lunedì, marzo 10, 2008

Con il sangue agli occhi. Una storia del presente

lettere e scritti dal carcere di George L. Jackson,
a cura di Emilio Quadrelli, Ed. Agenzia X


We want freedom by any means necessary
We want justice by any means necessary
We want equality by any means necessary
Malcolm X, Con ogni mezzo necessario


Dall'Introduzione:

Un figlio del ghetto
Il 21 agosto 1971, nel cortile della prigione di San Quentin, moriva sotto i colpi di fucile di un agente George L. Jackson, field marshal per le prigioni del Black Panther Party. L’evento diede il via a una feroce campagna di terrore e repressione contro il movimento dei neri, condotta senza esclusione di colpi da parte delle più svariate agenzie governative, che coinvolse, fra gli altri, anche la militante comunista Angela Davis. Nel 1972 venivano pubblicati i testi politici elaborati da Jackson poco prima di essere “giustiziato”: un volumetto di circa duecento pagine dal titolo Blood in my Eye. Una raccolta di brevi quanto intensi saggi scritti subito dopo la morte di Jonathan, il fratello minore, ucciso dalla polizia mentre cercava di allontanarsi dal tribunale di San Rafael insieme a tre prigionieri che aveva liberato poco prima. Trentacinque anni dopo, una sua rilettura e riproposizione appare tutt’altro che un’operazione di pura filologia. Infatti quella che all’epoca sembrava una pura e semplice particolarità nordamericana – la presenza di una “colonia interna” in una società a capitalismo avanzato – oggi, nell’era del capitalismo globale, più che a un’eccezione sembra rimandare a un elemento normativo e ordinativo delle metropoli globalizzate.

Dinanzi all’attuale proliferare delle innumerevoli “colonie interne” nei nostri territori, l’anomalia americana dell’epoca – un “terzo mondo” sedimentato all’interno di quelle che molti iniziano a definire società neocapitaliste – obbliga a rileggere l’esperienza del movimento nero statunitense con un occhio di riguardo. A ben vedere, la storia del Black Panther Party, e in generale del movimento black, più che una storia del passato da archiviare fra gli scaffali di un’ipotetica archeologia novecentesca sembra essere l’incipit di una storia del presente. Focalizzare l’attenzione su quell’esperienza offre spunti fondamentali per decifrare la realtà e le forme che il conflitto ha repentinamente assunto nei nostri mondi contemporanei. In poche parole una rilettura del movimento nero nordamericano consente di prendere familiarità con elementi quali “popolo” o “razza” “colonizzati”; questi appartengono alla classe proletaria ma al contempo sono portatori di caratteristiche e peculiarità che incidono non poco sull’agire concreto dei loro movimenti politici e sociali. Tali movimenti sono stati a lungo trascurati dalle retoriche predominanti del Novecento, in cui il conflitto declinato interamente sulla classe svolgeva un ruolo egemone. Il secolo scorso è stato infatti contrassegnato, almeno a partire dal 1917, dalla messa in forma di una guerra civile internazionale declinata sull’appartenenza di classe. Un confronto e un conflitto storico la cui posta in gioco era il destino della Storia, giocato tra proletariato e borghesia, le uniche due classi che si autorappresentavano e venivano considerate la legittima incarnazione della storia stessa. Una storia che ha egemonizzato interamente l’intero secolo breve.

L’era del capitalismo globale ha radicalmente modificato lo scenario sociale e politico dei nostri mondi e ha posto fine a quest’epoca scompaginando non poco gli orizzonti concettuali del pensiero politico e della teoria radicale che, in molti casi, si è trovata impreparata a trovare una grammatica adeguata al presente. Se la classe (nella sua accezione storico-politica e non socio-economica) sembra avere perso quel destino che per un intero ciclo storico le era stato “oggettivamente” riconosciuto in quanto antitesi del presente, non per questo il conflitto è stato espunto dai nostri mondi, contrariamente a quanto le retoriche predominanti sull’era del capitalismo globale hanno a lungo sostenuto. Emergono in maniera sempre più dirompente i caratteri antagonisti e conflittuali non tanto della classe quanto dei subalterni. Su questa scia, pertanto, lo scritto di George L. Jackson acquista non poca attualità.

