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Si tratta di una lettura che già all'epoca venne considerata eretica rispetto ai canoni della sinistra rivoluzionaria tradizionale, che chiaramente oggi può suonare - sia per il linguaggio che per una certa determinazione argomentativa - in parte ridondante, ma che comunque rappresenta ancora una visione fortemente alternativa rispetto alla lettura dei fatti narrati - e di cui quest'anno ricorre il quarantesimo anniversario - ed è quindi un ottimo antidoto alle interpretazioni oggi dilaganti e pacificatorie sulle rivolte del '68.
(frnc)
di Sergio Bologna e Giairo Daghini
da deriveapprodi
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La grandezza del maggio francese stava in quello che vedemmo nei giorni successivi, quando la maggioranza s’era fermata, gli operai cominciavano a invadere il centro e quella macchina infernale che si chiama metropoli cominciava a funzionare con altre regole, con altri ritmi. Perché continuava a vivere in un’atmosfera liberatoria, quasi di euforia, in cui tutti sembravano divenire qualcun’altro, qualcuno che fino ad allora era rimasto compresso e che ora prendeva respiro. I trasporti erano bloccati, ma la gente s’era inventata di tutto per muoversi, forse scopriva per la prima volta la città e si spostava per grandi insiemi sempre dialoganti, in una grande animazione. Dovevamo ogni giorno aggiustare i nostri schemi mentali, in fin dei conti non ci era mai capitato di vivere una situazione nella quale un’intera società spezza i ritmi, le convenzioni. Così, perché è stufa, ne ha abbastanza, vuol andare altrove dal Piano in cui l’hanno costretta, e in fondo non le importa di come andrà a finire. Certo, il fronte operaio gli obbiettivi concreti li aveva, seguiva la logica del conflitto e del negoziato, qui le cose tornavano, ma in realtà, a pensarci bene, quel che di eccezionale stava succedendo sotto i nostri occhi era qualcosa che non potevi classificare come «rivoluzione», eppure sì, lo era, era la forma contemporanea di quella cosa lì, ma che nulla aveva a che fare con quel che sapevamo del 1789 in Francia o del 1917 in Russia.
Parigi allora recava ancora i segni, il sapore, delle stagioni d’oro degli anni Venti o degli anni Cinquanta, lo studio di Ruggero in rue de l’Abbé Groult, dove dormimmo la prima settimana, sembrava un luogo rimasto uguale dai tempi di Modigliani. Ma il maggio francese e la reazione successiva chiusero per sempre quel capitolo. Da allora Parigi si è sempre più americanizzata e la Parigi esistenzialista è stata reinventata in laboratorio per le greggi turistiche. Ci gustammo anche questo, l’ultimo sprazzo di aura parigina, nella stagione delle ciliegie. Intruppati nelle manifestazioni di massa, presenti in assemblee che duravano per dei giorni, ormai non ci chiedevamo più che cosa ci fossimo venuti a fare, che progetto politico ci fossimo proposti. C’era da viverla questa stagione, e basta.
Quando De Gaulle riprende la situazione in mano e rimanda la chienlit al lavoro, torniamo in Italia e a quel punto non possiamo più sottrarci al problema di che fare di quell’esperienza. Finita la festa sì, ma il processo continua, è stata una spinta – e che spinta! – per riprendere quell’onda iniziata con le rivolte studentesche dell’autunno-inverno 1967 per farla durare il più a lungo possibile. Qui rientra in gioco il nostro «operaismo», il nostro bagaglio teorico-politico torna in primo piano rispetto all’esperienza esistenziale. Scrivere un reportage? Tracce sull’acqua. L’alternativa era quella di tentare di costruire un paradigma, il maggio francese come esemplificazione di una teoria politica, di una teoria delle dinamiche di classe, e come tale offerto alla riflessione del movimento con un preciso intento politico: spostare il suo asse dalla fase studentesca antiautoritaria e terzomondista a una fase operaia. A pensare come sono andate in seguito le cose, ci riuscimmo. La sequenza fa ancora impressione: lotte alla Pirelli nell’autunno, scioperi Fiat nell’estate del ’69, autunno caldo, Statuto dei Lavoratori nel maggio ’70.
Chi volesse capire che cosa è successo quarant’anni anni fa a Parigi deve prendere questo testo con le molle e riconoscerlo nella sua «parzialità». Un po’ di ragione ce l’avevano i nostri compagni situazionisti ad accusarlo di dogmatismo. Però, che dentro quell’evento eccezionale e multiforme ci fosse anche il filo logico che noi credemmo di trovarvi, difficilmente lo si potrà negare. Piergiorgio Bellocchio lo pubblicò nei «quaderni piacentini» (VII, n. 35, luglio 1968). Da persone come lui abbiamo imparato a guardare con distacco anche la nostra esperienza politica; senza persone come lui quella nostra esperienza non avrebbe lasciato il segno che, nel bene e nel male, ha lasciato.
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