperienze di conricerca, il Precarity Web Ring [www.precarity-map.net]: assumendo lo spazio europeo come terreno di azione, l'obiettivo è cartografare le soggettività, connettere i conflitti, produrre lessici comuni e sperimentare nuove forme di organizzazione. Servono intelligenze, impegno militante e risorse, anche economiche. Il terreno dell'inchiesta può essere un banco di prova per un nuovo rapporto tra movimenti e sistema politico e sindacale, che dopo Genova ha progressivamente segnato un punto di crisi. Il tempo delle parole e dei buoni propositi è finito, ci vogliono fatti e risposte concrete.
Stanchi delle guerre di religione, chissà che questa non possa essere l'occasione per una piccola pace di Westfalia...
martedì, giugno 27, 2006
il manifesto, crisi vera
"Ci risiamo", tutti i lettori de il manifesto probabilmente l'hanno pensato quando hanno letto che il quotidiano è nuovamente in crisi finanziaria... ma probabilmente il fatto è che non ne è mai uscito, anche quando lanciava campagne per salvarlo dalla scomparsa e queste hanno funzionato in pratica si era riusciti a passare indenni da un'emergenza, ma comunque i conti generali non miglioravano. Questa volta il problema sembra ineluddibile, si rischia davvero. Così in alcuni abbiamo pensato di lanciare anche noi una colletta per mandare il nostro contributo al manifesto, una cosa fra amici senza pretese. Però ci sembra importante, perchè se il manifesto non è e sarà il giornale perfetto, se spesso girano un poco le palle per certe posizioni (tipo una deriva un pò lavorista sulla questione precarietà), la sua scomparsa ci lascerebbe imbarazzati a presentarci all'edicola a chiedere un quotidiano.
Io il manfo - nomignolo più confidenziale - lo leggo da un botto, precisamente dal 1994, e qui invito gli internauti che passano da finoquituttobene a mettere una mano sul cuore e una sul portafoglio.
Insomma, io non riesco a immaginarmi una colazione degna senza il manifesto.
Qui ci spiegano come sono saltati i conti, nonchè come dare una mano.
Black Block: subvertising+kaos
Vi ricorda qualcosa? Certo, ma niente di associabile al immaginario black block che ricordavo sopra, anzi... gioco, creatività, leggerezza...
Così si presentano:
Ci muoviamo nel campo della comunicazione in modo politicamente scorretto, disinteressati di far parte di una opposizione ragionevole perche' molto semplcimente non c'e' nulla di ragionevole in un sistema che propone il consumo come stile di vita.
La pubblicita' fa questo, nulla di piu' nulla di meno, se vi illudete che vogliano vendervi dei prodotti avete sbagliato binario... i prodotti cambiano ma il messaggio resta ed il messaggio e' semplice: consuma!
I classici strumenti della controinformazione ci stanno stretti perche' alla la follia della comunicazione pubblicitaria non si puo' rispondere che con una follia parimenti strutturata che sputi in faccia i resti della suggestione delle merci e dei consumi.
Di fronte alla falsita' reagiamo con la falsificazione creativa e se ci riusciamo noi... buona guerriglia semiotica a tutte e tutti!
Pagherete caro, pagherete tutto
Niente di nuovo, ma comunque è bene tenersi ripassati certi argomenti...
Passeggiando per Piazza Vittorio, la china-town romana, è possibile infilarsi in uno dei tanti negozi privi di insegne gestiti da cinesi e acquistare un paio di scarpe da ginnastica del tutto simili a quelle dei brand più noti per meno di 20 euro. Ad un primo sguardo quelle scarpe sembrano realizzate in maniera più approssimativa di quelle messe in commercio da Reebok o Adidas. Ma se osserviamo da vicino i materiali, le cuciture, le colle alla ricerca di un dettaglio che ci mostri in maniera definitiva che siamo di fronte a produzioni più scadenti, restiamo delusi. I nostri occhi finiscono per arrendersi nel constatare che, a parte discutibili valutazioni sul design, quel paio di scarpe sono esattamente le stesse che potremmo acquistare in un Nike Store per 200 euro. E’ innegabile però che l’impatto percettivo tra un paio di scarpe cinese e un paio di AirMax complete di swoosh sia completamente diverso. C’è un marchio, un contesto di vendita e un brand value che ridefiniscono e sovradeterminano la nostra percezione di quel paio di scarpe.
Uno dei più riusciti manifesti di Adbusters riproduce un paio di sneaker con su scritto al tratto: “Nike 250$, sweatshop 83 cent”.
Ed effettivamente la questione è brutalmente semplice: lo stesso paio di scarpe che noi paghiamo 250 euro, costa meno di un euro quando esce dalle fabbriche subappaltatrici del terzo mondo. Ma costa meno di un Euro in entrambi i casi: sia che finisca in un negozio cinese a Piazza Vittorio a Roma, sia che arrivi nel Nike Town di Chicago. Quel paio di scarpe costa così poco perché come è noto in quelle fabbriche gli operai non hanno alcun tipo di diritto sindacale e sono spesso sottoposti a forme di sfruttamento quasi schiavistiche.
