tratto da il manifesto - 2 marzo 2008
Giovanni Arrighi è un critico dell'economia politica e secondo questa prospettiva che vanno letti i suoi libri. Questo Adam Smith a Pechino non è solo un puntuale testo di sociologia storica dell'economia mondiale che vede spostare il suo baricentro nel Pacifico, quanto una lettura teorica-politica delle attuali tendenze del capitalismo che si contrappone a molta saggistica di «sinistra» che continua a vedere nel neoliberismo una sorta di fase suprema del capitalismo che continua ad assegnare agli Stati Uniti, e in misura minore ai paesi dell'Unione europea, la leadership nel capitalismo globale. E infatti dialoga polemicamente con David Harvey e con il filone di pensiero critico che fa riferimento alla rivista Le Monde Diplomatique, come ha affermato nell'intervista concessa a questo giornale il 24 gennaio.
Più che fase suprema, sostiene dunque Arrighi, il neoliberismo è il canto del cigno degli Stati Uniti, che riescono a mantenere la loro egemonia grazie alla loro potente macchina da guerra.
Ed è proprio questo il punto più interessante della sua analisi. Che la retorica di un neoliberismo sia oramai diventato un mantra che nulla spiega è indubbio, nonostante il fatto che la pubblicazione degli scritti di Michel Foucault sulla sua genealogia indicano tutt'ora dei possibili percorsi di ricerca sui cambiamenti intervenuti nella forma-stato delle contemporanee società capitaliste. Ed è altrettanto indubbio che l'incapacità degli Stati Uniti di normalizzare militarmente l'Iraq ha messo in evidenza le difficoltà delle imprese statunitensi nel fronteggiare il dinamismo dell'economia cinese. Ma uno dei terreni da esplorare è se e come è mutato il marxiano rapporto tra i «laboratori della produzione» e il capitale finanziario.
Da questo punto di vista, l'analisi di Arrighi continua a vedere la finanza come un fattore improduttivo, tutt'al più funzionale a mantenere il dominio sull'economia mondiale, mentre si fanno strada economie nazionali che hanno puntato sull'innovazione dei processi produttivi o che si sono «specializzate» nella produzione di un bene di consumo, come in passato è accaduto con l'acciaio, l'automobile o i microprocessori. La rilevanza strategica assunta dal venture capital nel favorire l'innovazione dei prodotti dovrebbe tuttavia condurre a una analisi della metamorfosi della finanza nella produzione capitalista. Assistiamo, infatti, al
dispiegarsi di una rete produttiva i cui nodi sono disseminanti spazialmente al di fuori dei confini nazionali e che vedono convivere forme del lavoro tra loro eterogenee, talvolta «arcaiche», talvolta innovative, spesso basate su lavoro manuale, altrettanto frequentemente caratterizzate da una significativa percentuale di produttivi knowledge workers. La finanza, così come la progettazione e il coordinamento di quella stessa rete produttiva sono momenti fondamentali della valorizzazione capitalistica.
Da questo punto di vista, parlare di declino degli Stati Uniti rischia di cogliere solo uno degli elementi che caratterizzano il presente. E questo non perché gli Stati Uniti hanno l'esercito più potente del mondo, ma perché le imprese transnazionali statunitensi, e in misura minore quelle europee, continuano ad esercitare una leadership nei settori di punta dell'economia mondiale, grazie proprio a questa capacità di progettare flessibili reti produttive su scala globale.
In Adam Smith a Pechino Giovanni Arrighi sottolinea infine che al Washington consensus si stia sostituendo il «consenso di Pechino», cioè di una società all'interno di una transizione, che invita alla cautela nel definirla capitalista. Un invito tuttavia segnato da una lettura dello sviluppo capitalistico scandita appunto dalla riproduzione di cicli sempre uguali. Un'altra sfida che il volume di Arrighi pone è dunque di pensare alle diverse forme assunte dallo sviluppo capitalistico. Questo volume, come il precedente Il lungo ventesimo secolo, poco però analizzano le diversità tra il capitalismo europeo e quello statunitense. La grande divergenza avviata tra Occidente e Oriente avviata nel XVIII secolo richiamata da Arrighi nel volume non si chiude con l'emergere di una società non capitalista, ma neanche socialista, bensì di una società capitalistica che ha caratterizzato proprie e che è fortemente segnata tanto dalle strategie delle imprese transnazionali che hanno il loro centri di progettazione e controllo ancora nel cuore dell'impero, quanto dai movimenti sociali che si oppongono al regime del lavoro salariato.
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