da il manifesto del 10 giugno 2008
Nel generale decadimento delle forme tradizionali di aggregazione politica e sociale, solo una, non certo nuova né presentabile, sembra godere di straordinaria fortuna e popolarità. Si tratta delle famigerate «ronde» che dilagano nei comuni e nei quartieri d'Italia. E' un fenomeno inquietante, ma che non conviene liquidare con una sbrigativa e facilmente condivisibile smorfia di disgusto. Per i più convinti cultori dello stato e delle sue prerogative non dovrebbe sussistere problema alcuno: la sicurezza spetta alle forze dell'ordine e ai suoi funzionari, ogni pretesa di «partecipazione» dei cittadini al controllo del territorio che non si traduca in semplice richiesta di «più polizia» e amore patriottico per gli uomini in divisa rischierebbe di costituire un intralcio se non una prevaricazione. Sebbene anche il punto di vista «statalista» si sia mostrato disposto a molteplici compromessi con lo «spontaneismo poliziesco» oggi in gran voga e con la privatizzazione di diversi comparti repressivi. Ma per chi non considera lo stato come espressione massima e perfetta del vivere collettivo e non si sente rappresentato e tutelato dal potere repressivo della sovranità statale, un problema sussiste e non è dei più semplici. Non è difficile, infatti, ravvisare nelle ronde e nei comitati cittadini, scesi in guerra contro gli immigrati e le più diverse forme di «devianza» o semplice diversità, qualcosa di assai contiguo alle aspirazioni di «autogoverno» o «autodifesa» che sono state anche patrimonio delle lotte popolari e di una tradizione di autonomia politica e organizzativa dai poteri istituzionali e dalle rappresentanze politiche.
Qualcuno ricorda le «ronde proletarie»? L'idea del «territorio liberato» e governato dal basso ha da sempre occupato l'immaginario della sinistra rivoluzionaria. Fatto sta che questa idea di autogoverno sembra realizzarsi oggi in forme mostruose, dominate dal risentimento e dalla ferocia della guerra tra poveri. E' la forma perversa di un protagonismo sociale incapace di fissare lo sguardo sulle radici reali del disagio e dello sfruttamento. La Lega è stata, fin dai suoi esordi, la più pronta a cogliere il fenomeno e le sue ambivalenze, a virare le istanze di autogoverno verso un'ottusità ideologica da comunità puritana, verso un corporativismo di carattere territoriale capitanato dai «signori della guerra» contro l'immigrazione e la «devianza», a dare vita a una microstatualità etnicizzata e punitiva. Facendo coincidere l'idea di libertà con la «proprietà privata» di un territorio nel quale convivono, in forme imparentate con l'apartheid, i proprietari padani e, sotto stretto controllo, i loro indispensabili servi stranieri. Le ronde leghiste mettono in scena una militanza localpatriottica garante di questo ordine, hanno il compito, più simbolico che pratico, di rappresentare la «partecipazione del popolo» non solo elettorale, ma nella costruzione di un ordine quotidiano all'insegna del più soffocante conformismo.
A partire dal corporativismo territoriale e culturale padane le ronde dilagano in tutto il paese. Altri partiti della destra (An a Bologna) cavalcano la moda e trovano nelle ronde un modo di aggregare e gratificare i loro giovanotti, mandandoli a caccia di comportamenti disdicevoli, secondo il modello delle guardie iraniane della rivoluzione, quelli che «reprimono il vizio e promuovono la virtù». E, sempre nella disgraziata Bologna, l'ineffabile giunta Cofferati, senza tradire l'amore per lo stato, allestisce la sua ronda sul modello della Stasi (il capillare sistema di delazione della Ddr) addestrando studenti volontari a vigilare sul quartiere studentesco, dissuadendo ed eventualmente denunciando, i trasgressori delle numerose ordinanze repressive emesse dal comune. Ognuno ha le sue tradizioni e i suoi modelli storici.