Noi fortunati occidentali spendiamo 200 euro per uno stupido paio di sneaker in un punto vendita luminoso e spensierato mentre dall’altra parte del mondo qualcuno sta sputando sangue intossicato dai veleni della gomma. A questa contraddizione si risponde allora con la critica serrata al potere dei marchi, responsabili dell’innalzamento dei prezzi e dello sfruttamento del lavoro. Ma le scarpe senza logo di Piazza Vittorio sembrano dirci molto di più di questo: pur senza marchio, pur se vendute ad un costo pari a un decimo delle nobili sorelle marchiate, quelle sneaker sono anch'esse prodotte in condizioni inumane, le sole che gli permettono di costare così poco. Le sneaker di Piazza Vittorio, da questo punto di vista, rappresentano il grado zero della marca e ci dimostrano che il rapporto tra logo e sfruttamento non è un rapporto di continuità diretta.
La contraddizione fra Nike e sweatshop rischia quindi di nascondere dietro ai nostri occidentalissimi sensi di colpa un secondo livello di contraddizioni che, seppure in una dimensione del tutto diversa e assolutamente non paragonabile, ci riguarda altrettanto da vicino.
La prima contraddizione, quella che porta le scarpe da 1 a 20 euro, è tutta spiegabile in termini marxiani come sfruttamento del lavoro per la massima estrazione di plusvalore. L’unica risposta adeguata in questo caso è la lotta di classe, una lotta da svilupparsi negli stessi sweatshop in cui il lavoro viene sfruttato.
La seconda contraddizione invece, quella che porta il prezzo delle scarpe da 20 a 200 euro, è tutta interna alle nuove forme di produzione dell’occidente e ha a che vedere con un’inedita modalità di sfruttamento. Uno sfruttamento che non avviene più negli spazi e nei tempi del disciplinamento produttivo del lavoro ma al suo esterno, attraverso la propriazione da parte dei grandi marchi del valore di innovazione e riproduzione d’immaginario che viene prodotto dalla società nel suo insieme.
Quando compriamo una merce di marca stiamo quasi sempre ricomprando l’immaginario che noi stessi abbiamo prodotto e che qualche cacciatore di tendenze ha sapientemente pescato dalla strada per poi impacchettarlo e rivendercelo per dieci volte il suo valore. Tutte le volte che gli umani si incontrano e si scontrano, tutte le volte che producono conflitto o scoprono una nuova pace ecco apparire i cool hunter, spie e crumiri pronti a formalizzare in un brand l’innovazione linguistica e culturale prodotta.
Si tratta di una vera espropriazione unilaterale dell’economia, di uno sfruttamento non retribuito del lavoro sociale diffuso al quale si aggiunge un ulteriore lavoro: quello del consumatore che vivifica l’identità di marca continuando a indossare quel logo, quel marchio, quell’immaginario… in fin dei conti quasi una sorta di schiavismo immateriale. Rispetto a questo processo diviene allora necessario inventare una nuova forma di rigidità operaia, una rigidità che individua nella produzione di immaginario e nel consumo un momento produttivo centrale e che passa per un’indisponibilità a produrre e riprodurre il valore marchio a titolo gratuito.
naro_naro_serpica_naro segui il coniglio rosa!!!
Ovunque andrà Serpica sarà per sempre un "mito". Questo sotto è un articolo appena uscito su Moltitudes che traccia brevemente nascita ed evoluzione del progetto Serpica Naro.
Serpica Naro: la beffa dei precari contro il sistema moda.
26 febbraio 2005: la prestigiosa Settimana della Moda di Milano volge al termine. Il piccolo mondo dello moda è in effervescenza e attende con impazienza la sfilata di una giovane creativa ancora sconosciuta, che farà parlar molto di sé. Poiché Serpica Naro, sedicente giovane, può vantare un profilo ideale per sedurre l’ambiente disincantato del lusso e dei media. Oltre alla sua giovinezza, questa “creatura rimbaldienne dell’alta moda” vanta infatti una doppia nazionalità anglo-nipponica, un cosmopolitismo alla moda che non può che piacere, e coltiva già con delizia l’arte della provocazione e dell’autopromozione.
Attraverso le sue creazioni, pretende di “render sexy” e nobilitare un nuovo modello di vita urbana, quello della precarietà! La sua collezione promette d’essere “fashion” e rivoluzionaria. Il suo slogan («We are the new class”) e le voci curiose sapientemente fatte trapelare ad arte dal suo ufficio stampa han poi fatto crescere la tensione. Serpica Naro, infatti, prima avrebbe tentato di affittare uno dei più importanti centri sociali della città per proporvi la sua sfilata, e successivamente avrebbe lanciato negli ambienti omosessuali un appello di reclutamento di persone affette dal virus dell’ HIV per fungere da mannequins . Scioccati da questo tentativo di banalizzazione, gli ambienti militanti e precari di Milano hanno quindi organizzato una contestazione per impedire la sfilata
Il giorno X le forze dell’ordine sono in febbrile attesa e dozzine di poliziotti presidiano il perimetro della manifestazione. Ma quando il corteo dei contestatori sfocia in prossimità della sfilata, i responsabili della DIGOS non credono ai propri occhi: le modelle della stilista e il suo addetto stampa fanno parte del gruppo dei manifestanti e uno dei partecipanti ha in mano il contratto di locazione del parcheggio dove è installato il tendone che accoglierà l’evento.
