martedì, giugno 03, 2008

Conflitti Globali 5: Un mondo di controlli

Presentazione
di Alessandro Dal Lago, Salvatore Palidda
da agenziax - scheda rivista

Se volete andare negli Stati uniti per meno di tre mesi, come turisti, non avete bisogno di un visto alla partenza. In cambio, vi dovete dotare di un passaporto elettronico. Ciò consente all’arrivo al funzionario americano di collegarsi con le banche dati del vostro paese e ricostruire on the spot il vostro profilo anagrafico, penale e giudiziario, nonché – presumibilmente – politico e ideologico. In base ad accordi recenti con l’Unione europea, è possibile che diversi altri dati siano concessi alle autorità americane (medici, morali, sessuali ecc.). Si tratta di una forma di subordinazione all’alleato d’oltreoceano ovviamente giustificata dagli attacchi dell’11 settembre e, in generale, dalla lotta contro il terrorismo.
Ma non c’è bisogno di andare così lontano per accorgersi che la nostra vita (materiale, ma non solo) è schedata in un’infinità di modi. Se, per esempio, uno ha pagato in ritardo, anni fa, la rata di un prestito, è probabile che un’altra società di credito gli rifiuti il finanziamento per acquistare un’automobile.

Innumerevoli indizi fanno ritenere che le banche dati siano intercomunicanti non solo all’interno di un settore (per esempio, quello bancario), ma tra diversi settori. Se questo è vero, significa che tutto quello che facciamo quando ci colleghiamo al Web o inseriamo una carta in qualche sistema è rintracciabile. Non è necessaria molta immaginazione per comprendere come, attraverso Internet e la posta elettronica, quello che scriviamo o comunichiamo sia accessibile ad altri sconosciuti. E quindi quello che pensiamo. Un esempio banale: se ci si registra su un sito per l’acquisto di libri online, immediatamente si riceverà una pubblicità martellante sull’offerta di un certo genere di testi da un’altra libreria in rete (teoricamente concorrente). In poche parole, chi è dotato del potere di schedare qualcuno (perché fa parte di apparati pubblici e privati di controllo o per vendergli qualcosa) è in grado di entrare nella nostra vita privata. Naturalmente, se non si è degli hacker esperti (ovviamente correndo grossi rischi), il contrario non è possibile. Voi, gli schedati, non potrete entrare mai nel pensiero e nella vita degli schedatori.

Possiamo anche decidere che non ci importa nulla di tutto ciò, sia perché siamo persone qualunque, e la nostra vita ha una limitata importanza politica ed economica, sia perché, probabilmente, i sistemi elettronici di controllo sono complicati dalla loro pervasività e devono trattare una quantità inimmaginabile di dati. Tuttavia è chiaro che, in linea di principio, dipendiamo in tutto e per tutto dai capricci cognitivi di qualcun altro: dal legislatore che, avendo deciso di proteggerci ancora di più da pericoli ignoti, estende il raggio dei controlli, al singolo operatore che per curiosità, noia o, ancora peggio, zelo ha deciso di interessarsi di noi. Anche qui, un esempio. Un tale sbarca in un aeroporto italiano dopo un lungo volo. È stanco, trasandato e soprattutto sfoggia barba e capelli lunghi. Un addetto alla security gli chiede di aprire il bagaglio. C’è un libro in inglese, comprato all’aeroporto di partenza, sulla cui copertina spicca la parola “terrorism”. E questo che cosa sarebbe, chiede l’addetto. A lei che cosa cosa sembra, gli viene risposto con poco garbo e soprattutto scioccamente. Aspetti qui. L’addetto va a chiamare il capo e insieme procedono a controllare i bagagli da cima a fondo, con lentezza esasperante. Quando hanno finito, dopo un bel po’, il malcapitato non rinuncia alla tentazione di prenderli in giro. Secondo voi, gli dice, un terrorista va in giro vestito in modo casual e con un libro su al Qaeda in bella vista? Per un momento devono avere avuto la tentazione di chiamare la polizia. In ogni modo, a parte la seccatura del controllo, il viaggiatore non dubita che il suo nome sia finito in qualche nuovo file.

