tratta da il manifesto - 17 marzo 2008
Nonostante gli inasprimenti degli ultimi giorni, questa campagna elettorale sembra accomunare Berlusconi e Veltroni nello sforzo di presentarsi ciascuno come il vero interprete di una stagione a pieno titolo post-ideologica: nella quale il conflitto non avrebbe più bisogno di essere «rappresentato», in quanto appartenente a un'idea novecentesca, dunque superata, della società. Chiediamo al filosofo della politica Giorgio Agamben di fornirci una cornice teorica per leggere questa crisi.
Il leader del Partito Democratico - ispirandosi, persino negli slogan, a Barack Obama - fa appello alla possibilità concreta, a portata di mano, di superare l'emergenza della politica e i recenti fallimenti della sinistra attraverso una volontà di coesistenza «oltre ogni conflitto», un po' new age. Quel che sembra definitivamente in crisi, allora, è il principio di rappresentanza...
L'idea che la politica sia la rappresentazione - e, quindi, la mediazione - dei conflitti sociali ha certamente dominato la tradizione recente della sinistra. Ma non basta assolutamene a definire la politica e la democrazia. Occorre precisare qual è il rapporto fra la mediazione e il conflitto. Di fatto ormai da molti decenni l'idea dominante - e non solo in Italia - è che ogni conflitto possa essere governato, che non c'è conflitto che non possa trovare la sua mediazione. In questo senso si può dire che almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale vi è soltanto socialdemocrazia. E questa non poteva che incontrarsi prima o poi col modello liberale, che era per eccellenza portatore di un'istanza di mediazione dei conflitti. Il modello di pensiero che oggi domina la politica è quello della governamentalità. Dev'essere chiaro, però, che governare (il termine deriva dal greco kybernes, il pilota di una nave) non significa determinare despoticamente gli eventi; al contrario, si tratta di lasciare che gli eventi si producano, per poi orientarli nella direzione più opportuna. È in questo senso che oggi tutto può essere governato, gestito e normalizzato. Di qui il primato dell'economia e del diritto sulla politica: dove tutto è normalizzabile e tutto è governabile, lo spazio della politica tende a scomparire. La democrazia è così diventata sinonimo di una gestione razionale degli uomini e delle cose, cioè di una oikonomia. Questo implica una trasformazione radicale della concettualità politica: le guerre diventano operazioni di polizia, la volontà popolare un sondaggio di opinione, le scelte politiche una questione di management, i cui modelli di riferimento sono la casa e l'impresa, e non la città.
Dunque una 'silente' messa a morte del modello democratico occidentale...
Sì, perché la tradizione democratica riposa, invece, sul principio che la politica è possibile solo se vi è da qualche parte un conflitto che non può essere mediato e governato. Non si tratta in alcun modo di un modello di disordine o di guerra civile permanente, al contrario: in questione sono i principi stessi che rendono possibile la democrazia. Nicole Loraux ha mostrato così che ad Atene la stasis, la guerra civile, funziona come una sorta di esteriorità, la cui possibilità fonda e mantiene la democrazia. Ma anche la tradizione della democrazia moderna si fonda sull'idea di un potere costituente che deve essere necessariamente esterno al potere costituito, e senza il quale la vita politica perde vitalità. Si ha democrazia quando il sistema giuridico-politico si mantiene in relazione dialettica con una esteriorità, che non è semplicemente esclusa. Se il potere costituito pretende, invece, di governare il potere costituente e di includerlo in sé, la base stessa della democrazia viene meno. Un caso flagrante è quello della costituzione europea, che, respinta dai popoli, è stata di recente approvata quasi di nascosto a Lisbona in forma di un accordo fra governi. Una costituzione senza potere costituente è del tutto priva di legittimità; ma, nella prospettiva governamentale, legittimità e legalità tendono a confondersi.
La crisi di rappresentanza comporta sempre di più, dunque, una 'dislocazione' dei conflitti: i quali, inevitabilmente, finiscono per assumere forme altre - o di aperta ribellione o di chiusure corporative o anche di derive spiritualiste; mentre all''interno', nel ceto politico, si afferma la cultura del «voto utile». Comunque a vincere sono sempre più gli spiriti animali del Mercato. C'è ancora un modo per ridare centralità alla politica?