Basteranno alcuni minuti ai media presenti e al capo della polizia per realizzare che Serpica Naro non esiste, che è un anagramma di San Precario, il falso santo protettore dei precari inventato un anno prima dagli attivisti della crew Chainworkers. Ben reale invece la collezione di moda di Serpica Naro che viene presentata in un vero e proprio happening, rivelando creazioni per lo meno insolite come un modello destinato alle donne incinte che cercano di nascondere la loro gravidanza per evitare il licenziamento, una tuta da lavoro reversibile in pigiama per poter passare la notte in ufficio o ancora una divisa per chi lavora dentro il fast food la mattina e nel call center il pomeriggio. L’affaire avrà una grande eco tanto che il direttore della Camera della Moda, i cui uffici hanno ufficialmente accreditato la falsa stilista, sarà obbligato in seguito a scusarsi con i suoi sponsor, mentre più d’uno fra i più noti creatori di moda si ripropone di sfruttare l’opportunità comprando il nuovo brand.
La beffa, strumento del movimento sociale e dell’immaginario radicale
Dietro a questa beffa audace ed echeggiante- una delle azioni di disturbo politiche più sofisticate di questi ultimi anni - si nasconde effettivamente il primo movimento auto-organizzato dei precari dell'industria della moda. Per circa un mese, più di uno centinaio di piccole mani – che per la maggior parte fino ad allora a non avevano mai avuto un impegno politico - hanno contribuito attivamente alla sua preparazione. Poiché nel retro del fasto delle sfilate, delle top-model, delle star dello stile e dei miliardi di euro che rappresenta la moda nell'economia milanese, ci sono migliaia di precari, dipendenti saltuari per salari appena di cinque euro all'ora, che rendono possibile lo svolgimento quattro volte all'anno della famosa settimana della moda. Milano, capitale economica d’Italia e cuore dell’Impero mediatico politico di Silvio Berlusconi, sogna in effetti di fondare la sua fama internazionale attraverso l’industria del lusso. Tutto per detronizzare Parigi e ridare lustro all’immagine della città lombarda.
I budget municipali stanziati per la cultura sono stati decurtati drasticamente e le somme così risparmiate sono state reinvestite a sostegno del settore della moda. Monumento alla gloria della moda e del design, il progetto di una grande città della moda sulla base della speculazione finanziaria/fondiaria e della gentrificazione dei quartieri popolari sono all’ordine del giorno. Ma Milano è prima di tutto la precarietà a oltranza, dove circa i tre quarti dei minori di 35 anni lavorano sotto il regime dei contratti atipici, questo precariato messo in atto dalla destra, perpetrato dalla sinistra e in seguito consolidato sotto Berlusconi, ci dice Alex Foti, creatore della May Day Parade, il primo maggio alternativo dei “flexworkers” che ha riunito 120.000 partecipanti nella città l’anno scorso ed ha attecchito a macchia d’olio nelle numerose capitali europee.
Serpica Naro, come San Precario, sono nati per riscattare i precari dal loro isolamento e creare una forza rivendicatrice all’interno di quei mestieri dove è impossibile organizzarsi sindacalmente senza rischiare delle pesanti misure di ritorsione, aggiunge Zoe, grafica free-lance e altro pilastro del movimento. “Noi vogliamo precarizzare chi ci precarizza, e siccome è proprio il nostro isolamento che costituisce la loro forza, noi abbiamo scelto di ricorrere alla potenza del simbolico e dell’immaginario creando una figura libera e collettiva nella quale chiunque potesse incarnarsi senza perdere la propria specificità; un nome multiplo che permetta a ciascuno di agire preservando il suo anonimato” continua Zoe. “Per noi”, precisa ancora Zoe,”la beffa non costituisce il fine primario dell’azione.
La beffa non è altro che uno strumento tra tanti nel processo di creazione di immaginari radicali forti per costruire un movimento sociale fuori dai sindacati e dai partiti istituzionali, che non si sono nemmeno disturbati per la nostra situazione. Nel caso Serpica Naro, la beffa è stato senza dubbio il mezzo più adatto per far capire il nostro messaggio all’interno dell’ambiente molto particolare della moda, del design e della comunicazione. L’immagine un po’ puttaniera e molto controversa di Serpica è stata costruita per questo fine: sedurre un ambiente molto superficiale e comunque sottoporlo alla finzione della trasgressione, e allo stesso tempo mettere in scena un preteso antagonismo coi movimenti di protesta che abbiamo cercato di far passare per arcaici e retrogradi”.
