mercoledì, ottobre 10, 2007

I conflitti delle identità negate - intervista a Pizzorno

Pubblico di seguito l'intervista fatta da Benedetto Vecchi ad Alessandro Pizzorno ed uscita su il manifesto di ieri. Pizzorno è uno dei sociologi italiani viventi più importanti e qui si sofferma su alcune questioni importanti - quali il rapporto identità/globalizzazione - fornendone una lettura interessante, certamente sintetica ma che può invitare a conoscere più approfonditamente i suoi lavori.

Qui l'articolo completo.


Lei dedica critiche durissime all'individualismo metodologic. Uno dei compagni di strada di questa critica è Albert Hirshman e la sua tassonomia dell'azione sociale (la defezione, la protesta, la lealtà)...

Hirshman è senza dubbio un autore importante perché la sua riflessione non partiva dalla convinzione che la realtà sociale potesse essere spiegata partendo dalle strategie individuali di massimizzare i propri interessi. Ne abbiamo parlato molte volte negli incontri che abbiamo avuto. Siamo stati sempre in sintonia sul carattere «sociale» del comportamento umano rispetto a quelle spiegazioni che privilegiavano le intenzionalità, le passioni, gli interessi individuali. Poi abbiamo preso strade diverse e ci siamo, come si dice, persi di vista. In questa mia esplorazione dell'azione sociale mi sono imbattuto in autori, come ad esempio il filosofo Donald Davidson, secondo i quali c'è razionalità in un'azione sociale quanto essa è coerente con le intenzioni degli attori sociali. Una spiegazione seducente certo, che pone tuttavia un problema: siamo così sicuri di sapere appieno quali siano le intenzioni, i desideri, insomma la ratio degli attori coinvolti in un'azione? Ne dubito. Noi sappiamo solo ciò che vediamo. Dunque, un ricercatore deve recepire un'azione e al stesso tempo situarla. Deve cioè interpretarla.

Lei sostiene che società può essere una parola fuorviante se non adeguatamente qualificata. Infatti, lei preferisce parlare di «cerchia di riconoscimento», quasi che le relazioni di prossimità spieghino il perché e il come delle relazioni sociali. Solo in base a questa preliminare interpretazione si possono arricchire di specificazioni successive....

La cerchia di riconoscimento non coincide solo con le realzioni di prossimità. Può indicare anche un partito, un sindacato, un'impresa, una nazione. Vorrei però introdurre un altro concetto, quello di «reidentificazione». Quando io voglio spiegare un fatto o un evento, come si dice nella nostra contemporaneità, mi trovo di fronte a una situazione in cui è stata attribuità una identità alle persone. Il ricercatore deve tuttavia compiere un'operazione preliminare: deve reidentificare la persona alla luce di quanto accaduto nella realtà in seguito all'azione che compie. Prendiamo una ragazza di religione musulmana che decide di indossare il velo quando va a scuola in Francia o in Italia, dove indossare un velo è segnato da un disvalore: ma cosa accade quando lo indossa? come modifica i comportamenti degli altri? La risposta a queste domande svela la razionalità dell'azione e al tempo stesso svolge appunto un lavoro di reidentificazione, perché la ragazza stessa è modificata da quell'azione. La chiave di tutto per me sta proprio nel riconoscimento: si compiono delle azioni perché vogliamo essere riconosciuti, cioè vogliamo la stima, la fiducia e acquisire visibilità nel nostro gruppo di riferimento. Sono stato spesso accomunato al filosofo tedesco Alex Honneth, ma mentre lui intende il riconoscimento come rispetto degli altri, io preferisco rifarmi a quanto sostiene Hegel a proprosito del servo e del padrone: diventano l'uno servo, l'altro padrone, quando c'è riconoscimento reciproco. Da questo punto di vista aderisco totalmente a una certa ortodossia sociologica che privilegia le relazioni sociali alle intenzioni degli individui. Dunque Max Weber di quando faceva ricerca, Emile Durkheim studioso della società, Karl Marx e la centralità dei rapporti sociali. Il mio è solo un contributo per uscire fuori dalla condiszione disastrosa in cui siamo caduti a causa dell'egemonia dei teorici della scelta razionale e della intenzionalità come motore dell'azione.

Lei parla spesso parla di capitale sociale in termini polemici con la concezione economicista che spesso accompagna questo concetto.....

È un concetto che ha una lunga storia. Ci sono le reti sociali ampiamente studiate da Mark Granovetter. C'è poi Robert Putnam, ma che recentemente ne dà una lettura minimalista, quasi che il capitale sociale sia espressione di una generica tendenza ad avere rapporti di buon vicinato Allo stesso tempo, Pierre Boudieu ha parlato di capitale sociale in relazione al possesso di alcune risorse (relazionali, di know how). Dal mio punto di vista il capitale sociale non si rifereisce a relazioni di scambio, né al semplice incontro casuale tra persone. Non si può parlare di capitale sociale quando ci troviamo di fronte a relazioni di ostilità, conflittuali o di sfruttamento. Possiamo dunque parlare di capitale sociale solo in presenza di relazioni continuative nel tempo, segnate da solidarietà e reciprocità e in cui è possibile che le identità dei partecipanti siano riconosciute.

