venerdì, marzo 28, 2008

Intervista a Slavoj Žižek sulla felicità passando per il masturba-telethon e i legami sociali

a cura di Laura Piccinini

La felicità è intrinsecamente ipocrita: in realtà la cosa peggiore che potrebbe capitarci sarebbe ottenere "ufficialmente" quel che desideriamo (o meglio che fingiamo di desiderare). "L'idea che "la felicità sia il dovere supremo" è l'elevazione della trasgressione stessa in imperativo morale. Non ci si deve stupire se negli ultimi anni lo studio della felicità è emerso come una disciplina scientifica: adesso ci sono professori di felicità, istituti di qualità della vita, e persino un Journal of Happiness Studies. Questa disciplina ha due branche: una ha un approccio più sociologico, basato su dati raccolti in differenti culture, professioni, religioni, gruppi economici e sociali. Si tratta di ricerche ben consapevoli del fatto che la nozione di felicità dipende dal contesto culturale. Per esempio, del fatto che è solo nei Paesi occidentali che la felicità è vista come un riflesso del successo personale. I risultati sono spesso interessanti: la felicità non è la stessa cosa della soddisfazione per la propria situazione, ci sono nazioni con un tenore di vita basso o medio eppure percentuali alte di persone molto felici; mentre le nazioni più felici, perlopiù quelle occidentali e individualiste, tendono ad avere i livelli più alti di suicidi e in esse domina l'invidia, ciò che conta non è tanto ciò che hai, quanto ciò che hanno gli altri. Poi c'è l'approccio psicologico, o meglio neurologico, del tipo: i sentimenti di soddisfazione e felicità possono essere valutati grazie a un'esatta misurazione dei processi cerebrali. Nel momento in cui scienze cognitive e New Age si combinano, eccoci di fronte a una sorta di scatto etico: qui dovremmo parlare di bio-morale, l'esatto parallelo nelle menti del dominio della cosiddetta biopolitica sui corpi. Non è stato forse il Dalai Lama a dire: "Lo scopo della vita è la felicità"? Ma per la psicoanalisi non è così.

Eppure, la psicoanalisi si era posta come scopo la cura del "disagio" umano... anche se spesso ha fallito nel suo compito.

Ci sono solo due teorie che implicano e praticano una nozione impegnata di verità: il marxismo e la psicoanalisi. Entrambe sono teorie sull'antagonismo, ma il fatto è che sono antagoniste in se stesse, sempre impegnate in lotte interne, fatte di purghe, scissioni, revisioni e via dicendo. Tanto nel marxismo come nella psicoanalisi la teoria non è solo il fondamento della pratica, in effetti dà conto del perché la pratica, politica o clinica che sia, è alla fin fine destinata al fallimento - del perché prima o poi "le cose vanno storte".
"I grandi casi clinici di Freud sono resoconti di successi parziali e fallimenti finali e, allo stesso modo, i resoconti marxisti dei grandi eventi rivoluzionari (la rivolta dei contadini tedeschi del XVI Secolo, la Rivoluzione francese, la Comune di Parigi, la Rivoluzione d'Ottobre, la Rivoluzione culturale in Cina...) sono anche cronache di grandi fallimenti. Il tempo di queste grandi teorie sembra finito. "Nel 2005 al Libro nero del Comunismo, è poi seguito il Libro Nero della Psicoanalisi, che ne elenca gli errori e le frodi. Eppure ci sono segni che disturbano il compiacimento postmoderno per la fine delle teorie forti. Il successo crescente del pensiero di Alain Badiou, per esempio, è stato recentemente bollato in Francia da Alain Finkelkraut come "il più violento ritorno filosofico del radicalismo, il collasso dell'antitotalitarismo". Ciò che si dava per spacciato, completamente screditato, sta ritornando per vendicarsi. È ben comprensibile la disperazione dei pensatori postmoderni: come può essere che, dopo aver spiegato per decenni in saggi elitari e davanti ai mass media il pericolo dei "cattivi maestri" del totalitarismo, questa filosofia possa ancora rifarsi viva? Invece dovremmo rovesciare la prospettiva e, come direbbe Badiou nel suo inimitabile stile platonico, sostenere che le vere idee sono eterne, indistruttibili, e tornano sempre ogni volta che sono proclamate morte.

Sembra un ritorno del platonismo. Ma anche in Platone resta aperta la questione del modo in cui possiamo mediare questo livello ideale, impersonale, con la realtà individuale. Dopotutto, la psicoanalisi non è anche una teoria di ciò che vi è di più intimo nell'individuo, la sessualità?


Possiamo prendere come esempio uno degli esiti più recenti della liberazione sessuale, il masturba-telethon, un evento collettivo in cui migliaia di uomini e donne si danno piacere per fare azioni caritatevoli, raccogliere denaro per agenzie di salute riproduttiva, e - come dicono gli organizzatori - accrescere la consapevolezza ed eliminare vergogne e tabù che persistono circa questa comune, naturale e sicura forma di attività sessuale. Ma l'istanza ideologica soggiacente alla nozione di masturbazione è segnata dal conflitto tra la sua forma e il suo contenuto: costruisce una collettività traendola da individui pronti a condividere con altri il
solipsistico egotismo dei loro stupidi piaceri. Ciò che è cruciale è il soggiacente patto simbolico che permette ai masturbatori di condividere uno spazio (in California dicono "to share an experience") senza turbare lo spazio dell'altro. Più uno vuole essere solipsista, più una qualche figura di garante segreto, di grande Altro, è necessaria per regolare la sua distanza dagli altri esseri umani.