Alle firme dell’alta moda che dispongono di budget colossali per la comunicazione, noi abbiamo dato dimostrazione, con qualche migliaia di euro soltanto (spesi essenzialmente per l’affitto e il riscaldamento della location della sfilata), che la settimana della moda non è così prestigiosa e che i nostri nemici hanno le loro debolezze. “In altri tempi, la nostra reazione avrebbe potuto essere quella di rompere delle vetrine. Quell’epoca ormai è passata e noi abbiamo scelto di rompere le vetrine dell’immagine, quelle di una Milano vampirizzata dalla moda”, conclude Frankie, un altro ideatoredi Serpica Naro.
Comincia il post beffa!
La cosa si sarebbe potuta concludere là, e il falso della Settimana della Moda alla fine sarebbe stato solo un’incursione mediatica effimera e senza conseguenze, se i suoi ispiratori non avessero cominciato ad estendere l’esperienza anche al di là della kermesse modaiola facendo ricorso ad altre forme d’azione, più concrete ma altrettanto creative. Dopo la beffa dell’anno scorso, almeno una trentina di persone, inserite nella fitta trama del movimento milanese, hanno infatti deciso di continuare ed arricchire il progetto costituendo quattro gruppi di lavoro. Uno di questi ha preso la forma di un atelier di moda che permette ai partecipanti di concepire e realizzare i propri capi d’abbigliamento. Un altro si occupa dello sviluppo del sito (www.serpicanaro.com) per farne una comunità dove i giovani stilisti possano condividere saperi ed esperienze, scambiarsi consigli e pratiche di auto produzione per diffondere il principio di un’economia fondata sul capitale sociale piuttosto che sul capitale finanziario.
Un terzo gruppo si concentra sulla preparazione delle azioni da realizzare durante le scadenze ufficiali. Serpica Naro quest’ anno ha scelto di non sfilare, per non ripetere le proprie gesta e per evitare di dare vita ad un rituale militante senza creatività. Ciononostante il gruppo continua a disturbare la Settimana della Moda con la propria presenza attivista. Prima vittima di quest anno: la nota casa di moda di Enrico Coveri che, resasi conto che il marchio Serpica Naro non era stato depositato a livello internazionale, ha deciso di impadronirsene registrandolo unilateralmente.
Ma mal gliene incolse! A fine Febbraio 2006 la sua sfilata milanese è stata infatti oggetto di un happening punitivo da parte dei precari che non hanno avuto difficoltà a metterne in ridicolo l’immagine negli ambienti della moda. Il quarto gruppo di lavoro, infine, si dedica specificamente ai temi della proprietà intellettuale e del libero accesso alla conoscenza. La posta in gioco è più che considerevole nell’universo del lusso e della moda dove molto spesso è la marca in sé stessa a costituire il valore di un’impresa e la ragione principale dei suoi margini di profitto. Ma la questione è del resto altrettanto centrale per Serpica Naro che, obbligata l’anno scorso a depositare il marchio per ottenere i permessi dalle autorità milanesi, non aveva alcuna intenzione di trovarsi inserita passivamente in quella logica commerciale che contesta radicalmente. Era quindi necessario fare di questa anomalia un punto di forza.
Ispirandosi ai principi che sottostanno allo sviluppo del software libero e all’esperienza acquisita dai loro amici danesi di Superflex , i promotori della stilista virtuale hanno così deciso di fare di Serpica Naro un marchio liberato, “una versione generosa del trademark, tutti coloro che vi si riconoscono possono parteciparvi, “un processo open-source” o ancora, come il refrain di una recente dichiarazione del gruppo “una produzione autonoma di senso, un metodo di condivisione, apertura pubblica dei ‘codici’, liberazione e messa in rete di competenze e intelligenze.” Concretamente il marchio Serpica Naro è adesso gestito attraverso una licenza collettiva inedita che prevede che ciascun prodotto con quel marchio e quel nome sia liberamente e gratuitamente riproducibile e modificabile. L’uso artigianale del marchio è totalmente libero, a condizione di mettere in condivisione i suoi utilizzi all’interno della community www.serpicanaro.com.
Il suo utilizzo a fini industriali è ugualmente aperto ma vincolato al rispetto dei principi enunciati nella licenza, dall’applicazione dei diritti del lavoro e sociali all’osservanza di alcune basilari regole etiche. Ormai vero e proprio ‘media sociale’ e ‘meta brand’, Serpica Naro comincia così a mettere in connessione una rete informale di persone e gruppi – sia in Italia che negli altri paesi europei - desiderosi di detournare il sistema di creazione della moda, spostandolo dai meccanismi produttivi e commerciali classici fondati sullo sfruttamento del lavoro ad un sistema fondato sull’intelligenza collettiva e sul desiderio di ciascuno. Autrice del falso originario che ha dato inizio ad un’autentica mobilitazione all’interno di un settore fino ad allora caratterizzato dall’assenza di antagonismo sociale, Serpica Naro è un caso raro ma emblematico di come l’intervento sull’immaginario possa produrre degli effetti concreti sul reale.
Traduzione a cura di SerpicaNaroCrew
Sono tornato...
In omaggio a questa terra e alle sue genti...