La tendenza inarrestabile della macchina governamentale, sia essa nelle mani della destra o della sinistra, è che l'attività della macchina non incontra altri limiti che quelli interni alla macchina stessa. Anzi, nella prospettiva della governamentalità, destra e sinistra non possono che perdere i loro caratteri distintivi e tendere, come di fatto è avvenuto dovunque in occidente, verso una zona di indifferenza e di opacità. Che questo prenda la forma di una grande coalizione, com'è avvenuto in Germania e come si annuncia in Italia, o di un'alternanza fra due partiti quasi indistinguibili, non fa molta differenza. La cultura del «voto utile» si iscrive in questa prospettiva. Naturalmente, la negazione dell'esteriorità lascia un'ombra, o, come voi dite, produce una dislocazione dei conflitti. Queste ombre inassimilabili sono il terrorismo da una parte e l'integralismo religioso dall'altra, che tendono idealmente a coincidere. Benché il terrorismo si presenti a prima vista come qualcosa di assolutamente ingovernabile, esso non è esterno al sistema governamentale, ma ne costituisce, per così dire, il centro segreto. Credo che un'analisi della politica interna italiana durante gli anni di piombo e della politica estera degli Stati Uniti dopo l'11 settembre ne fornirebbe una prova eloquente. Il governo del terrorismo - cioè l'inclusione dell'ingovernabile - è, in questo senso, la forma-limite del sistema governamentale. L'ossessiva insistenza sulla sicurezza, divenuta oggi quasi l'unico slogan politico, va vista in questa prospettiva. Ed è significativo che l'ombra del terrorismo finisca col ricoprire lo stesso corpo sociale nel suo complesso, nel senso che i governi tendono oggi a trattare ogni cittadino come un terrorista in potenza, assoggettandolo in modo normale a quei dispositivi di sicurezza di tipo biometrico che erano stati inventati per i criminali recidivi.
La sinistra, politicamente rappresentata di fatto dal solo Bertinotti, come può rispondere sul piano strategico a quello che lei chiama il problema della governamentalità? A quali riserve culturali 'buone' dovrebbe attingere?
Bisogna che sia chiaro che il processo che ha portato le società occidentali verso il modello governamentale è ormai un fatto compiuto, che di questo processo la sinistra è stata parte essenziale e non sorprende che oggi lo accetti senza riserve. D'altra parte, il potere governamentale è qualcosa di cui sappiamo poco e che dobbiamo ancora imparare a conoscere. La tradizione del pensiero politico occidentale aveva preferito concentrarsi sui grandi temi della sovranità, dello Stato, del popolo, e ha liquidato il problema del governo sotto la rubrica «potere esecutivo», la cui importanza è unicamente strumentale, e che in sé non pone grandi problemi teorici. Le mie ricerche, come del resto quelle di Foucault, mostrano invece che il vero arcano della politica non è la sovranità, ma il governo; non il re, ma il ministro; non Dio, ma l'angelo; non la legge, ma la polizia.
Professor Agamben, lei nel corso degli anni ha teorizzato quel genere di trasformazioni che portano in primo piano la «nuda vita», abbattendo ogni tipo di mediazione: scusi, ma come la mette Veltroni con la biopolitica? Cosa aspettarsi, in fin dei conti, da un governo light della 'trasformazione' della vita?
Per quel che riguarda la biopolitica, cioè il fatto che in senso lato la posta in gioco nel potere sia oggi la gestione della vita biologica dei cittadini e non la loro vita politica, le cose non cambiano. La biopolitica si iscrive perfettamente nel paradigma governamentale, anzi acquista il suo vero senso proprio in questa prospettiva. Il fatto che il governo attuale abbia emanato leggi che prevedono la costituzione di un archivio del Dna va in questa direzione. È un errore credere che la nuda vita significhi soltanto Auschwitz e lo stato di eccezione; molto più interessante è che essa diventi oggi un'esperienza e un'economia quotidiana, e che una dimensione politica debba essere riguadagnata anche attraverso un corpo a corpo con essa.
Il pontificato di Benedetto XVI ha lanciato una precisa sfida filosofica sui principi dell'organizzazione della società: e esercita una certa egemonia, almeno in Italia, anche per la mancanza di un profilo di pensiero 'forte' laico. Cosa comporterà questa disparità di valori in campo, sul piano non tanto politico-istituzionale, quanto proprio della filosofia politica?
Occorre a questo proposito chiarire un equivoco della tradizione laica. Il vero problema non è che la Chiesa intervenga nella vita pubblica, ma che lo faccia troppo poco, e che si sia per così dire specializzata nella tutela della vita biologica e della famiglia (due cose, fra l'altro, che secondo la tradizione cristiana delle origini il cristiano deve essere pronto a sacrificare senza riserve). Invece di indignarsi perché il papa interviene nella sfera pubblica - cosa che è suo dovere fare -, gli si deve chiedere perché non prende posizione con la stessa energia per le infamie quotidiane, le guerre, le ingiustizie, la miseria, per le quali si limita a delle dichiarazioni generiche. È significativo che proprio quando lo Stato ha abbandonato la dimensione politica per la biopolitica, anche la Chiesa sembri voler limitare l'esercizio del potere spirituale alla sfera biologica.