Tuttavia, un luogo comune recita che, viceversa, oggi siamo di fronte alla crisi completa dei tradizionali legami sociali, insomma di ciò che tu definisci (sulla scorta di Lacan) col nome di grande Altro, il sistema.


Certo: che cosa si va smarrendo nei legami sociali odierni se non il grande Altro? Tuttavia occorrerebbe fare attenzione ai modi di questa sparizione. Quando, più o meno tra un decennio, il denaro sarà diventato un punto di riferimento puramente virtuale, non più materializzato in un oggetto particolare, questa smaterializzazione renderà il suo potere
feticistico assoluto: la sua stessa invisibilità lo renderà onnipotente e onnipresente. Il compito di una politica radicale è pertanto non di denunciare l'inadeguatezza di questo o quel piccolo rappresentante individuale, empirico, del grande Altro (una simile critica rinforzerebbe solo la presa del grande Altro su di noi), ma di smantellare il grande Altro stesso e, in tal modo, liberare il legame sociale che il grande Altro sostiene. Oggi, mentre tutti lamentano il dissolvimento dei legami sociali (e così finiscono per mascherare la loro presa su di noi, che è più forte che mai), il vero lavoro di smontarli è ancora tutto da fare, ed è più urgente che mai.

Puoi farci un esempio di questo lavoro? Cosa dobbiamo fare concretamente, non partecipare ai "masturba-telethon"?


Il problema oggi non è cosa non puoi fare - il divieto positivo - ma il fatto che puoi fare tutto - sesso anale, orale, fist fucking... [Zizek usa il tipico "but" anglosassone]. Però devi indossare guanti, condom, insomma protezioni, distanze minime verso lo spazio dell'altro. Prendiamo l'idea di tolleranza liberale (e magari multiculturale): si sta trasformando sempre di più in un tipo specifico di intolleranza. Ciò che significa veramente è: lasciami in pace, non molestarmi, sono intollerante verso la tua eccessiva prossimità. La stessa nozione di molestia sessuale nelle nostre società occidentali contemporanee andrebbe letta criticamente: l'esperienza di una molestia sessuale o razziale può essere atroce, ma tale nozione rischia di scivolare impercettibilmente in una sorta di nevrosi sociale che non significa altro che un'ingiunzione a stare fuori dal mio spazio privato. Possiamo prendere le cose da un altro lato: di recente in Germania è scoppiata una polemica riguardo alla cultura dominante (Leitkultur): contro il multiculturalismo astratto, i conservatori insistevano che ogni Stato è basato su un predominante spazio culturale che i membri delle altre culture che vivono in quello spazio
dovrebbero rispettare. Naturalmente, i liberal di sinistra hanno attaccato questa idea come razzismo mascherato: invece dovremmo ammettere che, se non altro, questa nozione offre una adeguata descrizione dei fatti. Il rispetto per le libertà e i diritti individuali (anche a costo di sacrificare i diritti di gruppi minoritari), la piena emancipazione delle donne, la libertà di religione (e di ateismo) e di orientamento sessuale, la libertà di attaccare pubblicamente chiunque e qualunque cosa, sono elementi centrali della leitkultur occidentale. Ed è così che dovremmo rispondere a quei teologi musulmani che nei Paesi occidentali protestano contro il modo in cui vengono trattati, ma accettano come normale che, per esempio in Arabia Saudita, sia proibito praticare pubblicamente altre religioni se non quella islamica... La risposta al tipico argomento critico che il multiculturalismo occidentale non è veramente neutrale, che privilegia una specifica visione del mondo, è che noi dovremmo accettare senza vergogna questo paradosso: l'apertura "universalista" come tale è radicata nella "particolare" modernità occidentale. Prendiamo un esempio che viene dall'Italia: nel 2007 il giornale ufficiale del vaticano, L'Osservatore Romano, ha accusato di "terrorismo" Andrea Rivera, un comico italiano che aveva attaccato le posizioni del papa sull'evoluzionismo [al concerto del Primo maggio Rivera aveva detto cose come "Il papa dice che non crede nell'evoluzionismo. Sono d'accordo, infatti la Chiesa non si è mai evoluta"]. Rivera aveva anche criticato la Chiesa per avere negato i funerali cattolici a Piergiorgio Welby, pur avendoli concessi a Pinochet o Franco. Ora, l'equazione soggiacente tra la critica intellettuale e il terrorismo fisico viola brutalmente la leitkultur occidentale europea. Entro la nostra leitkultur L'Osservatore Romano, nel suo rifiuto delle semplici e ragionevoli obiezioni di Rivera in quanto "sfogo di rabbia cieco e irrazionale", è in realtà il vero "terrorista"!".

Nel tuo ultimo libro, In difesa delle cause perse, affronti una serie di temi praticamente spariti dall'agenda postmoderna - dal nazismo di Heidegger al terrore rivoluzionario, allo stalinismo, fino, ahimè, alla dittatura del proletariato...


"Questa volta credo di essermi fatto un po' di nemici... Diciamo che il vero senso della "difesa delle cause perse" non è difendere il terrore stalinista, ma è rendere problematica l'alternativa liberal-democratica, che accettiamo senza riserve. Lo stalinismo, per esempio, fu senz'altro un
incubo che ha causato forse più sofferenze umane del fascismo, ma questa non è tutta la verità: in ciascuno di questi fatti storici vi è stato un momento di redenzione che è andato perduto nel nuovo ordine liberal-democratico - ed è cruciale isolare questo momento. Isolarlo e capire come potrebbe tornarci utile".

(l'origine dell'intervista è purtroppo rimasta sconosciuta, qui è stata ripresa dalla mailing-list Precog)

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