Creuza de ma
Umbre de muri, muri de maine' dunde ne vegni, duve
l'e' ch'a ne': de'n scitu duve a luna se mustra nua e
neutte n'a' puntou u cultellu a gua;
e a munta l'ase gh'e' restou Diou, u Diau l'e' in pe e u s'e' gh'e' faetu
niu; ne sciurtimmu da u ma pe sciuga' e osse da u Dria,
a funtana di cumbi 'nta ca de pria.
E andae, andae, anda ayo; e andae, andae, anda ayo.
E 'nt'a ca de pria chi ghe saia, int'a ca du Dria che u nu l'e' maina': gente de Lugan, facce da mandilla, qui
che du luassu preferiscia l'a; figge de famiggia udu de bun che ti peu ammiale senza u gundun.
E a 'ste panse veue cose che daia, cose da beive, cose da mangia?
Frittua de pigneu giancu de Purtufin,
cervelle de bae 'nt'u meximu vin,
lasagne da fiddia ai quattru tucchi,
paciugu in aegruduse de levre de cuppi.
E 'nt'a barca du vin ghe naveghiemu 'nsc'i scheuggi,
emigranti du rie cu'i cioi nt'i euggi. Finche' u matin
crescia da pueilu recheugge fre di ganeuffeni e de figge.
Bacan d'a corda marsa d'aegua e de sa che a ne
liga e a ne porta 'nte 'na creuza de ma.
mercoledì, giugno 14, 2006
Liberiamo le nostre vite: Liber* Tutt* Liber* Subito
Porta Venezia luogo da cui tre ore dopo sarebbe partito il corteo della formazione nazifascista Fiamma Tricolore, partito politico legittimato dalla destra istituzionale che si definisce democratica ma sembra molto di più populista e reazionaria. Corteo sul quale c'è stato il silenzio completo di tutte le forze politiche e della società civile. L'unica risposta possibile a questo ritornello di riesami respinti, durato per l'intera campagna elettorale delle amministrative e proseguito per le comunali milanesi, è una battaglia di libertà.
In gioco ci sono le nostre vite e non solo quelle di 25 persone rinchiusi in carcere.
Apriamo una battaglia di libertà che si può esprimere forte e prorompente al corteo nazionale di sabato 17 giugno a Milano.
«Droga, stop subito alla legge»
ROMA. Stop al «giro di vite» sulla droga: il governo vuole cambiare la legge Fini-Giovanardi. Paolo Ferrero, ministro della Solidarietà sociale e neo-titolare del dipartimento sulla tossicodipendenza (prima affidato a Palazzo Chigi) annuncia: «Il nostro obiettivo è rifare la legge, cioè arrivare a una modifica complessiva della normativa che contempli l’abrogazione della legge 49 e ridisegni l’intervento in materia di droghe».
E’ quasi pronto un provvedimento che neutralizzi gli effetti delle tabelle sulla tossicodipendenza introdotte dal precedente esecutivo. «Ferrero riferisca in Parlamento le sue proposte», protesta Carlo Giovanardi, autore insieme a Gianfranco Fini delle norme che il nuovo governo vuole modificare. Il ministro annuncia un «atto che riesca a dare un segnale immediato» il testo su cui sta lavorando insieme ai colleghi della Salute Livia Turco e dell’Interno Giuliano Amato. «Sarà un atto che blocchi quanto avvenuto dopo la pubblicazione delle tabelle - spiega Ferrero - neutralizzeremo gli effetti della legge. Quale atto ancora non sappiamo, ma sarà un provvedimento che pratichi una riduzione del danno rispetto alle norme vigenti».
Due i filoni su cui il governo intende muoversi. «Da una parte la netta separazione delle droghe leggere da quelle pesanti - precisa Ferrero -: i giovani non sono consapevoli della pericolosità delle diverse sostanze, come dimostra il dato drammatico dell’aumento del consumo di cocaina. Quindi bisogna fare una distinzione tra le sostanze sia sul piano legislativo sia su quello informativo ». Secondo passo: «La depenalizzazione del consumo deve accompagnarsi al superamento delle misure amministrative».
Insomma, puntualizza Ferrero, «la depenalizzazione del consumo e l’abolizione delle sanzioni amministrative per i consumatori è la condizione per poter costruire un vero confronto sulla pericolosità effettiva delle sostanze e per aprire una discussione seria sugli stili di vita». Il ministro non indica che natura sarà l’atto legislativo allo studio per neutralizzare gli effetti della Fini-Giovanardi, ma ribadisce di «non ritenere opportuno utilizzare strumenti che nei fatti violino la sovranità del Parlamento con metodi che non condividiamo ». E ciò perché «il fine non giustifica i mezzi. Bisogna trovare una strada pulita». Dura la reazione dell’ex ministro Giovanardi, che invita Ferrero ad andare in Parlamento per discutere alle Camere le sue proposte sulla droga.