Ma, aldilà di queste grottesche interpretazioni politiche della "«partecipazione popolare» resta il fatto che nelle città il modello della ronda, i comitati dei residenti contro gli «invasori», notturni e diurni, contro mendicità o prostituzione si moltiplicano di giorno in giorno, prendendo il posto dei vecchi comitati di quartiere che si battevano contro il caro-fitti, il caro-bollette, la carenza dei servizi, l'abbandono dei rioni popolari. L'autogoverno della paura sostituisce l'autogoverno della vita, impoverendola. Tuttavia, fino a quando non si riconoscerà in questo festival dell'intolleranza e della discriminazione qualcosa di familiare, le sembianze deformi della volontà di influire, senza mediazioni, sulle proprie condizioni di vita, il gioco sarà inevitabilmente condotto da quella politica bipartisan che asseconda il risentimento e l'egoismo, traducendoli in una delega all'esercizio della più spietata repressione. Chi meglio della destra è in grado di raccogliere e organizzare un sentire corporativo che non riguarda più, come un tempo, le professioni, ma circostanze biografiche, come l'essere genitori, o abitanti di un quartiere? Il vecchio schema, da cui la sinistra non vuol prendere commiato, recitava così: il singolo rappresentato dal lavoro, il lavoro rappresentato nello stato. Il nuovo schema, assunto in pieno dai partiti politici rappresentati in parlamento nonché da quello che fu il «partito dei sindaci», sembrerebbe invece suonare così : il singolo rappresentato dal sondaggio, il sondaggio rappresentato nello stato. E il sondaggio non raccoglie coscienza, né, come si diceva un tempo, qualcosa di «determinato dall'essere sociale», ma la reazione emotiva a una contingenza, una condizione di sradicamento in balia delle più diverse e inquietanti rappresentazioni, nonché delle più spregiudicate rappresentanze.
Una caricatura della democrazia che ne enfatizza i peggiori difetti. E, al tempo stesso, l'illusione di aver detto la propria: «pane al pane e vino al vino». Questi fenomeni sono ben piantati nei modi contemporanei di vivere e di produrre e lì, solo su quel terreno, possono essere contrastati e combattuti, rinunciando all'idea bislacca di restaurare forme più docili e rappresentabili di omogeneità sociale. Il problema è, semmai, riprendere le fila del discorso sull'autogoverno, sulla politica dal basso, sottraendolo all'agghiacciante deriva delle ronde, delle fiaccolate e infine dei piccoli pogrom in cui l'invadente astrazione delle ideologie stataliste e la demagogia corporativa lo hanno precipitato, alimentando il risentimento e la paura.
Foto di letneo [quel che fa paura #1], con licenza Creative Commons da flickr
Nel generale decadimento delle forme tradizionali di aggregazione politica e sociale, solo una, non certo nuova né presentabile, sembra godere di straordinaria fortuna e popolarità. Si tratta delle famigerate «ronde» che dilagano nei comuni e nei quartieri d'Italia. E' un fenomeno inquietante, ma che non conviene liquidare con una sbrigativa e facilmente condivisibile smorfia di disgusto. Per i più convinti cultori dello stato e delle sue prerogative non dovrebbe sussistere problema alcuno: la sicurezza spetta alle forze dell'ordine e ai suoi funzionari, ogni pretesa di «partecipazione» dei cittadini al controllo del territorio che non si traduca in semplice richiesta di «più polizia» e amore patriottico per gli uomini in divisa rischierebbe di costituire un intralcio se non una prevaricazione. Sebbene anche il punto di vista «statalista» si sia mostrato disposto a molteplici compromessi con lo «spontaneismo poliziesco» oggi in gran voga e con la privatizzazione di diversi comparti repressivi. Ma per chi non considera lo stato come espressione massima e perfetta del vivere collettivo e non si sente rappresentato e tutelato dal potere repressivo della sovranità statale, un problema sussiste e non è dei più semplici. Non è difficile, infatti, ravvisare nelle ronde e nei comitati cittadini, scesi in guerra contro gli immigrati e le più diverse forme di «devianza» o semplice diversità, qualcosa di assai contiguo alle aspirazioni di «autogoverno» o «autodifesa» che sono state anche patrimonio delle lotte popolari e di una tradizione di autonomia politica e organizzativa dai poteri istituzionali e dalle rappresentanze politiche.