Ma la questione in gioco è molto più complicata dei fastidi a cui siamo ovviamente sottoposti quando viaggiamo e anche della controllabilità teorica delle nostre vite. La realtà è che la differenza tra vita privata e vita in pubblico tende a essere abolita, anzi non esiste già più. Prima dell’informatizzazione globale, la nostra esistenza dipendeva dalla carta. Su di noi esistevano dati anagrafici, scolastici, fiscali, militari, oltre che, se siamo stati giovani e attivi negli anni Sessanta e Settanta, faldoni e dossier di qualche agenzia dello stato. Ovviamente, chi svolgeva qualsiasi ruolo pubblico (politici, imprenditori, giornalisti, sindacalisti, magistrati ecc.) doveva aspettarsi un controllo costante e quindi l’esistenza di appositi schedari. La cosa divertente è che la semplice presenza in uno schedario poteva essere fonte di discredito. Voleva dire che qualche agenzia di controllo si interessava a voi, e quindi dovevate avere scheletri negli armadi. In Italia, paese bizzarro e amante dei complotti, accanto agli schedatori veri c’erano i cercatori e i diffusori di bufale e di disinformazione. Un mondo di carte e di carte false.
L’elettronica ha cambiato tutto. Voi sapete che da qualche parte c’è qualcuno che, in pochi secondi, può sapere tutto di voi, archiviare le informazioni e renderle disponibili ad altri in pochissimo tempo. Combinando i dati, possono costruire o alterare il vostro profilo senza le limitazioni temporali della scrittura manuale e quelle fisiche degli archivi materiali. Di conseguenza, esiste una sorta di mondo parallelo (quarto o quinto, dopo quello fisico, il culturale e la stessa infosfera ecc.) di informazioni sulla vita privata di una quantità inimmaginabile di cittadini. Un mondo plurale, simile più a un arcipelago che non a una bolla, in cui però le singole isole, in cambio di profitti politici e monetari, sono disponibilissime a comunicare con le altre.

Un esempio ovvio di questa intercomunicabilità è dato da un recente scandalo che ha interessato una delle grandi aziende italiane di telefonia. A quanto pare, il sistema della security, in combutta con qualche servizio deviato, “ascoltava” uomini politici, giornalisti ecc. Gran parte di quello che è successo dopo, nel nostro pittoresco paese, deve avere a che fare con il materiale raccolto da quella rete di ascoltatori. Probabilmente rivelazioni a scoppio ritardato partiranno per anni come siluri, contro qualcuno degno di essere un bersaglio, in base a progetti tramati non nell’ombra ma nelle pieghe più o meno nascoste della “società dei controlli”. Nel nostro paese – e qui risiede il fascino di viverci – alla controllabilità universale si aggiunge la tradizione di veleni, coltelli, tradimenti e complotti che già entusiasmava Stendhal. Anni fa, gente che probabilmente pensava di vivere a Oxford e non accanto al Tevere, si è proposta a demolire la propensione italiana a spiegare le emergenze politiche con i complotti. La teoria del complotto verrebbe invocata quando non si riesce a venire a capo altrimenti di qualcosa ecc. Ma qui bisogna distinguere tra complottismo – ovviamente, una metodologia distorta – e la serena, oggettiva, rilevazione che l’uso delle informazioni sulle transazioni private ha un enorme rilievo politico. Se Clinton ha rischiato la poltrona per la sua esuberanza amatoria, perché un uomo politico italiano non dovrebbe rischiarla quando si intrattiene al cellulare con qualche imprenditore di riferimento? Forse, la teoria del complotto non spiega sistemi e strutture, ma gli eventi che li colorano certamente sì.

