di Alessandro Dal Lago
da Liberazione - 27 giugno 2008
L'idea di biopolitica, coniata da Michel Foucault in alcuni corsi al Collège de France della fine degli anni Settanta, designa oggi, nel dibattito filosofico-politico, i diversi campi in cui si esercita il governo della vita, ovvero la definizione incessante e pratica del vivente come oggetto di controversia pubblica: dal conflitto sulla personalità dell'embrione all'etica sessuale e al controllo demografico delle migrazioni.
Infatti, l'attore più potente in campo biopolitico è oggi la Chiesa cattolica, che esercita, legittimamente o no, la pretesa di governare in ogni campo le espressioni della vita. Ma, in generale, «come vivere» (e ovviamente come morire) è la posta in gioco nel conflitto tra destra e sinistra, laici e cattolici eccetera. Dai valori da trasmettere ai nostri figli alle campagne contro l'alcolismo giovanile, il bullismo, le droghe leggere eccetera, fino alla «buona morte», la condotta di vita è terreno di scontro politico e quindi di «governamentalità». Questo non significa che stia rinascendo qualcosa come lo Stato etico (benché Chiesa e la destra fondamentalista, in ogni parte del mondo, abbiano sicuramente in testa qualcosa del genere), ma che l'«etica» (e quindi la condotta individuale) tende a sostituire i grandi temi del Novecento: il benessere collettivo, la giustizia sociale, la libertà politica e così via.
Un aspetto della biopolitica, in senso molto lato, che mi sembra oggi rilevante è ciò che definirei come Daseinpolitik, ovvero «politica dell'esistenza» o dell'esserci. Innumerevoli segnali fanno ritenere che aspetti della condizione umana che, nella filosofia del Novecento, erano di stretta competenza del soggetto individuale (stando al classico in materia, Essere e tempo di Martin Heidegger) siano oggetto di investimento politico. Al solito, non stiamo parlando di un complotto o di grandi fratelli ma di una tendenza, al tempo stesso culturale e politica, pervasiva e articolata. Consideriamo, per esempio, l'onnipresente questione dell' «insicurezza». Oggi questa non ha nulla a che fare con «l'insicurezza ontologica» di cui parlava quarant'anni fa l'antipsichiatra Ronald Laing nell' Io diviso , e cioé il senso di inconsistenza o di incertezza esistenziale che prima o poi prende chiunque, in forme più o meno sopportabili. Invece, l'insicurezza è una questione in senso stretto sociale e concreta. «Quando esco per strada non mi senso sicuro», «I reati sono più o meno stabili ma cresce l'insicurezza della gente», «L'immigrazione clandestina produce insicurezza»: ecco espressioni tipiche che ogni giorno leggiamo sui quotidiani e su cui il ceto politico si esprime instancabilmente. E che quindi sono divenute sotto ogni punto di vista politiche.
Che la sicurezza - e quindi la riduzione dell'insicurezza - sia uno degli obiettivi primari di ogni buon governo è noto fin dai tempi del cameralismo. Anzi, della fondazione dello Stato moderno, quello che si chiama westphaliano e corrisponde più o meno alla definizione weberiana dello Stato come «monopolio della violenza legittima». Come si sa, la sicurezza in gioco nelle teorie politiche classiche riguardava la vita in senso stretto: nella famosa allegoria hobbesiana del Leviatano, i cittadini delegano al principe ogni uso delle armi per essere protetti, nell'incolumità e nei beni, da assassini, fazioni religiose avverse e nemici. Hobbes era particolarmente sensibile a questo tema. All'inizio della sua autobiografia in versi, Vita carmine expressa , egli ricorda che la sua nascita prematura fu causata dal panico che si diffuse in Inghilterra, all'arrivo dell'Invencible Armada: «And hereupon it was my mother dear/Did bring forth twins at once, both me and fear» («E fu così che la mia cara madre partorì a un tempo due gemelli, me e la paura»). Negli ultimi versi, Hobbes dichiara che solo ora, alla fine della sua vita, quando ha fatto tutto quello che riteneva giusto e attende solo la morte, «non ha più paura».
La protezione della vita e dei beni è dunque il minimo che uno Stato deve assicurare ai cittadini. Naturalmente questa ragion d'essere primaria delle strutture pubbliche è declinata in modo molto diverso a seconda delle culture politiche. Negli Stati Uniti, in cui sostanzialmente i cittadini hanno diritto di usare le armi per difendere la propria casa dagli intrusi, la mancanza di un sistema sanitario nazionale fa sì che una quota non trascurabile della popolazione non goda di una vera e propria protezione della salute. Ma in ogni caso è evidente che uno Stato strutturalmente incapace di operare in questo senso vede erodere le basi stesse della sua legittimità.