Qualcuno ricorda le «ronde proletarie»? L'idea del «territorio liberato» e governato dal basso ha da sempre occupato l'immaginario della sinistra rivoluzionaria. Fatto sta che questa idea di autogoverno sembra realizzarsi oggi in forme mostruose, dominate dal risentimento e dalla ferocia della guerra tra poveri. E' la forma perversa di un protagonismo sociale incapace di fissare lo sguardo sulle radici reali del disagio e dello sfruttamento. La Lega è stata, fin dai suoi esordi, la più pronta a cogliere il fenomeno e le sue ambivalenze, a virare le istanze di autogoverno verso un'ottusità ideologica da comunità puritana, verso un corporativismo di carattere territoriale capitanato dai «signori della guerra» contro l'immigrazione e la «devianza», a dare vita a una microstatualità etnicizzata e punitiva. Facendo coincidere l'idea di libertà con la «proprietà privata» di un territorio nel quale convivono, in forme imparentate con l'apartheid, i proprietari padani e, sotto stretto controllo, i loro indispensabili servi stranieri. Le ronde leghiste mettono in scena una militanza localpatriottica garante di questo ordine, hanno il compito, più simbolico che pratico, di rappresentare la «partecipazione del popolo» non solo elettorale, ma nella costruzione di un ordine quotidiano all'insegna del più soffocante conformismo.
A partire dal corporativismo territoriale e culturale padane le ronde dilagano in tutto il paese. Altri partiti della destra (An a Bologna) cavalcano la moda e trovano nelle ronde un modo di aggregare e gratificare i loro giovanotti, mandandoli a caccia di comportamenti disdicevoli, secondo il modello delle guardie iraniane della rivoluzione, quelli che «reprimono il vizio e promuovono la virtù». E, sempre nella disgraziata Bologna, l'ineffabile giunta Cofferati, senza tradire l'amore per lo stato, allestisce la sua ronda sul modello della Stasi (il capillare sistema di delazione della Ddr) addestrando studenti volontari a vigilare sul quartiere studentesco, dissuadendo ed eventualmente denunciando, i trasgressori delle numerose ordinanze repressive emesse dal comune. Ognuno ha le sue tradizioni e i suoi modelli storici.
Ma, aldilà di queste grottesche interpretazioni politiche della "«partecipazione popolare» resta il fatto che nelle città il modello della ronda, i comitati dei residenti contro gli «invasori», notturni e diurni, contro mendicità o prostituzione si moltiplicano di giorno in giorno, prendendo il posto dei vecchi comitati di quartiere che si battevano contro il caro-fitti, il caro-bollette, la carenza dei servizi, l'abbandono dei rioni popolari. L'autogoverno della paura sostituisce l'autogoverno della vita, impoverendola. Tuttavia, fino a quando non si riconoscerà in questo festival dell'intolleranza e della discriminazione qualcosa di familiare, le sembianze deformi della volontà di influire, senza mediazioni, sulle proprie condizioni di vita, il gioco sarà inevitabilmente condotto da quella politica bipartisan che asseconda il risentimento e l'egoismo, traducendoli in una delega all'esercizio della più spietata repressione. Chi meglio della destra è in grado di raccogliere e organizzare un sentire corporativo che non riguarda più, come un tempo, le professioni, ma circostanze biografiche, come l'essere genitori, o abitanti di un quartiere? Il vecchio schema, da cui la sinistra non vuol prendere commiato, recitava così: il singolo rappresentato dal lavoro, il lavoro rappresentato nello stato. Il nuovo schema, assunto in pieno dai partiti politici rappresentati in parlamento nonché da quello che fu il «partito dei sindaci», sembrerebbe invece suonare così : il singolo rappresentato dal sondaggio, il sondaggio rappresentato nello stato. E il sondaggio non raccoglie coscienza, né, come si diceva un tempo, qualcosa di «determinato dall'essere sociale», ma la reazione emotiva a una contingenza, una condizione di sradicamento in balia delle più diverse e inquietanti rappresentazioni, nonché delle più spregiudicate rappresentanze.
Una caricatura della democrazia che ne enfatizza i peggiori difetti. E, al tempo stesso, l'illusione di aver detto la propria: «pane al pane e vino al vino». Questi fenomeni sono ben piantati nei modi contemporanei di vivere e di produrre e lì, solo su quel terreno, possono essere contrastati e combattuti, rinunciando all'idea bislacca di restaurare forme più docili e rappresentabili di omogeneità sociale. Il problema è, semmai, riprendere le fila del discorso sull'autogoverno, sulla politica dal basso, sottraendolo all'agghiacciante deriva delle ronde, delle fiaccolate e infine dei piccoli pogrom in cui l'invadente astrazione delle ideologie stataliste e la demagogia corporativa lo hanno precipitato, alimentando il risentimento e la paura.
Foto di letneo [quel che fa paura #1], con licenza Creative Commons da flickr
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