Dalla controllabilità universale discende un macroscopico cambiamento dell’opinione pubblica, e in primo luogo dei media. Un tempo, il giornalismo raccontava o travisava i cosiddetti fatti. Oggi racconta o travisa la vita privata di chiunque. In nome della libertà di informazione – che ovviamente noi cittadini qualsiasi non deteniamo – conversazioni private (che abbiano una rilevanza pubblica anche indiretta) vengono immediatamente pubblicate. L’antipatia o l’avversione che possiamo nutrire per gran parte del ceto politico non ci deve fare dimenticare che la vita privata dovrebbe essere un santuario inaccessibile in società che si vogliono democratiche. Può non importarci nulla dello sgradevole politicante o affarista che finisce sotto l’azione combinata della disinformazione elettronica e stampata. Ma se noi non ne siamo toccati, è perché non esistiamo pubblicamente, non perché siamo protetti a priori. Inoltre, questa invasione del privato, nel suo apparente cinismo a 360 gradi, è del tutto coerente con la moralizzazione asfissiante della vita privata e delle inclinazioni individuali. Pensiamo alla sciagurata proposta (di un esponente politico noto per parlare spesso a sproposito) di sguinzagliare i carabinieri nelle classi scolastiche in cerca di spinelli. Significa terrorizzare i minori per quell’ossessione della droga che certamente non si manifesta nel caso della cocaina, infinitamente più diffusa in ambienti insospettabili. Le famiglie che approvano la militarizzazione delle scuole non si rendono conto che il profumo della cannabis, opportunamente registrato in file e dossier, aleggerà per molto tempo sull’esistenza dei loro figli.

La schedatura virtualmente universale non significa che qualche Grande fratello sia perennemente in ascolto per registrare le nostre vite. Significa invece, proprio per l’irrazionalità complessiva della società dei controlli, che l’esistenza è sottoposta all’alea di sistemi basati sull’anarchia del profitto e dello scambio, non sull’ossessione centralizzatrice. Se solo gli apparati pubblici ci controllassero, prima o poi susciterebbero resistenze e opposizioni. Alla fine, qualcuno si porrebbe il problema di distruggere il computer centrale, un’evidente sogno o incubo tra fantascienza e fantapolitica. Ma oggi l’informazione sulla vita privata è merce di scambio e quindi segue la logica acentrata del capitale, in cui, per intenderci, oligopoli in competizione producono più profitto delle economie dirigiste e lasciano qualche spazio all’iniziativa dei singoli. Se da una parte questo ci garantisce una sorta di paradossale pluralismo (fino al punto che nessun sistema di controllo può escludere di essere controllato da qualche concorrente), dall’altra rende però infinitamente più disponibili le informazioni, un po’ come l’offerta dei magazzini Gum dell’era sovietica non era comparabile a un qualsiasi supermercato occidentale. Ecco allora che informazioni e disinformazioni seguono la logica del movimento degli elettroni, non della caduta dei gravi. La massa critica periodicamente si scalda e ogni tanto, forse ciclicamente, si arriva alla fusione della vita collettiva, oggi globale. Le guerre degli ultimi quindici anni, preparate in base alla logica dell’informazione/disinformazione globalizzata e acentrata, danno un’idea di quello che stiamo dicendo. Sono l’interfaccia irrazionale (o dalla razionalità imperscrutabile) di un mondo in cui si combatte quotidianamente per l’informazione.

Se le nostre vite sono incessantemente monitorate da una pluralità di sistemi, le reti eversive si adattano perfettamente alla logica del nemico. Sfruttano la stessa dipendenza dalle infrastrutture informatiche, la stessa capacità di riproduzione indipendente, la stessa ossessione per la vita privata. Così come la società cinese non potrà tollerare a lungo il conflitto tra la sua anarchia economica e il centralismo politico, allo stesso modo la società globale dei controlli crea da sola le condizioni per i blackout che periodicamente la colpiscono. Un eccesso di controlli acceca i controllori. Un eccesso di informazione (o disinformazione, quando si finisce per credere a quello che si è inventato) inibisce la conoscenza di chi si deve combattere. I marine che si battono casa per casa nelle vie di Baghdad o di Falluja scontano sulla loro pelle le illusioni della Revolution in Military Affairs (di cui Rumsfeld era un seguace entusiasta) sul ruolo dell’informazione e della comunicazione nel nuovo modo di combattere. Si pensa di sapere tutto sul nemico, perché si è in grado di ascoltarlo, leggerlo, prevederlo e prevenirlo. E quello riscopre, come in Cecenia o in Afghanistan, l’importanza tattica delle macerie, delle grotte, del movimento individuale negli spazi deserti. Armate che avrebbero polverizzato l’intera Wermacht (come infatti è successo con l’esercito iracheno) non possono venire a capo di gente che utilizza quando può i ritrovati più evoluti dell’informatica e della tecnologia militare, ma è capace di muoversi nei mondi dimenticati dall’illusione del controllo globale.

