Brano tratto da Frantz Fanon, Scritti politici - volume II
L’anno V della rivoluzione algerina, edizioni DeriveApprodi.
Il regime coloniale è un regime introdotto con la violenza. È sempre con la forza che il regime coloniale si impone. È contro la volontà dei popoli che altri popoli numericamente più potenti o con tecnologie di distruzione più avanzate si sono imposti. Intendo dire che un sistema così fondato sulla violenza non può che essere fedele a se stesso e la sua durata nel tempo dipende dalla conservazione della violenza. Ma la violenza di cui è questione non è una violenza astratta, non è solo una violenza dello spirito, ma una violenza quotidiana del colonizzatore sul colonizzato: apartheid in Sudafrica, lavori forzati in Angola, razzismo in Algeria. Disprezzo, politica dell’odio, queste sono le manifestazioni di una violenza tanto concreta quanto dolorosa.
Tuttavia, il colonialismo non si accontenta di questa violenza nel presente. Il popolo colonizzato viene ideologicamente presentato come un popolo la cui evoluzione si è bloccata, impermeabile alla ragione, incapace di dirigere i propri affari, bisognoso di essere governato in permanenza. La storia dei popoli colonizzati viene trasformata in agitazione senza alcun significato e, per questo, si ha l’impressione che per questi popoli l’umanità sia cominciata con l’arrivo dei valorosi coloni. Violenza nel comportamento quotidiano, violenza nei confronti del passato, svuotato di ogni sostanza, violenza nei confronti dell’avvenire, poiché il regime coloniale si pone come necessariamente eterno. Vediamo dunque che il popolo colonizzato, preso nella gabbia di una violenza tridimensionale, punto d’incontro di violenze molteplici, diverse, reiterate, cumulative, arriva rapidamente e logicamente a porsi il problema della fine del regime coloniale, con qualsiasi mezzo.
Questa violenza del regime coloniale non è vissuta soltanto sul piano dell’anima, ma anche coi muscoli e col sangue. Questa violenza che si vuole violenta, che diviene sempre più smisurata, produce irrimediabilmente la nascita di una violenza interna nel popolo colonizzato ed è così che insorge una collera giusta che cerca il modo di esprimersi. Il ruolo del partito politico che prende in mano i destini di quel popolo è di convogliare questa violenza e di canalizzarla, offrendole una piattaforma pacifica e un terreno costruttivo perché, per lo spirito umano che contempla lo svolgimento della storia e che tenta di restare sul terreno dell’universale, la violenza deve innanzitutto essere combattuta col linguaggio della verità e della ragione. Ma accade sfortunatamente – e non c’è nessuno che non deplori tale esigenza storica – che, in certe regioni asservite, la violenza del colonizzato divenga semplicemente una manifestazione della sua esistenza propriamente animale.
Dico animale e parlo da biologo, perché tali reazioni, tutto sommato, sono reazioni di difesa che traducono un banale istinto di conservazione. La conquista della rivoluzione algerina, il suo culmine grandioso, è aver trasformato l’istinto di conservazione in valore e in verità. Per il popolo algerino, l’unica soluzione era questo scontro eroico in seno al quale doveva cristallizzare la sua coscienza nazionale e approfondire la sua essenza di popolo africano. E nessuno potrà negare che tutto il sangue versato in Algeria sarà infine il nutrimento della grande nazione africana. In certe colonie, la violenza del colonizzato è il gesto ultimo dell’uomo braccato, è il suo essere pronto a perdere la vita. Alcune colonie si battono per la libertà, l’indipendenza, il diritto alla felicità. Nel 1954, il popolo algerino ha preso le armi perché l’oppressione della gabbia colonialista diventava insopportabile, perché la caccia agli algerini nelle strade e nelle campagne era definitivamente aperta e perché, infine, non si trattava più per lui di dare un senso alla propria vita, ma di darne uno alla propria morte.
lunedì, ottobre 08, 2007
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