Il leader del Partito Democratico - ispirandosi, persino negli slogan, a Barack Obama - fa appello alla possibilità concreta, a portata di mano, di superare l'emergenza della politica e i recenti fallimenti della sinistra attraverso una volontà di coesistenza «oltre ogni conflitto», un po' new age. Quel che sembra definitivamente in crisi, allora, è il principio di rappresentanza...
L'idea che la politica sia la rappresentazione - e, quindi, la mediazione - dei conflitti sociali ha certamente dominato la tradizione recente della sinistra. Ma non basta assolutamene a definire la politica e la democrazia. Occorre precisare qual è il rapporto fra la mediazione e il conflitto. Di fatto ormai da molti decenni l'idea dominante - e non solo in Italia - è che ogni conflitto possa essere governato, che non c'è conflitto che non possa trovare la sua mediazione. In questo senso si può dire che almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale vi è soltanto socialdemocrazia. E questa non poteva che incontrarsi prima o poi col modello liberale, che era per eccellenza portatore di un'istanza di mediazione dei conflitti. Il modello di pensiero che oggi domina la politica è quello della governamentalità. Dev'essere chiaro, però, che governare (il termine deriva dal greco kybernes, il pilota di una nave) non significa determinare despoticamente gli eventi; al contrario, si tratta di lasciare che gli eventi si producano, per poi orientarli nella direzione più opportuna. È in questo senso che oggi tutto può essere governato, gestito e normalizzato. Di qui il primato dell'economia e del diritto sulla politica: dove tutto è normalizzabile e tutto è governabile, lo spazio della politica tende a scomparire. La democrazia è così diventata sinonimo di una gestione razionale degli uomini e delle cose, cioè di una oikonomia. Questo implica una trasformazione radicale della concettualità politica: le guerre diventano operazioni di polizia, la volontà popolare un sondaggio di opinione, le scelte politiche una questione di management, i cui modelli di riferimento sono la casa e l'impresa, e non la città.
Dunque una 'silente' messa a morte del modello democratico occidentale...
Sì, perché la tradizione democratica riposa, invece, sul principio che la politica è possibile solo se vi è da qualche parte un conflitto che non può essere mediato e governato. Non si tratta in alcun modo di un modello di disordine o di guerra civile permanente, al contrario: in questione sono i principi stessi che rendono possibile la democrazia. Nicole Loraux ha mostrato così che ad Atene la stasis, la guerra civile, funziona come una sorta di esteriorità, la cui possibilità fonda e mantiene la democrazia. Ma anche la tradizione della democrazia moderna si fonda sull'idea di un potere costituente che deve essere necessariamente esterno al potere costituito, e senza il quale la vita politica perde vitalità. Si ha democrazia quando il sistema giuridico-politico si mantiene in relazione dialettica con una esteriorità, che non è semplicemente esclusa. Se il potere costituito pretende, invece, di governare il potere costituente e di includerlo in sé, la base stessa della democrazia viene meno. Un caso flagrante è quello della costituzione europea, che, respinta dai popoli, è stata di recente approvata quasi di nascosto a Lisbona in forma di un accordo fra governi. Una costituzione senza potere costituente è del tutto priva di legittimità; ma, nella prospettiva governamentale, legittimità e legalità tendono a confondersi.
La crisi di rappresentanza comporta sempre di più, dunque, una 'dislocazione' dei conflitti: i quali, inevitabilmente, finiscono per assumere forme altre - o di aperta ribellione o di chiusure corporative o anche di derive spiritualiste; mentre all''interno', nel ceto politico, si afferma la cultura del «voto utile». Comunque a vincere sono sempre più gli spiriti animali del Mercato. C'è ancora un modo per ridare centralità alla politica?