Lei parla di identità sempre all'interno di una relazione duale: io e l'altro. Mi sembra invece che la tematica della identità debba introdurre un'altra figura che va a comporre un triangolo. Possiamo chiamarla uditorio, oppure dell'intervento esterno del ricercatore. In altri termini, si può parlare di identità solo in un rapporto triangolare, dove il terzo partecipante alla relazione «certifici» l'identità di entrambi di partecipanti alla relazione. Lei che ne pensa?

Non avevo mai pensato a una terza figura che attesta il riconoscimento. Ci devo pensare, ma se analizziamo il riconoscimento dell'identità effettivamente c'è bisogno di una terza figura, che potremmo chiamare il «certificatore», che attesta le identità delle persone coinvolte nella relazione. Ripeto: non so se sono d'accordo con questo schema, ma è uno schema a prima vista convincente..

La maschera è una costante nella sua riflessione. Possiamo però pensare all'identità come una maschera.....

Certo, l'identità è una maschera che posso indossare per presentarmi come nordafricano, nero, musulmano, cioè in base a tipologie e tassonomie di persone e gruppi umani che vogliono presentarsi con alcune caratteristiche immutate nel tempo. Sappiamo, però, che non è così, perché l''identità si definisce in una relazione, sia all'interno di uno stesso gruppo che al di fuori del gruppo. Soltanto che si pone un primo problema: se la mia identità di nordafricano, nero, musulmano non viene accettata dagli altri, cosa faccio? Posso lavorare a quelli che Alain Touraine chiama i meccanismi di integrazione. Ma questo aggiustamento della maschera è un tradimento dell'identità «certificata». La stessa rivendicazione di una identità originaria è tuttavia un tradimento, perché, ripeto, c'è identità all'interno di relazione sociale. Dunque la maschera consente di presentarmi alla relazione con l'altro, ma così facendo accetto il fatto di doverla continuamente modificare all'interno di questa relazione.

Sul tema identità e globalizzazione è stato scritto molto. Una cosa però è certa: l'identità, in un mondo globale, è sia un riparo attraverso il quale possiamo essere riconosciuti. Ma anche il manufatto per entrare a forza nella cerchia di riferimento che è la società globale.

Si, è un riparo dietro il quale ci difendiamo dai fattori «destabilizzanti» della globalizzazione. Ma anche lo strumento attraverso il quale possiamo essere riconosciuti. Indossiamo quindi la maschera e poi la modifichiamo per poter essere riconosciuti anche quando viene la usiamo per criticare i meccanismi di integrazione della globalizzazione. Oscilliamo cioè tra integrazione e rifiuto.
Lei dunque tende ad escludere che un'identità possa essere inventata, meglio immaginata, per parafrasare il libro di Benedict Anderson «Le comunità immaginarie»?

Non escludo questo, ma aggiungo solamente che una volta inventata o immaginata deve essere riconosciuta, altrimenti torniamo a spiegare la società in base alle intenzioni dei singolii. È solo nel riconoscimento che un singolo o un gruppo sociale può esercitare la voice, l'exit o la loyalty. Il riconoscimento è infatti indispensabile, perché garantisce visibilità, reputazione, dignità.
Mi viene spesso obiettato che in passato non c'erano solo lotte per il riconoscimento, ma anche lotte di classe. Dal mio punto di vista anche quelle degli operai o dei proletari se preferisce erano lotte per il riconoscimento. Non si lotta solo per avere dei vantaggi, ma sopratutto per essere riconosciuti. Certo entriamo in un terreno ambiguo, perché accanto all'identità emerge il suo corollario, la diversità. Il riconoscimento non è mai indolore. E infatti può essere l'esito di relazioni molto conflittuali, perché all'interno di ogni relazione è sempre presente la minaccia di andarsene e dimostrare che non hai bisogno dell'altro. È come nel rapporto amoroso, che è sempre una relazione conflittuale perché è latente la possibilità che uno dei due partner renda operativa la minanccia di andarsene, abbandonando così l'amato o l'amata. In passato ho molto studiato i conflitti di lavoro e mi sono trovato di fronte delle situazioni paradossali, specialmente negli Stati Uniti. Poteva esserci un imprenditore che offriva 200 dollari in più per un determinanto tipo di lavoro e gli operai rifiutavano perché quel lavoro avrebbe comportato il tradimento della propria identità e dell'apparato di riconoscimento che avevano contribuito a costruire. Può sembrare un assurdo un comportamento così «disinteressato», visto che dalla mattina alla sera c'è sempre qualcuno che sentenzia sulla tendenza innata dei singoli a massimizzare i propri interessi. Eppure accade il contrario, perché il riconoscimento vuol dire solidarietà, reciprocità, comunanza.

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