Apparentemente, quanto precede va esattamente nel senso della retorica pubblica della sicurezza che ho evocato sopra come un aspetto della «politica dell'esistenza». Qualcuno che magari conosce le mie precedenti opinioni in materia penserà che mi sono convertito, che so, alla filosofia politica - se vogliamo chiamarla così - di Maroni o Veltroni (le cui idee in tema di sicurezza sono molto simili). Ma è esattamente il contrario: io ritengo che proprio l'incessante retorica pubblica dell'insicurezza dilagante non abbia a che fare con la sicurezza dei cittadini, ma con il loro governo, e cioè con la loro subordinazione. Che apparentemente i cittadini approvino tale retorica, stando ai sondaggi, non mi sorprende più di tanto. E non solo per quel fenomeno che l'amico di Montaigne, Etiene de La Boetie, cinque secoli fa, chiamava suggestivamente «servitù volontaria». Quanto e soprattutto perché è molto difficile che una retorica prodotta oggi dalla totalità del ceto politico (con lievissime differenze d'accento tra governo e opposizione) non goda di favore per un certo tempo, anche perché alimentata quotidianamente. Naturalmente, nessun ciclo storico è eterno: nulla esclude che prima o poi l'opinione pubblica non si decida a chiedere conto ai suoi governanti di quello che dicono, con una semplice domanda degna del racconto di Andersen, I vestiti dell'imperatore : «Ma se ci parlate da quindici anni di insicurezza, non è che per caso non siete mai stati capaci di far qualcosa in proposito?». Dio abbia pietà di quei governanti, quando gli elettori scopriranno di essere stati raggirati per tanto tempo.
La verità è che mai i governanti potranno far qualcosa, date le premesse fantastiche dell'incessante retorica. Per dirla in poche parole, nessuno ci potrà mai curare dal mal di insicurezza: che nel 1992 in Italia si uccidessero ogni anno 1.200 persone, e oggi poco più della metà, non ci dice nulla della probabilità reale di essere uccisi in questi sedici anni. E lo stesso vale per quella di essere scippati, derubati e così via. Le statistiche sono una sintesi puramente numerica dell'esito di processi aleatori e largamente imprevedibili: non significano letteralmente nulla per le nostre esistenze. Io, per esempio, ho vissuto per alcuni mesi in una città, Los Angeles, la cui contea è abitata da 14 milioni di abitanti ed è funestata da 1.000 omicidi all'anno - fatte le debite proporzioni, è come se in Italia si contassero 5 mila omicidi, e cioè nove volte il numero reale, una cifra che farebbe invocare da qualcuno il coprifuoco. Ebbene, stando a Los Angeles, non ho percepito nessun rischio, nessuno ha attentato alla mia vita e mi sono persino dimenticato un paio di volte di chiudere la porta di casa. E' vero che abitavo in un quartiere considerato sicuro (ma diversi miei conoscenti hanno dichiarato di essere normalmente impauriti…). Insomma, come la diminuzione dei reati di strada non ci protegge dalla possibilità di uno scippo, così la percentuale degli omicidi su un certo numero di abitanti non ci permette di essere sicuri che domani qualcuno non ci aggredirà con un coltello. In questi campi, l'insicurezza è questione di punti di vista, carattere, suggestionabilità e ovviamente caso.
E quindi corrisponde in tutto e per tutto al carattere enigmatico dell'esistenza. Ecco perché ho definito Daseinpolitik, «politica dell'esistenza», quel tipo di retorica pubblica che fa leva sull'umanissima paura o incertezza esistenziale per legittimare se stessa, e quindi il governo. Per dare un'idea di ciò che intendo offro solo un esempio, che non ha ovviamente alcun valore, se non metaforico. Mi chiedono di firmare una petizione contro i proprietari di un bar sottocasa che tiene aperto fino a notte fonda ed è perciò causa di un frastuono intollerabile. Non amo il genere «cittadini che non ne possono più,» ma sono disposto a considerare la cosa, finché non leggo che la petizione è diretta all'assessore comunale alla sicurezza. Ma che c'entra la sicurezza? Qui è questione di regolamenti comunali in tema di pubblici esercizi, e quindi la petizione o protesta dovrebbe essere indirizzata ai carabinieri o alla polizia municipale. Ma non capisce che qui è in gioco il degrado della città? Mi si risponde. No, non capisco. La verità pura e semplice è che dopo l'incessante campagna sulla sicurezza, risolvere il problema del frastuono è possibile solo con l'equazione: «Frastuono uguale degrado uguale insicurezza uguale (implicitamente) immigrazione». Il risultato è che responsabili ultimi del frastuono non saranno considerati i gestori del bar (e al limite le autorità comunali che non fanno nulla), ma i ragazzini marocchini che ciondolano di notte con la birra in mano.