Ma non diversamente accade nella vita civile, in tempo di pace apparente. Qui il caso dell’Italia è un po’ diverso da quello di altri paesi, anche se le logiche sono le stesse. Da qualche tempo uno stato semisovrano (in cui operavano, come è noto, una struttura militare parallela e servizi pubblici di disinformazione coinvolti in ogni iniziativa di destabilizzazione, o stabilizzazione per conto d’altri) si trova a competere con attori privati o semiprivati in materia di creazione dell’insicurezza. Ci ricordiamo tutti di quel “giornalista”, cacciato dalla professione perché sponsorizzato da qualche servizio deviato, che si trovò, chissà perché, nel bel mezzo degli scontri durante il G8 di Genova, in occasione dell’uccisione di un manifestante. Un caso venuto casualmente alla luce, ma che probabilmente non è isolato. Come ormai non è occasionale, ma dilagante, la presenza di guardie private, provocatori e altri attori o disinformatori nelle manifestazioni di piazza. Ora, l’ossessione per il controllo, che si spinge fino alla creazione del disordine, per poterlo reprimere e riscuotere i relativi dividendi, politici e materiali, sembrerà anche un’idea geniale a qualche stratega dell’ordine pubblico o a imprenditori in vena d’innovazione. Ma in realtà è solo foriera di un’instabilità priva di senso strategico. La mercificazione della sicurezza crea solo insicurezza. La retorica della sicurezza a tutti i costi – che esige più controlli, più telecamere agli angoli degli edifici, più arresti nelle strade, più security, più schedature, più incursioni nelle scuole – alla fine creerà quell’anarchia quotidiana insensata, autodistruttrice, autofagica, che qualcuno si illudeva di contrastare alle radici. Se alla fine qualche politico di corte vedute ci lascerà la reputazione (come avviene periodicamente agli uomini d’ordine che provengono dalla cosiddetta sinistra), poco male. Ma è la vita di tutti a risultarne inquinata.

Con questo numero di “Conflitti globali” abbiamo voluto documentare come si è giunti alla società globale dei controlli. Ma anche il suo pluralismo perverso, le sue illusioni e le sue ricadute sulla vita sociale. Un mondo di controlli raccoglie contributi di studiosi, italiani e stranieri, che operano da anni in questo campo di ricerca. Nelle loro analisi, le immagini stereotipe del Grande fratello di Orwell e del Panottico di Bentham, inevitabilmente chiamate in causa quando il discorso cade sulla combinazione di telecamere, sensori e banche dati che punteggia il nostro quotidiano, cedono il passo a considerazioni più articolate. All’idea di un soggetto sovrano che estende il suo sguardo ovunque e accumula una messe di dati che gli consentono di razionalizzare il presente e predire il futuro si sostituisce una puntuale considerazione di contesti più prosaici, in cui ad agire sono una pluralità di attori, pubblici e privati, legati da relazioni di alleanza e competizione a geometria variabile. Una società dei controlli, dunque, non del controllo al singolare. A emergere è poi una realtà nella quale la “superstizione” che immagina di demandare la risoluzione di ogni problema alla presunta onnipotenza dei nuovi artefatti tecnologici si unisce alla pervasività delle logiche securitarie nel determinare il consenso intorno a scelte politiche e a modalità di problem solving la cui inefficacia, rispetto agli obiettivi che si prefigge, sembra andare di pari passo con le pesanti ricadute, in termini di discriminazione sociale e limitazione delle libertà, di cui tali pratiche si fanno portatrici.

Come intermezzo si presenta poi un salto alla metà del xviii secolo, proponendo un testo che ci riporta all’archeologia del controllo sociale, agli ingegnosi progetti di schedatura elaborati da Guillauté. Seguono, nella sezione “Scenari” alcuni contributi volti a sondare l’operatività delle nuove forme di controllo, profilazione, anticipazione in specifici ambiti. Il carcere e la penalità sono analizzati dal punto di vista dell’affermazione, come discorso egemone, del riferimento alla razionalità attuariale e predittiva. L’intreccio fra apparati pubblici e privati nel “commercio” dei dati e delle informazioni, con particolare riferimento ai servizi segreti e alle attività di spionaggio, viene considerato alla luce degli spunti offerti da una vicenda di attualità: il caso Telecom. Non manca poi un viaggio nello spazio, terreno incognito nel quale tuttavia il controllo è già una posta in gioco sensibile.

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