Figlio del ghetto, Jackson passò attraverso l’obbligato “romanzo di formazione” tipico dei giovani proletari neri. Lavori saltuari e sottopagati e l’infinita serie di attività microcriminali che, da sempre, rappresentano la principale fonte di sussistenza per il popolo nero; un canovaccio cui è praticamente impossibile sottrarsi e che inevitabilmente porta i neri a incontrarsi e scontrarsi con il sistema penitenziario, dove il razzismo della società statunitense si mostra in tutta la sua brutalità. In prigione, non diversamente da quanto era accaduto a Malcolm X, George L. Jackson elaborò la propria maturazione. Non sono pochi i tratti che legano i due. Il percorso di Malcolm X, com’è noto, passa attraverso l’esperienza della Nation of Islam per finire, una volta consumata la rottura con tale organizzazione e soprattutto con Elijah Muhammad, con la costituzione dell’Organization for African-American Unity (Oaau). Il suo percorso internazionalizzò il movimento nero, ponendo la “questione negra” negli Stati Uniti come istanza tutta interna al più generale movimento di decolonizzazione che, proprio a metà degli anni sessanta del Novecento, aveva assunto un ruolo preponderante nel panorama politico internazionale. Jackson fece suoi questa dimensione internazionale e questo legame “oggettivo” con le vicende delle lotte di tutti i «dannati della terra» fin dall’inizio della propria militanza. Si tratta di un tema decisivo, del quale diremo qualcosa in seguito. È un altro però il punto sul quale, ora, ci sembra opportuno soffermarsi.

Fin dai suoi esordi come “militante islamico” all’interno della prigione Malcolm X, preso atto della condizione disperata e disgregata in cui viveva il popolo del ghetto, si era posto il problema di restituire al proprio popolo un’identità forte insieme a una disciplina etica e comportamentale al limite del monastico. Ben presto al “manovale nero” era apparso chiaro che un “popolo” che finiva con l’incarnare e sintetizzare uno stile di vita “decadente”, “putrefatto” e totalmente assoggettato ai modelli culturali bianchi avrebbe avuto ben poche chance di riscatto ed emancipazione. Nell’Islam politico prima e nell’accostamento di questo al movimento per la decolonizzazione e al socialismo poi il vecchio hustler individuò un possibile percorso per il nigger.

Centrale, per Malcolm X, è la messa a fuoco di un percorso di educazione e di lotta politica, culturale, militare ma anche etica e morale in grado di restituire dignità e autostima alla «Colonia nera». Per Malcolm X si tratta della condizione indispensabile al
nigger per intraprendere un percorso vincente di emancipazione. Con la sua dichiarazione volutamente provocatoria: «Il nero è il peggior nemico del nero», Malcolm X dichiara formalmente guerra a tutte le cornici socio-culturali in cui la società bianca ha inscritto il nigger e che quest’ultimo ha finito per fare interamente proprie, rimanendo imprigionato tra Il popolo del blues e Corri uomo corri.

Sotto questo profilo, il comportamento di Jackson non appare molto diverso. Nella «lettera a un compagno» che apre Con il sangue agli occhi, pur riconoscendo il ruolo essenziale che il giovane illegale del ghetto riveste per la lotta rivoluzionaria, Jackson è ben lontano dal considerarlo, in quanto hustler, un soggetto politico già definito. Distante dal romanticismo con cui, non di rado, il mondo bianco guarda ai ragazzi di strada del ghetto, Jackson non perde occasione per raccomandare agli ex compagni di prigionia tornati liberi e che in carcere si sono avvicinati al movimento e al Bpp di non farsi trascinare nella china senza sbocchi della “filosofia dell’azione”, ricordando loro in continuazione la necessità di mettere al centro della loro iniziativa il lavoro di formazione teorica finalizzato alla costituzione di solidi quadri politici.

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