di Benedetto Vecchi
il manifesto 28 maggio 2008
La dichiarazione di indipendenza del cyberspazio di John Perry Barlow fu lanciata, nel lontano 1996, come un sasso nello stagno e a cerchi concentrici di diffuse su Internet. Un testo che letto ancora oggi ha il fascino indiscusso del pamphlet, con quel misto di preveggenza, semplificazione che raramente hanno i documenti politici. John Perry Barlow aveva fatto parte del mouvement contro la guerra del Vietnam, scritto poesie e, soprattutto, era stato nei Grateful Dead, il gruppo rock interprete di quell'attitudine underground che in California stabiliva una linea di continuità tra il free speech di Berkeley, la produzione artistica «di strada» e le prime tecnologie digitali. La sua dichiarazione di indipendenza divenne così il documento politico di chi considerava la frontiera elettronica il luogo, seppur virtuale, dove sperimentare forme diverse di relazioni sociali, di sottrazione dal potere soffocante delle corporate company e del governo federale, nonché di costruzione della decisione politica all'insegna di una democrazia radicale che vedeva nel principio della rappresentanza un fardello da cui liberarsi al più presto. Per anni quel testo è stato il background teorico a cui attinto filosofi, economisti, sociologi e mediattivisti. Internet, il personal computer e il free software erano una «tecnologia della liberazione» che consentiva al cyberspazio di essere un habitat socio-tecnico altero, se non antagonista dell'economia di mercato.
Pragmatici e visionari
Una convinzione che ha caratterizzato anche la produzione teorica di Carlo Formenti, che ha dedicato a Internet due saggi (Incantati dalla rete e Mercanti di futuro, pubblicati rispettivamente da Raffaello Cortina e Einaudi) fortemente condizionati da quella visione libertaria del cyberspazio, seppure con una capacità innovativa e interlocutoria verso il pensiero critico di ispirazione marxiana. A sei anni dalla pubblicazione dell'ultimo saggio Carlo Formenti affronta nuovamente lo stato dell'arte della Rete nel volume Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media (Raffaello Cortina, pp. 279, euro 23). Gran parte delle tesi del passato sono passate al setaccio di un principio della realtà e con onestà intellettuale l'autore afferma che le speranze riposte nella Rete come laboratorio sociale per sperimentare nuove forme di democrazia - i soviet del postmoderno - e di produzione alternativa della ricchezza - l'«economia del dono» - si sono dissolte al sole della trasformazione di Internet in un luogo dove è invece egemone una logica capitalista. Saggio autocritico, dunque, che ha il merito di ripercorrere criticamente il meglio della produzione teorica attorno alla Rete - le teorie di Manuel Castells e Yoachai Benkler, ma anche le riflessioni del media theorist Geert Lovink, del «cripto-marxista» Wark McKenzie e del visionario Richard Florida - mettendolo in un rapporto di tensione polemica con il percorso di ricerca che Formenti definisce «postoperaismo», in particolare con il concetto di moltitudine di Toni Negri.
Macchine dell'innovazione
È noto che lo studioso catalano Manuel Castells ha considerato le tecnologie digitali il medium per l'affermazione di un «capitalismo informazionale» che ha «colonizzato» gran parte del pianeta e che è rappresentato come un flusso di capitali, informazioni, merci, uomini e donne che può essere governato solo grazie alla presenza di organizzazioni produttive reticolari e attraverso l'uso intensivo di tecnologie digitali. Allo stesso tempo lo studioso catalano considera le relazioni di complementarietà anche conflittuale delle quattro componenti culturali - tecno-scientifica, hacker, imprenditoriale e degli utenti - presenti nella Galassia Internet come fattori dinamici che garantiscono la costante innovazione della rete sia dal punto di vista del software, dei prodotti e dell'organizzazione produttiva della rete. Una teorizzazione, quella di Castells, che auspica un rinnovamento del compromesso tra capitale e lavoro che consenta una riqualificazione dei diritti sociali di cittadinanza in un mondo che prevede una flessibilità della forza-lavoro complementare a quella dell'organizzazione produttiva reticolare.
Più radicali sono le posizioni di Yochai Benkler, che parla di un «capitalismo in assenza di proprietà privata»; o quelle di Richard Florida che sostiene l'egemonia della «classe creativa» rispetto all'insieme della forza-lavoro; lettura speculare a quella di Wark McKenzie che parla della formazione di una nuova classe sociale che chiama «vettoriale» e caratterizzata da un'etica hacker del lavoro.
Un accumulo di sapere che, seppur diversificato e spesso divergente rispetto agli esiti politici, ha rappresentato Internet come un'anomalia rispetto al mondo fuori allo schermo. Ed è con la convinzione che questi autori siano riusciti a mettere a fuoco alcune tendenze del capitalismo a partire da un'analisi di come funziona Internet che Carlo Formenti giunge alla conclusione che il World wide web è stato colonizzato dalla cultura corporate. Ma più che colonizzato sarebbe meglio parlare del fatto che quel laboratorio chiamato Internet ha funzionato a pieno regime e che ha rotto lo schermo del video, diventando il sistema vigente di produzione della ricchezza. E che i nodi e le aporie nel rapporto tra cooperazione sociale produttiva e capitale cognitivo attendono ancora di essere sciolti in un'ottica di un superamento del regime del lavoro salariato.
Sovranità in formazione
C'è infine un aspetto minore di Cybersoviet che invece apre un terreno di ricerca fin qui poco esplorato. È quando l'autore parla del «neomedievalismo istitutuzionale» che caratterizza le norme internazionali e la legislazione nazionale sulla rete. In questo caso è avvenuto che il processo in corso nella formazione di una nuova sovranità che stabilisca un rapporto dinamico e flessibile tra locale, nazionale e sovranazionale da fuori lo schermo venga esteso anche a Internet. Lo stato, così come gli organismi sovranazionali, hanno infatti perso il monopolio della decisione politica a causa della presenza di factory law private che definiscono norme e regole che spesso aggirano quelle istituzionali. La sovranità ha dunque necessità di una governance dove organismi sovranazionali, stati nazionali, imprese, factory law private e associazioni della cosiddetta società civile «cooperino» tra di loro in un rapporto asimmetrico di potere.
Sgomberato il campo dalle illusioni che il web potesse essere esso solo l'habitat per costruire l'altro mondo possibile, il panorama è occupato da quella cooperazione sociale produttiva che deve essere precaria, e quindi assoggettata al capitale cognitivo, senza però che questa precarietà le impedisca di essere la fonte dell'innovazione. Dunque libertà e assoggettamento, gerarchie light ma all'interno del regime del lavoro salariato. Il problema dunque non è immaginare un cybersoviet, ma un soviet adeguato a una forza-lavoro che manipola manufatti linguistici e manufatti «fisici». Un soviet, cioè, che sia dentro e fuori lo schermo. Come dentro e fuori il video è il capitalismo cognitivo.
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