di L. Valeriani - da il manifesto del 1 giugno 2008
4 aprile 1968. Dopo quattro anni di accordi, riprese e lavorazione, esce sugli schermi 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Una performance multimediale come mai a quei tempi: l'apporto di Arthur C. Clarke alla sceneggiatura, e quello dei due Strauss con Ligeti alla colonna sonora, non sono i normali corali ingredienti del prodotto industriale di massa, ma funzioni primarie di un meccanismo che Kubrick intende anzitutto come esperienziale. Ho cercato di rappresentare un'esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell'inconscio, spiega il regista. Però il pubblico dei colti, così come quello dei fan di fantascienza, non riesce ad aggirare la comprensione: cercano il senso della trama, e restano interdetti dai suoi misteri, cercano uno sviluppo razionale del plot, e restano delusi dalle sue ellissi spazio-temporali, cercano le regole del genere, e si ritrovano un film muto con le scimmie preistoriche, e senza marziani.
Molti addetti ai lavori abbandonano la sala dopo i primi venti minuti di proiezione. E in effetti, su due ore e mezza di film, i dialoghi durano sì e no venticinque minuti. Il resto è musica, che entra nei precordi, o silenzio mistico. Immaginario in libertà. La curvatura spazio-temporale delle trasformazioni epocali è resa con metafore visive così efficaci che immagine e concetto coincidono, e il contenuto emotivo - come vuole Kubrick - penetra direttamente nell'inconscio. Più che simboli, più che allegorie, stupita fatticità.
Si afferma insomma un'estetica altra, che predispone dispositivi esperienziali più che dispiegare narrazioni. A dirla con la terminologia di Marshall McLuhan ripresa da Alberto Abruzzese oltre dieci anni fa, il film percepisce che le logiche della «scrittura» possono essere sovvertite da quelle post-scritturali dei barbari «analfabeti», di coloro cioè solitamente esclusi dalla cittadella del potere intellettuale. Nonostante il disegno tuttora rigoroso e sapiente, i salti logici dell'evento fortemente strutturato sono metabolizzati da un approccio emotivo incalzante e di fatto dominante. Si fa avanti insomma l'esigenza etico-estetica di quelli che oggi anche Alessandro Baricco, con grande successo, chiama i nuovi «barbari».Quanto allo statement, il film va anche oltre, perché le metamorfosi dello spirito producono infine l'alba di un oltre-uomo. Oltre la sapienza dell'intelletto, una prospettiva post-umana.
Calate nella contingenza, le prospettive filosofico-mistiche di 2001, come del resto quelle del musical Hair presentato a Broadway il 29 aprile 1968, sembrano concretizzarsi nell'immediato nel maggio francese. La rivendicazione radicale congiunta di studenti e operai configura l'affacciarsi di un nuovo soggetto sociale, con un punto di vista inedito, anch'esso «barbaro». E' un soggetto creativo, che darà i suoi frutti migliori soprattutto in Italia, negli scritti teorici e nell'attività politica che porteranno l'anno dopo all'autunno caldo e poi all'autocoscienza femminista. Ma i tempi della storia non sono quelli della politica. Il soggetto sociale non diventa anche immediatamente nuovo soggetto politico. La lotta è presto sconfitta, ma il salto è ormai avvenuto. Ce n'est qu'un debut.
2 ottobre 1968. Nella sua casa di Neuilly-sur-Seine, vicino Parigi, muore Marcel Duchamp. Viene così finalmente portato a conoscenza di tutti il suo testamento spirituale, l'opera-installazione cui ha lavorato in segreto per ben vent'anni (1946-1966), con l'idea di farla nascere postuma, orfana di padre, appunto. Quell'opera è un'esperienza visiva che aggira la comprensione. E' un dispositivo che rende sensorialmente percepibile ciò che Duchamp ha sempre detto, e cioè che è lo spettatore che fa l'opera: l'artista non ha alcuna importanza.
Già nel titolo interroga il curioso che le si avvicina: un titolo che pone dei «dati» (Essendo dati : la cascata d'acqua e il gas d'illuminazione...) e prosegue con dei puntini di sospensione, come se perfino il titolo dovesse essere completato da chi la guarda. Il valore dell'opera non è quello che le viene dall'essere «scrittura» autoriale, sta nel processo che il dispositivo innesca quando è visualizzato: esisterà solo se qualcuno, un qualsiasi barbaro, oserà guardare oltre i buchi praticati appositamente sulla porta che nasconde l'istallazione.
Anche il pubblico ristretto dei musei può diventare dunque fruitore attivo, consapevole protagonista di esperienze estetiche ed etiche capaci di negoziare il senso con l'ordine delle istituzioni. Il discorso si estende tuttavia ben al di là del pubblico dei musei. L'idea è che la performatività tipica dell'artista possa allargarsi a ogni potenziale situazione, laddove relazioni creative producano effetti di senso. Dal potere dell'immaginazione all'immaginazione al potere.