L'insicurezza ha contorni così ampi che può riguardare tutto e non corrispondere a nulla di particolare. O meglio corrisponde a qualcosa che si dà per scontato come una necessità e non ci si sogna nemmeno di interpretare. E' vero, l'andamento dei reati, per lo più in diminuzione, non spiega il senso di insicurezza, ma se i cittadini hanno questa percezione, dobbiamo fare qualcosa… ecco che cosa dice un giorno sì e uno no qualsiasi editoriale dei quotidiani nazionali, grandi e piccoli. Io trovo tale retorica intellettualmente ripugnante. In primo luogo perché questo tipo di messaggio, martellante com'è, finisce per alimentare e accrescere proprio un senso di insicurezza dai contorni incerti e inconoscibili (ma i giornalisti non pensano mai che televisione e giornali sono agli occhi del pubblico, la realtà?) E poi perché finisce per giustificare ogni obbrobrio, che farebbe rivoltare nella tomba non dico Aldo Capitini, ma persino il vecchio Beccaria. Ed ecco alcuni esempi e un caso empirico.
Da un mese circa i rom vengono cacciati da tutti gli insediamenti non si sa dove. Da qualche tempo i prefetti delle grandi città fanno schedare anche i sinti, per lo più di cittadinanza italiana, inviando la polizia all'alba nei loro insediamenti, come se si trattasse di criminali. In qualsiasi posto civile, questa sarebbe considerata discriminazione su base etnica (i cittadini sono schedati a seconda della loro supposta origine) e quindi inammissibile. Alle proteste giustificatissime di un sinti molto noto, sopravvissuto di una famiglia sterminata dai nazisti, il giornalista di un quotidiano diffusissimo (che non cito solo per un barlume di carità) obietta più o meno: «Ma lo fanno per voi, per stabilire chi si comporta bene e chi no…». Insomma, se ti svegliano alle cinque del mattino per schedarti e terrorizzano i tuoi bambini, lo fanno per il tuo bene. Si noti non solo l'ipocrisia dell'argomento, ma l'implicito schierarsi del giornalista con le autorità. Che ci sta a fare l'Ordine dei giornalisti se non insegna ai suoi iscritti che compito di un vero giornalista è descrivere e al limite spiegare ciò che succede, e non fare la morale (e che morale!) alle vittime di un sopruso?
Caso empirico: l'ondata di piccoli pogrom contro i rom a Napoli sarebbe stata causata dal supposto tentativo di ratto di un bambino da parte di una nomade. Immediatamente l'Opera nomadi e altre associazioni hanno fatto notare che non esiste un solo caso accertato o giudicato nel dopoguerra di bambini rapiti dai rom (in cambio conosco almeno tre bufale analoghe, negli ultimi anni, che si sono sgonfiate in pochi giorni). L'inchiesta è in corso e scommetto la mia reputazione che si è trattato, nel caso peggiore, di un equivoco. Ma tutta la stampa nazionale ha riportato l'episodio prendendolo per buono: «Nomade rapisce un bambino a Napoli, eccetera» Mi sarebbe piaciuta una controinchiesta, tenuto anche conto che da quelle parti opera la camorra, che non va tanto per il sottile quando si tratta di deviare l'attenzione pubblica dai propri misfatti. Ma credo che l'aspetterò per molto tempo. Ed ecco che cos'è l'insicurezza, almeno nell'Italia d'oggi: un misto di balle mediali, cinismo politico e anche, perché no, panico generalizzato.
Pensare che in queste condizioni i sondaggi sulla percezione dell'insicurezza o dell'immigrazione - propinati instancabilmente dai media - siano veraci significa avere un'idea curiosa della verità: è vero quello che i media propongono come tale. Walter Lippman, che non era proprio un anarchico, ironizzava su questa pretesa almeno sessant'anni fa.
Con politica dell'esistenza intendo non un complotto o un piano per assoggettarci, ma un comodo metodo per distrarci dalla realtà di un paese incattivito, privo di senso del futuro, in cui i salari sono più bassi che altrove, le università agonizzanti, i giovani senza speranza d'impiego stabile e la spazzatura trabocca dai cassonetti. Creando un nemico ubiquo, indefinibile e fungibile (marocchini, rom, albanesi, stupratori all'angolo delle strade, pedofili nei giardinetti) le vere magagne in cui affondiamo sono minimizzate e il ceto politico può continuare a fare la bella vita. E i giornali a vendere il loro allarmismo. Povero Hobbes. Almeno la sua mamma aveva paura della formidabile armata spagnola.
Foto di Kazze [Fear Box 2 - The Revenge], con licenza Creative Commons da flickr
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