«Nel frattempo - evidenzia Giovanardi - la legge in vigore, che non sta procurando nessuno degli effetti negativi denunciati a suo tempo dalla sinistra, deve essere applicata per un tempo ragionevolmente lungo per poterne verificare l’efficacia». Con una stoccata finale: «Ferrero spieghi piuttosto al Parlamento perché sta smembrando gli uffici del Dipartimento per le politiche antidroga, impedendogli di svolgere adeguatamente i compiti che l’Italia si è impegnata a svolgere firmando le convenzioni dell’Onu sulla lotta alla droga».
«E’ necessario separare seccamente lo spaccio dal consumo. Verso lo spaccio occorre attuare una strategia repressiva, a partire dal narcotraffico gestito a livello internazionale dalle mafie - ribatte Ferrero -, verso i consumatori occorre invece aprire il dialogo, a partire dalla depenalizzazione delle condotte legate al consumo e dal superamento delle sanzioni amministrative verso i consumatori. Ma perché un ragazzo che si fuma uno spinello deve rischiare la galera o il ritiro della patente?». Un taglio netto con il precedente esecutivo. «Al contrario di quello che ha fatto il governo Berlusconi occorre distinguere nettamente tra droghe leggere e droghe pesanti, smettendola con i polveroni ideologici che non permettono di distinguere l’effettiva grave pericolosità delle droghe pesanti - conclude Ferrero -. Occorre aprire il dialogo così come occorre potenziare l’intervento sul territorio a partire dal potenziamento dei Sert in risorse e personale».
martedì, giugno 13, 2006
Regione Lombardia: razzismo istituzionale e call center
La gravità di questa legge regionale dovrebbe preoccuparci tutti, lombardi o meno.
Ora si registrano le prime reazioni di protesta dei gestori ma anche dei clienti di questi call center, in attesa di individuare forme di protesta che sappiano essere incisive e portare a una ridiscussione della legge.
Atesia, il ministro del lavoro, la polizia
Il Ministro del Lavoro Cesare Damiano rifiuta di ricevere i precari di Atesia e chiede l’intervento della Polizia.
Solo alla fine della giornata la sottosegretaria Rosa Rinaldi incontra una delegazione del collettivo Precariatesia.
Questa mattina, dalle ore 10.30, si è tenuto il presidio delle lavoratrici e dei lavoratori precari del call center di Atesia. Ancora una volta, come 10 giorni fa, il Ministro Cesare Damiano ha rifiutato di incontrare una delegazione dei precari in presidio.
Alle 12,30 il ministro ha richiesto l’intervento della forza pubblica per impedire l’accesso al ministero della delegazione. Le lavoratrici e i lavoratori precari, su ordine del Ministro, sono stati spintonati dalla polizia e gli accessi al ministero sono stati sbarrati per impedire il passaggio al suo interno, un manifestante è stato colto da malore ed è stato portato con l’ambulanza al pronto soccorso. A quel punto, vista la decisione del Ministro, i precari hanno mantenuto il presidio davanti al ministero occupando via Veneto. Solo intorno alle 14 una delegazione dei precari è stata ricevuta presso la sede della Provincia di Roma dalla sottosegretaria al Ministero del Lavoro, Rosa Rinaldi.
Il comportamento di Cesare Damiano, che rifiuta il dialogo con i lavoratori mentre apre le porte del ministero ai rappresentanti di Federcomin, del quale Alberto Tripi è il presidente, e ai rappresentanti dei sindacati Cgil-CIsl-Uil responsabili degli accordi contro i quali i precari di Atesia stanno lottando da più di un anno, pone seri dubbi sulle intenzioni del nuovo ministro in merito alla vertenza Atesia e più in generale sul problema della precarietà.
Non vorremmo che il Ministro si stia già avviando a ribaltare gli esiti delle verifiche dell’ispettorato del lavoro di Roma, che ha già definito illegittimi i contratti a progetto in uso in Atesia, per favorire l’amico Alberto Tripi, grande elettore della Margherita, che si è già candidato ad intercettare buona parte degli appalti futuri dell’amministrazione pubblica e degli enti locali, tutte istituzioni oramai saldamente gestite dal centro sinistra.
Diversamente, se questo ministero intende seriamente prendere posizione, al fine di trovare una soluzione positiva della vertenza, deve impegnarsi per l’immediato reintegro di tutti i lavoratori non riconfermati, nonchè dei 5 lavoratori licenziati nel corso dell’ultimo anno di lotta, e per l’immediata trasformazione degli illegittimi contratti a progetto in contratti a tempo indeterminato.
E ciò deve passare per il confronto diretto con i lavoratori e le lavoratrici, rappresentati dal Collettivo PrecariAtesia, protagonisti/e della vertenza. Confronto che i precari e le precarie di Atesia sono determinati a conquistare con nuove e più incisive iniziative di lotta.
Roma, 9 giugno 2006
venerdì, giugno 09, 2006
Ordigni nucleari USA NATO in Italia. I pericoli nel cortile di casa
Qui di seguito un appello di Greenpeace per lo smantellamento dell'armamentario nucleare in Europa.
Sei paesi europei - Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi,Turchia e Regno Unito - ospitano, in base agli accordi NATO sulla "condivisione nucleare", 480 bombe sotto il controllo diretto degli degli Stati Uniti. Ognuna di queste bombe rappresenta un pericolo evidente e reale, comporta il rischio di incidenti ed è un potenziale obiettivo.