Il 5 marzo di quello stesso 1968 c'era stata l'ultima importante esibizione pubblica di Duchamp, anche questa un lascito spirituale. Si trattava di un evento multimediale, organizzato da John Cage a Toronto, e che sembra davvero icona, pur nelle dimensioni élitarie della performance artistica, di quanto accadrà nel maggio studentesco. La manifestazione aveva per titolo Reunion, cioè tematizzava il confluire di una pluralità di persone, e si basava sull'idea di creare una composizione mettendo insieme diversi sistemi sonori, ciascuno attivato da un diverso «compositore», il quale disponeva di una propria fonte e un proprio sistema di suoni. Nell'evento Duchamp e Cage giocavano a scacchi, altre persone guardavano o intervenivano nell'azione, ciascuna operando sui dispositivi sonori attraverso la scacchiera. Questa era collegata a circuiti elettronici, in modo che ogni mossa potesse trasmettere o cancellare i suoni prodotti dagli altri musicisti.
L'invito che viene da Duchamp è insomma a una relazionalità performativa, in cui l'azione del singolo su un territorio comune interagisca alla creazione di sonorità inedite e imprevedibili. Ce n'est qu'un debut.
9 dicembre 1968: la rivoluzione parte dalle università della California. Douglas C. Engelbart, ingegnere elettronico dello Stanford Research Institute, durante una sessione della Fall Joint Computer Conference in San Francisco, presenta per un'ora e mezza davanti ad un pubblico di addetti ai lavori il funzionamento di quello che sarebbe poi diventato il mouse. Allora, il nome del dispositivo non era quello un po' disneyano che ci è familiare, ma il più tecnico «indicatore di posizione x-y per display».
Per essere precisi, Engelbart presentava risultati di un lavoro sui sistemi online cui lui e il suo gruppo dell'Augmentation Research Center lavoravano fin dal 1962. Ma quella era la prima dimostrazione pubblica, e per i mille professionisti d'area che assistevano all'evento si aprì davvero una nuova era. Engelbart parlò di ipertesto, di come indirizzare file e contenuti attraverso collegamenti dinamici, di come fosse possibile a due persone, collocate in postazioni differenti, collaborare su uno schermo condiviso in un sistema di rete con interfaccia audio e video.
Il mouse è solo l'oggetto fisico che visualizza un processo immateriale, lo strumento con cui «afferrare» un nuovo punto di vista. Tanto nuovo che Engelbart, per mostrarlo, non si impelaga in una dissertazione teorica e accademica, ma realizza una performance: mostra dal vivo il programma piuttosto che spiegarne il funzionamento in astratto. Mette in atto quel conoscere facendo cui si è ispirata la migliore pedagogia esperienziale da Dewey a Montessori, e che solo con i nuovi media è diventata prassi quotidiana. Il mouse consente l'esperienza che aggira la comprensione, come era nelle intenzioni di Kubrick. Consente una conoscenza tattile, dà corpo a una fisicità barbarica, a una immediatezza percettiva che il sapere fondato sulla scrittura non è più in grado di rendere creativa.
L'Occidente si è fondato sull'alfabeto, sulle possibilità astrattive della parola scritta, per estendere la creatività e la libertà dei soggetti in processi di civilizzazione che ne hanno costituito la storia. Ma i meccanismi di produzione del valore inscritti nella scrittura si sono inceppati, perché la scrittura è diventata sempre più apparato e sempre meno scoperta. Questo è, forse, il motivo per cui il Sessantotto parte dalle università e fa corpo unico con la «rude razza pagana» in cui MarioTronti identifica gli operai in Operai e Capitale.
Le ricerche di Stanford offrono le protesi per una estensione dell'umano oltre la sua dimensione alfabetica. Engelbart fornisce le armi alla rivolta della Sorbona. Ce n'est qu'un debut. L'ipertesto, la possibilità di intrecciare narrazioni finalmente libere dalla consequenzialità causa-effetto, è un assalto al cielo al sapere autoritario, ben consanguineo alla critica neo-marxiana del Capitale. La possibilità di scambio di contenuti peer-to-peer, che oggi trionfa in YouTube, o nella navigazione dinamica e interattiva del web 2.0, ha mutato il concetto stesso di informazione, non solo la sua gestione. L'immersione cui l'istallazione di Duchamp invita per distruggere la dicotomia soggetto-oggetto, o autore-fruitore, diventa prassi effettiva nella rete. Quella Reunion in cui Cage e Duchamp realizzavano la confluenza di soggettività diverse in una composizione interattiva diventa oggi disseminazione di snodi nelle reti.
Certo, postumano non è ancora l'oltre-uomo, ma l'ibridazione mano-mouse è il passo ulteriore dopo quelle mano-osso e mano-penna di Kubrick. Forse, il soggetto sociale creativo, rivendicativo di un sapere dal basso, critico verso gli apparati, nemico della realtà imposta come unica, può oggi brandire il suo mouse, o il suo telecomando, per un salto politico neodimensionale. Contro ogni resistenza dell'umano ad autosuperarsi, continuons le combat. Con questo articolo si conclude la serie '68 fermo immagine dedicata al quarantennale del Sessantotto.
Immagine di idolumvisions [Introducing the Mouse ], con licenza Creative Commons da flickr
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