il manifesto, 12 novembre 2006
Dal lavoratore fordista al precariato postfordista, per riconoscere le forme del comando del capitale e le risposte operaie. Ma oggi bisogna riformulare la metodologia e le domande, sul lavoro e sulla vita. Il lavoro di inchiesta dei Quaderni Rossi nasce come strumento di battaglia politica e «anti-ideologica». Possiamo distinguerne schematicamente due fasi. La prima fase comprende il biennio ’60-’61, con inchieste in particolare alla Fiat e alla Olivetti. Stavano riprendendo massicciamente le lotte operaie, ma la Fiat ne restava fuori. Anche per questo restava forte, nella sinistra, l’ideologia che delle forme avanzate del capitalismo sottolineava la capacità di «integrare» la classe operaia. L’alienazione, e il conseguente terreno di lotta, si spostavano altrove dalla fabbrica, sul piano dei consumi e della democrazia. Questa ideologia era il rovesciamento simmetrico di quella, fino allora dominante nelmovimento operaio, sull’arretratezza del capitalismo italiano: se il conflitto di classe in Italia era legato all’arretratezza, l’uscita dall’arretratezza lo avrebbe ridotto o spostato su altri terreni, lontano dai luoghi di produzione.
Le inchieste dei Quaderni rossi , al contrario, fornirono elementi essenziali per l’ipotesi che il conflitto di classe si sarebbe sviluppatoanche e soprattutto nelle aree di capitalismo avanzato, con tutte le implicazioni strategiche che quest’ipotesi comportava. Questi elementi furono confermati dalle grandi lotte operaie del’62-63. E questa battaglia non era solo dei Quaderni rossi: era comune a una buona parte della Cgil (in particolare torinese) e a consistentiminoranze del Pci e del Psi. Dopole grandi lotte del 62/63, il problema diventa l’ingabbiamento delle lotte operaie con la loro dirompente carica politica e dello stesso sindacato. Di fronte a questo quadro, c’era la via d’uscita ideologica di «dedurne» che la lotta operaia andava ormai «al di là» delle linee dei partiti e dei sindacati, collocandosi in una prospettiva rivoluzionaria. Questa era, secondo Panzieri e i suoi seguaci, l’impostazione di Tronti e degli altri compagni che diedero vita al gruppo di Classe operaia.
A fronte di questo, Panzieri e i compagni rimasti nei Quaderni rossi individuarono nell’inchiesta lo strumento per cogliere elementi di antagonismo reali (non ipostatizzati) e per verificare come si collocavano rispetto alle organizzazioni delmovimento operaio e alle istituzioni. Sta di fatto che questo progetto di inchiesta non fu mai compiutamente realizzato. Tuttavia, per la prima volta i Quaderni rossi formulavanoun discorso sulla funzione strategica dell’inchiesta (e, si noti, senza conoscere le formulazioni di Mao su questo tema, che restano a mio avviso le più complete e attuali). A parte questo, i Quaderni rossi svilupparono, su campi più circoscritti ed empirici, lavori di inchiesta nelle situazioni in cui avevano rapporti operai reali: è il caso della Olivetti (col gruppo «Lotta di classe») e della stessa Fiat (col giornale La voce operaia). L’inchiesta dei Quaderni rossi ruotava su un presupposto teorico derivato anche dalla rilettura e attualizzazione che Panzieri faceva di Marx, inparticolare della quarta sezione del primo libro del Capitale.
L’ipotesi era che il comando capitalistico sul lavoro e gli sviluppi delle forme in cui esso si esercita fossero un tema politicamente, non solo economicamente, centrale nell’elaborazione diuna strategia rivoluzionaria nel capitalismo avanzato. L’inchiesta dei Quaderni rossi aveva comeoggetto quello che oggi si chiama (talvolta con un certo disprezzo...) il «lavoratore fordista». Non nella visione riduttiva che lo riduceva all’operaio, tantomeno all’«operaio-massa» - basta pensare all’attenzione con cui Romano Alquati intervistava capi intermedi e impiegati-tecnici. Da allora, la situazione è indubbiamente molto cambiata. Senza pretendere di darne un’analisi complessiva, quali sono gli elementi di novità che presentano implicazioni particolarmente rilevanti dal punto di vista dell’inchiesta?
Ci sono mutamenti registrabili e leggibili attraverso i vecchi schemi di inchiesta; altri invece che richiedono domande nuove e una revisione e ridefinizione di quegli schemi. Duemi sembrano da questo punto di vista i mutamenti più rilevanti. In primo luogo, la tendenza a una crescente diffusione-prevalenza della dimensione intellettuale del lavoro (mi riferisco alla dimensione intellettuale «esplicita», quella «implicita» essendo già ricchissima nel lavoro dell’operaio dimestiere). Il che non significa necessariamente lavoro più qualificato; significa che nel lavoro la funzione dell’ elaborazione di informazioni risulta sempre più centrale ed esplicita. In secondo luogo, il passaggio da un mercato del lavoro «dualistico» - diviso cioè tra due segmenti, uno qualificato, «forte» e stabile, uno dequalificato, debole e più instabile - a una precarietà nel mercatodel lavoro che investe tutti i livelli di qualificazione, e a una diversificazione nello stesso tipo di rapporto di lavoro.