In Italia, le basi di Aviano e Ghedi Torre - che possono essere operativamente impiegate sia per obiettivi in Medio Oriente che per quelli nella Federazione Russa - rappresentano un bersaglio militare che mette potenzialmente in grave rischio le popolazioni di una vasta area. Dopo l'ultima revisione del Nuclear Posture Review del Pentagono, gli USA non escludono la possibilità di impiegare armi nucleari per prevenire un attacco nucleare imminente o potenziale o per evitare che altri paesi possano dotarsi di capacità nucleare militare. Un recente articolo a firma di Seymour Hersh su "The New Yorker" rivela l'esistenza, all'interno del Pentagono, di una linea a favore dell'utilizzo dell'arma atomica per un attacco preventivo alle installazioni nucleari iraniane. La guerra atomica è, allo stato dei fatti, una minaccia reale. E i piloti statunitensi possono decollare con armamaneti atomici dalla basi italine senza che sia necessaria alcuna decisione del nostro governo. L'Italia, che ha sempre giocato un ruolo positivo per il disarmo nucleare, deve intervenire in sede diplomatica per ricostruire un clima e una sensibilità politica favorevole al disarmo e alla non proliferazione atomica. L'Europa deve essere libera da armi nucleari. Senza il disarmo nucleare delle potenze atomiche attuali, sarà difficile perseguire la non proliferazione in Paesi come la Corea del Nord, l'Iran o il Giappone che si sentiranno legittimati a proseguire nella direzione sbagliata. Occorre mettere in discussione la presenza sul territorio italiano delle 90 testate atomiche che, con una potenza complessiva pari a 900 volte quella di Hiroshima, sono ancora presenti ad Aviano e Ghedi Torre, in virtù di un trattato segreto - Stone Ax - mai comunicato al Parlamento. Gli europei non sono costretti ad accettare queste armi in Europa ed hanno il potere di richiederne la rimozione. Gli ordigni nucleari USA-NATO sono stati rimossi dal Canada, dalla Grecia, dalla Danimarca e dall'Islanda. Eppure ognuno di questi paesi continua a far parte in maniera attiva della NATO.
Quando l'Europa non verrà più considerata come un teatro di possibili guerre nucleari, un deposito o una portaerei degli Stati Uniti, la Guerra Fredda sarà finalmente conclusa.
Il neo-fascismo dopo il lavoro degli enzimi
Controllando i dati di traffico di wumingfoundation dell'ultima settimana, abbiamo notato 300 contatti provenienti da un blogghetto fascista appollaiato su Splinder (non lo linkiamo per non mandargli visitatori), pieno di prevedibile ciarpame.
Ohibò, e come mai?
Subito scoperto e presto detto: da tempo, nella sezione antifascismo del nostro sito, a illustrazione di questa pagina campeggia l'immagine di un torvo squadrista in posa ridicola. Il sosia deficiente di Boris Karloff.
Quale mentecatto potrebbe mai identificarsi con un soggetto del genere, al punto da "richiamare" l'immagine dal nostro sito e farla comparire sul suo blog come parte della testata?
Beh, il tizio lo ha fatto. Ogni volta che un camerata visitava il suo blog, richiamava l'immagine e lasciava una traccia nelle nostre stats.
Allora noi che abbiamo fatto?
Abbiamo sostituito l'immagine...
...mettendoci questa:
Il risultato si può vedere in questa foto della homepage:
Quale migliore icona sotto il titolo "Identità e tradizione"?
Quale migliore illustrazione per la didascalia "La giovinezza è bella [...] perchè [sic] ha il cuore intrepido che non teme la morte. Strano, ma vero! Solo la giovinezza sà [sic] morire. La vecchiaia si aggrappa alla vita con disperata tenacia"?
Quale migliore emblema sopra lo slogan "Dio, patria e famiglia"?
Mentre scriviamo queste righe sono trascorse diverse ore, il tizio non se n'è ancora accorto, e forse nemmeno il tristo manipolo dei suoi visitatori. Del resto, 300 contatti (non visitatori: contatti) in una settimana sono pochini...
Chissà, magari rimane lì per tutto il week-end.
Della serie: lo spirito blissettiano non muore mai!
Grandi!
martedì, giugno 06, 2006
Free Mumia Now!
Tutto questo fino al momento in cui venne accusato di avere sparato e ucciso un poliziotto, delitto di cui Mumia si dichiara da sempre innocente. Ora è ancora nella death room, dove vi è rinchiuso dal 1982. Ma sembra che né lui né i suoi sostenitori fuori dalle sporche quattro mura si siano arresi, che continui la battaglia per la sua liberazione.
Quindi, FREE MUMIA NOW! Non dimentichiamo...
Network swarm and microstructure
Qualche settimana fa nella lista nettime si è svolta una discussione lanciata da Brian Holmes con un testo dal titolo "network swarm and microstructure" di notevole interesse teorico e anche direttamente politico.
