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Quella straordinaria stagione politica che va dalla fine degli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta, dalla sconfitta Fiom alla Fiat fino all'esplodere delle lotte operaie, ha qui il suo pensiero e la sua lettura.
Pensiero e lettura che ruotano intorno la nascita e la fine di due riviste in successione, «Quaderni rossi» e «classe operaia». Cioè, intorno l'«avventura» di una strepitosa, arrogantissima, coltissima, intelligentissima, generosa «cerchia» di giovani, in qualche caso giovanissimi, intellettuali di formazione e militanza socialista e comunista che si raccoglie intorno Raniero Panzieri e poi se ne distacca per seguire un proprio - lo stesso di prima - percorso fino a dichiararne la fine.
La straordinaria quantità di documenti, lettere, appunti, note, volantini, stralci di opuscoli, interviste - un lavoro di ricerca, di raccolta e di raccordo assolutamente fuori dall'ordinario, e che probabilmente più che essere esaustivo finirà col dare origine ad altre storie -, forse non aiuta a sciogliere e comprendere del tutto il groviglio dei passaggi, degli snodi di fronte ai quali ciascuno di quei protagonisti si trovò a prendere posizione e a determinare la posizione degli altri. Ogni ricordo, ogni giudizio finisce col segmentare e rimescolare ulteriormente le appartenenze, i percorsi, che diventano e si intrecciano di volta in volta diversi per teoria, analisi, politica, organizzazione, territorio [i torinesi, i veneti, i romani, i genovesi, i milanesi] fino a iscriversi nelle ragioni delle affinità, del carattere.
Ma questo non diminuisce di una virgola il valore intellettuale del libro, semmai lo potenzia.
Perché una cosa è certa: quella linea di rottura teorica - con la tradizione e con la modernità - che poneva al centro il lavoro operaio aveva una potenza di attrazione intellettuale senza pari e restituiva una pienezza di vitalità, di elaborazione storica o letteraria o economica o filosofica, che era anche fisica. Senza questo, l'intervento davanti le fabbriche, i questionari con gli operai, i seminari e i circoli, i giornali e i volantoni, i viaggi in automobile e in treni di ultima classe, le riunioni e le discussioni estenuanti e i convegni sino all'alba, senza questo pellegrinaggio dalla Fiat di Torino al Petrolchimico di Porto Marghera, dall'Alfa Romeo di Milano alle industrie di Piombino, di Genova, alla Fatme di Roma, senza questo non ci sarebbe stato l'operaismo.
Così, l'intenzione della casa editrice non è solo quella di fornire un libro utile, per studiosi, biblioteche, istituti di ricerca, il dibattito intellettuale; ma un libro necessario. Necessario adesso. Gli operai - si dice - non ci sono più: compaiono quando muoiono, ricordano la loro presenza quando si registra la loro definitiva assenza. È la loro morte a gettare luce sulla loro vita. La morte d'altra parte non fa che sancire la fine politica, una vita senza politica, senza fine politico.
Il secolo operaio è alle nostre spalle. Senza operai che senso ha l'operaismo? Siamo post-operai, siamo post-operaisti.
Il lascito di quell'esperienza è però tutto nella sua inattualità. Essa nasce e cresce nella attesa pratica - di qualcosa che c'è già ma non è ancora - e si divide e muore nell'apparizione teorica - di qualcosa che è ma non è più.
Noi pure siamo in attesa.
(Nella foto Panzieri, Tronti, De Caro, Negri)
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