La tendenza inarrestabile della macchina governamentale, sia essa nelle mani della destra o della sinistra, è che l'attività della macchina non incontra altri limiti che quelli interni alla macchina stessa. Anzi, nella prospettiva della governamentalità, destra e sinistra non possono che perdere i loro caratteri distintivi e tendere, come di fatto è avvenuto dovunque in occidente, verso una zona di indifferenza e di opacità. Che questo prenda la forma di una grande coalizione, com'è avvenuto in Germania e come si annuncia in Italia, o di un'alternanza fra due partiti quasi indistinguibili, non fa molta differenza. La cultura del «voto utile» si iscrive in questa prospettiva. Naturalmente, la negazione dell'esteriorità lascia un'ombra, o, come voi dite, produce una dislocazione dei conflitti. Queste ombre inassimilabili sono il terrorismo da una parte e l'integralismo religioso dall'altra, che tendono idealmente a coincidere. Benché il terrorismo si presenti a prima vista come qualcosa di assolutamente ingovernabile, esso non è esterno al sistema governamentale, ma ne costituisce, per così dire, il centro segreto. Credo che un'analisi della politica interna italiana durante gli anni di piombo e della politica estera degli Stati Uniti dopo l'11 settembre ne fornirebbe una prova eloquente. Il governo del terrorismo - cioè l'inclusione dell'ingovernabile - è, in questo senso, la forma-limite del sistema governamentale. L'ossessiva insistenza sulla sicurezza, divenuta oggi quasi l'unico slogan politico, va vista in questa prospettiva. Ed è significativo che l'ombra del terrorismo finisca col ricoprire lo stesso corpo sociale nel suo complesso, nel senso che i governi tendono oggi a trattare ogni cittadino come un terrorista in potenza, assoggettandolo in modo normale a quei dispositivi di sicurezza di tipo biometrico che erano stati inventati per i criminali recidivi.
La sinistra, politicamente rappresentata di fatto dal solo Bertinotti, come può rispondere sul piano strategico a quello che lei chiama il problema della governamentalità? A quali riserve culturali 'buone' dovrebbe attingere?
Bisogna che sia chiaro che il processo che ha portato le società occidentali verso il modello governamentale è ormai un fatto compiuto, che di questo processo la sinistra è stata parte essenziale e non sorprende che oggi lo accetti senza riserve. D'altra parte, il potere governamentale è qualcosa di cui sappiamo poco e che dobbiamo ancora imparare a conoscere. La tradizione del pensiero politico occidentale aveva preferito concentrarsi sui grandi temi della sovranità, dello Stato, del popolo, e ha liquidato il problema del governo sotto la rubrica «potere esecutivo», la cui importanza è unicamente strumentale, e che in sé non pone grandi problemi teorici. Le mie ricerche, come del resto quelle di Foucault, mostrano invece che il vero arcano della politica non è la sovranità, ma il governo; non il re, ma il ministro; non Dio, ma l'angelo; non la legge, ma la polizia.
Professor Agamben, lei nel corso degli anni ha teorizzato quel genere di trasformazioni che portano in primo piano la «nuda vita», abbattendo ogni tipo di mediazione: scusi, ma come la mette Veltroni con la biopolitica? Cosa aspettarsi, in fin dei conti, da un governo light della 'trasformazione' della vita?
Per quel che riguarda la biopolitica, cioè il fatto che in senso lato la posta in gioco nel potere sia oggi la gestione della vita biologica dei cittadini e non la loro vita politica, le cose non cambiano. La biopolitica si iscrive perfettamente nel paradigma governamentale, anzi acquista il suo vero senso proprio in questa prospettiva. Il fatto che il governo attuale abbia emanato leggi che prevedono la costituzione di un archivio del Dna va in questa direzione. È un errore credere che la nuda vita significhi soltanto Auschwitz e lo stato di eccezione; molto più interessante è che essa diventi oggi un'esperienza e un'economia quotidiana, e che una dimensione politica debba essere riguadagnata anche attraverso un corpo a corpo con essa.
Il pontificato di Benedetto XVI ha lanciato una precisa sfida filosofica sui principi dell'organizzazione della società: e esercita una certa egemonia, almeno in Italia, anche per la mancanza di un profilo di pensiero 'forte' laico. Cosa comporterà questa disparità di valori in campo, sul piano non tanto politico-istituzionale, quanto proprio della filosofia politica?
Occorre a questo proposito chiarire un equivoco della tradizione laica. Il vero problema non è che la Chiesa intervenga nella vita pubblica, ma che lo faccia troppo poco, e che si sia per così dire specializzata nella tutela della vita biologica e della famiglia (due cose, fra l'altro, che secondo la tradizione cristiana delle origini il cristiano deve essere pronto a sacrificare senza riserve). Invece di indignarsi perché il papa interviene nella sfera pubblica - cosa che è suo dovere fare -, gli si deve chiedere perché non prende posizione con la stessa energia per le infamie quotidiane, le guerre, le ingiustizie, la miseria, per le quali si limita a delle dichiarazioni generiche. È significativo che proprio quando lo Stato ha abbandonato la dimensione politica per la biopolitica, anche la Chiesa sembri voler limitare l'esercizio del potere spirituale alla sfera biologica.
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