Traduco qui un brano del testo:
"quando la forza delle istituzioni gerarchiche declina e la società diviene un sistema dispersivo di individui mobili e di spazi anonimi, l'unico comportamento che sembra essere comprensibili è il comportamento di mercato.
Sappiamo molto sul modo in cui i segni economici servono a strutturare il comportamente degli individui dispersi e mobili, che sono sempre descritti come calcolatori razionali che volgiono massimizzare le loro strategie di accumulazione (il cosiddetto individualismo metodologico). Ma il comportamento economico individuale è l'unico che possa essere osservato oggi? Ovviamente no. Diciamo piuttosto che entro lo spazio di relazioni sociale debolmente determinate hanno cominciato ad apparire altre forme relazionali..." e più avanti: "... la parola swarm (sciame) descrive un modello di autoganizzazione
in tempo reale che sembra sorgere fuori dal nulla (ovvero sembra essere emergente) e che è riconoscibile perché si ripete in maniera più o meno ritmica. Lo swarming è una immagine iniziale dell'autorganizzazione".
Mentre penso che il comportamento di swarm sia un'ottima metafora per definire il comportamento collettivo nelle società ad alta interdipendenza, come sono le società contemporanee in cui le reti di comunicazioni ad alta tecnologia sono sempre più pervasive e quindi connettono un numero crescente di individui, non credo però che si possa affermare che questo comportamento ha i caratteri dell'autorganizzazione, così come la tradizione politica intende questo termine.
Con il termine swarm ci riferiamo abitualmente al comportamento delle api o di simili animali che si muovono in maniera talmente coordinata da autorizzarci a pensare che l'organismo collettivo prevalga rispetto all'organismo individuale quanto a capacità di prendere decisioni.
Possiamo definire lo sciame come una forma di vita che mette in opera un modello di comportamento in maniera automatica. Nello sciame, per quanto ne sappiamo, la vita è governata dall'informazione iscritta nel cervello dei partecipanti allo sciamo (l'informazione incorporata nella loro azione).
Brian ha ragione quando affronta lo sciame dal punto di vista del network. Ma con il termine network non intendiamo qualsiasi collezione di elementi diversi: esso è la forma di interazione tra unità diverse (individui e macchine) che agiscono all'interno di un protocollo.
Nella sua replica al testo di Brian osservava Felix Stalder: "Tutti i networks sono definiti dai loro protocolli, rgole formali che stabiliscono i termini del coinvolgimento di agenti altrimenti indipendenti. I protocolli rendono possibili interazioni senza gerarchia. In effetti il protocollo crea lo spazio del possibile (ovvero l'orizzonte condiviso) e per partecipare a un network gli attori debbono aderire ai protocolli dominanti".
Possiamo dire che un network è una struttura e un processo di interazione tra unità compatibili. La copatibilità può essere considerata come aderenza a un protocollo.
Brian Holmes usa la metafora dello swarm per descrivere l'emergenza di un comportamento autorganizzato.
Dice: "cokmincio a credere che ci sono due fattori fondamentali che aiutano a spiegare la consistena dell'attività umana auto-organizzata. Il primo fattore è l'esistenza di un orizzonte cndiviso, di tipo estetico etico filosofico e metafisico, che è pazientemente e deliberatamente costruito nel corso del tempo e che dà ai membri di un gruppo la capacità di riconoscersi l'un l'altro come esistenti all'interno del medesimo universo di riferimento, anche quando sono dispersi e mobili. Il secondo è la capacità di una coordinazione temporale a distanza: lo scambio di informazione ma anche di affetto, all'interno di un gruppo disperso, su eventi unici che si svologno continuamente in collocazioni specifiche."
A me pare che questo genere di comportamento coordinato secondo modelli di interazione protocollari non può essere visto come un esempio di auto-organizzazione, dato che il protocollo è una struttura interiorizzata che conduce gli individui a interagire secondo modalità prefissate. Se il network è comporto di unità interdipendenti che seguono il medesimo protocollo, lo sciame è composto da unità individuali che sono governate da un modello di comportamento incorporato nel loro cervello e nel loro corpo.
Allo scopo di comunicare e di essere produttivo, ognuno deve unirsi per scelta o per obbligo, a un particolare network o a parecchi, accettando in questo modo i loro protocolli così da avere un orizzonte condiviso. I protocolli introducono automazione (catene di interazioni automatiche) nel flusso della comunicazione.
Perché la flessibilità funzioni in maniera coordinata, deve diventare compatibile con il ritmo del flusso, cioè, deve seguire le regole automatiche di interazione.
L'azione di un network è resa possibile dalle microstrutture che soggiaciono alla tecnologia e alla costituzione organica degli agenti viventi che interagiscono nel network.
In conclusione non vedo come il concetto di sciame possa essere usato come una metafora per la libertà o per l'autorganizzazione. Piuttosto lo vedo come la metafora della dipendenza automatica degli individui dal superorganismo reticolare.
Lo swarming non è un comportamento emergente, ma la ripetizione infinita di uno schema automatico in perenne evoluzione.