di Valerio Evangelisti - tratto da carmillaonline
Che io sappia, nessun rivoluzionario italiano, prima di Emilio Lussu, aveva scritto un vero e proprio manuale sull’ “arte” di insorgere, e nessuno lo avrebbe fatto dopo di lui. E’ vero che il saggio rappresenta, in larga parte, una disamina delle rivoluzioni dei primi decenni del Novecento, e soprattutto della rivoluzione russa. Però è anche vero che l’analisi non è puramente storica o filosofica, ma persegue un fine preciso: individuare i mezzi necessari per abbattere il fascismo attraverso la lotta armata.
Questo semplice dato fa comprendere la differenza tra Emilio Lussu e altri antifascisti a lui coevi. Quando Lussu scrisse a Parigi la Teoria dell’insurrezione (1936), nella sinistra non comunista in esilio le idee su come abbattere il regime di Mussolini erano confuse. C’era chi pronosticava l’ingresso in Italia, attraverso le Alpi, di una colonna armata (e un discendente di Garibaldi tentò in effetti la costituzione di una velleitaria “legione” destinata a quel compito); c’era chi sperava in sollevazioni spontanee; c’era chi confidava nella propaganda e finiva nell’attendismo. Nei caffè in cui si riunivano gli esuli si riproduceva, amplificato, l’antico vizio dei socialisti massimalisti: parlare di rivoluzione senza farla.
Lussu era un tipo molto diverso, e diverso anche da molti suoi compagni di Giustizia e Libertà. Ex interventista (ma non nazionalista) nella prima guerra mondiale, ex ufficiale abituato alla vita penosa e sordida delle trincee e agli assalti disperati, ex sardista (ma non separatista), non concepiva l’inazione. Ai comunisti, lontani da lui per le tendenze autoritarie, lo accomunava una convinzione: la lotta antifascista doveva radicarsi in Italia, e non essere importata. Inoltre era convinto che la propaganda, per essere efficace, dovesse accompagnarsi all’azione armata. Non il “gesto esemplare” caro a tanti di GL (che pure non andava escluso, anzi), bensì un moto sovvertitore che nascesse dalla società e, facendo perno sulle istanze di giustizia sociale latenti in chi pativa la dittatura fascista, sapesse fondere aspetto politico e aspetto militare.
Lussu in effetti, pur parlando di “insurrezione”, è le rivoluzioni che studia. Di queste, l’atto insurrezionale non è che il primo momento. Per scatenarlo, però, non si può confidare in una semispontanea presa di coscienza delle masse. Occorre invece una “avanguardia” composta da un manipolo di coraggiosi – poco importa che si tratti anche solo di una decina d’uomini – capaci di affrontare la violenza illimitata del nemico senza lasciarsi intimidire, e di reagire colpo su colpo. Il nucleo di un esercito, insomma, che crescerà col progredire della lotta. Il fascismo prospera perché è sicuro di se stesso, e ha liquidato come insetti molesti i socialisti chiacchieroni che, in esilio, si carezzano al bar le lunghe barbe.
Tale sicurezza si incrinerà solo quando i fascisti inizieranno ad avere paura, a temere per le proprie vite. Reagiranno scompostamente, è logico, ma la compattezza dei loro ranghi prenderà a vacillare. In pratica, per imporsi, l’antifascismo deve anzitutto proiettare di se stesso un’immagine forte, temibile. E’ l’unico modo per attrarre il popolo, che le sole promesse vacue di riscatto politico-sociale non indurranno mai all’azione. L’avanguardia è una sorta di giustiziere collettivo, capace di colpire dove e quando vuole e, in tal modo, reclutare “soldati” nell’esercito liberatore.
Si sa che la Liberazione, in Italia, non seguì esattamente questo tracciato. Tuttavia – e credo di essere il primo a notarlo – le “regole” di Lussu troveranno piena applicazione sotto altre latitudini. In America Latina, per esempio. Le rivoluzioni a Cuba o in Nicaragua nasceranno da esigui manipoli di gente determinata: un pugno di uomini e donne decisi, attraverso azioni armate a un primo sguardo avventuriste, a fare sollevare un popolo intero, oppresso da una dittatura. Certo, né Fidel Castro né Che Guevara né Daniel Ortega avevano letto Lussu (suppongo). Ma ciò non fa che confermare la valenza generale dei principi che Lussu trae dalla disamina delle rivoluzioni precorse. Nel caso di quella russa comportandosi, lui saggista politico, da storico.
Si tenga presente che nel 1936 un italiano in esilio aveva a disposizione una quantità esigua di testi sull’Ottobre, ben inferiore a quella odierna. Ebbene, le osservazioni di Lussu sono quasi sempre puntuali, e tuttora utilissime.
Lussu, antifascista impaziente di agire, ricorda un poco un Errico Malatesta, un Camillo Berneri, un Guido Picelli (altro ex ufficiale ribelle), che in epoche differenti compresero che era venuto il momento di spaventare il nemico. Preparati alla sconfitta immediata, però certi che essa avrebbe condizionato il futuro. Purché un’avanguardia si ricostituisse, purché il legame con la questione sociale rendesse una sollevazione di minoranza non gratuita.
Il resto della vita di Emilio Lussu è all’insegna della stessa coerenza. Protagonista di lotte contadine nella sua Sardegna, ostile alle derive moderate del PSI cui aveva aderito, pronto a dissociarsi da un nuovo partito – il PSIUP – non appena questo si era rivelato subalterno al PCI.
Lussu rimane tra le grandi figure rivoluzionarie e libertarie (poche) di questo paese, da Malatesta ad Armando Borghi. E la sua Teoria dell’insurrezione, profetica per tanti versi, potrebbe rivelarsi ancora attuale, se i tempi bui che viviamo si incupissero ulteriormente.
venerdì, maggio 16, 2008
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