Quali sono le conseguenze rilevanti di questa nuova situazione? Mi limito ad alcuni esempi. La qualificazione, da patrimonio personale costruito attraverso un percorso spesso faticosoma coerente, diviene una «potenzialità» fatta di percorsi di apprendimento e adattamento erratici e eterogenei, che spesso non offrono possibilità di accumulazione di esperienza. La precarietà investe i progetti di vita, spesso con un capovolgimento rispetto alla situazione del lavoratore fordista. Se questi poteva dire «ho un lavoro di merda, ma una volta uscito dalla fabbrica mi godo il mio tempo e la mia vita», il lavoratore precario qualificato di oggi è facile che dica al contrario «faccio un lavoro mica male, ma appena fuori dal lavoro cominciano le angosce su come faccio a metter su casa o famiglia, ecc.».
Tuttavia, il nucleo centrale su cui concentrare oggi l’«attenzione di ricerca» sta nei sistemi informativi, cioè nelle reti dei flussi di informazioni in cui, sul lavoro e fuori dal lavoro, il lavoratore è situato. Sul lavoro, è collocato in un tessuto di informazionipiù ricco di prima (anche l’operaio di montaggio deve digitare informazioni su un computer, e dovrebbe recepirne alcune che lo riguardano); ed è importante la proporzione tra la fetta che egli può in qualchemodogestire autonomamente (scegliendo le informazioni e quale uso farne) e la parte «alienata» (si decide «dall’alto » quali informazioni dargli, e queste spesso «prescrivono» anche il suo comportamento conseguente). Fuori dal lavoro, si aprono nuove possibilità di inserimento in reti anche molto ricche ed ampie di informazioni: nuove «possibilità a rete» che sostituiscono il tessuto di relazioni più stabile ma più circoscritto del «lavoratore fordista», aprendo nuove possibilità sia sul terreno professionale sia su quello politico; qui diventa importante capire quanto le informazioni ricevute sul lavoro possono essere utilizzate autonomamente sul terreno del collegamento con altri e dell’organizzazione.
Al di là di questi aspetti, c’è una questione di fondo. I percorsi di mobilità nel mercato del lavoro flessibile sono un intreccio tra scelte del lavoratore e imposizioni subìte: quanto pesano rispettivamente i due aspetti nei concreti percorsi di ciascun lavoratore, e dei diversi tipi di lavoratori? (qui il «maschile-neutro» che ho utilizzato per brevità mostra tutti i suoi limiti, perchè le differenze di genere, e non solo in questo caso, sono un elemento decisivo). Chi e perchè preferisce un lavoro stabile anche se di merda, e chi fa una scelta opposta? Ancora una volta, di queste possibili opzioni si discute spesso ideologicamente, in termini di «modelli», senza verifica diretta con gli interessati. Un’inchiesta sul lavoro nella fase postfordista deve dunque intrecciare lavoro, mercato del lavoro e condizioni di vita in misura maggiore di prima.
Malgrado questi importanti cambiamenti, tuttavia, nella prospettiva dell’inchiesta il tema del comando capitalistico sul lavoro resta secondo me cruciale anche oggi, per varie ragioni. L’area del lavoro «sotto il comando del capitale» si è estesa negli stessi paesi capitalistici avanzati, ma anche e ancor più nel resto del mondo. Le forme di questo comando e le risposte dei lavoratori si sono articolate in modo nuovo, e l’inchiesta è necessaria per individuarle e comprenderle. Si ripresentano invece derive ideologiche non molto dissimili da quelle contro cui l’inchiesta dei Quaderni rossi aveva a suo tempo combattuto. Non mi riferisco qui tanto a tesi «volgari» come quelle sull’«era post-industriale» o sulla scomparsa della classe operaia. Penso ad altre tesi, diffuse anche nell’ambito della sinistra e dello stesso neo-operaismo, che «deducono » dai propri schemi gli atteggiamenti dei lavoratori, senza «andarli a vedere » attraverso l’inchiesta: si pensi alle diffuse teorizzazioni della flessibilità come scelta sempre più prevalente tra le nuovegenerazioni di lavoratori, e alle relative ipotesi che vedono in varie forme di «flexsecurity» (garanzie formative, redditi di sostegno) l’unica strategia valida nella fase di oggi.
Qui, un elemento di possibile verità (c’è effettivamente chi sceglie la flessibilità) viene ipostatizzato e generalizzato arbitrariamente. Ma penso anche a certe teorizzazioni sul «capitalismo cognitivo » che tendono a estendere l’area centrale del conflitto tra capitale e lavoro fino a farne un tutto indistinto. E mi ricordano la teoria di fine anni ’50 sull’«alienazione che si sposta nel consumo»: toccavano un aspetto reale, ma, anzichè proporlo come estensione della tematica di ricerca, lo sostituiva ad altri aspetti altrettanto reali. Come pure si ripresentano tendenze a ipostatizzare come «centrali» certe figure del lavoro: dall’«operaio-massa» degli anni ’70 si passa al «lavoratore autonomo di seconda generazione» e alla sua sottospecie di «lavoratore cognitivo precario».
A me pare più che mai attuale una prospettiva di inchiesta che ponga di nuovo al centro il comando capitalistico sul lavoro, cogliendone gli aspetti nuovi ed estendendo l’analisi ad aspetti diversi dal comando diretto. E indaghi i problemi non solo dal lato del capitale ma anche e soprattutto dal lato del lavoro, cogliendo le differenze oggettive e soggettive, ma cercandodi ricondurle ai rapporti sociali fondamentali della società capitalistica. *Scritto in collaborazione con LOAcrobax e Chainworkers il manifesto, 12 novembre 2006
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