mercoledì, ottobre 31, 2007
Sabotage
lunedì, ottobre 29, 2007
Tornando a Manituana....
Mi sarebbe piaciuto scrivere qualche riga di commento su Manituana, il romanzo di Wu Ming che ho presentato e sponsorizzato da questo blog. L'ho chiaramente divorato da tempo, mi è piaciuto molto, ma poi scrivere quel che un libro ti ha dato non è mai semplice. Ma proviamoci, facciamolo così un pò disordinatamente...
...per tutta la lettura di Manituana ho avuto negli occhi le righe di un altro libro, tipo il fascio di luce di una torcia epica che illuminava i personaggi, i luoghi e le parole di Manituana. Questo libro è I ribelli dell'Atlantico di P. Linebaugh e M. Rediker, in cui si racconta attraverso un puntuale lavoro storiografico l'umanità varia che solcava l'oceano fra la vecchia Europa e la giovane America dal XVI al XVIII secolo: una moltitudine multietnica, colorata, libertaria e ribelle. Con Manituana il libro di Linebaugh e Rediker ha inoltre in comune la tensione a mostrare connessioni che nel corso dei secoli sono state di norma negate, ignorate o eluse, ma che cionostante hanno modellato in profondità la storia del mondo.
Sinceramente, per tornare alla mia lettura di Manituana, la prima cosa straniante che mi colpito è stata una data riportata nel risvolto della prima di copertina del libro: 31 agosto 1142, "nel territorio che va dall'attuale Stato di New York alla Pennsylvania [...] cinque grandi tribù indiane si uniscono e fondano la Confederazione Irochese, o Lega delle Cinque Nazioni (i Cayuga, i Mohawk, gli Oneida, gli Onondaga e i Seneca)".
Come un flash mi sono reso conto che 1) la storia dell'America del Nord iniziava nel mio immaginario almeno tre secoli dopo la scoperta delle americhe stesse e 2) il mio immaginario - nel bene e nel male - era ed è inquinato irrimediabilmente dalle immagine delle storie western hollywoodiane.
Ultima cosa - per ora - su Manituana: un viaggio in terre lontane e più misteriose di lande fantasy, personaggi memorabili e altre asce di guerra da deseppelire.
Quella che segue è un'intervista a Wu Ming 1 e Wu Ming 5 da Il bene comune...
Wu Ming 1 e Wu Ming 5, qui a Campobasso a presentare "Manituana". Un libro che contiene numerosi linguaggi. Dal gergo londinese del '700 avete già parlato nella presentazione, come avete agito per tutto quello che concerne il mondo irochese? Dialetti Mohawk, leggende indiane, nomi propri…
WM1: " Chiaramente la sperimentazione linguistica c'è in tutto il romanzo, non solo nei capitoli della feccia londinese. Però è più sottile. Nei capitoli che si svolgono nei bassifondi di Londra è chiassosa, eclatante, esibita, doveva esserlo perché stiamo raccontando dei personaggi che sono dei cialtroni. Era una necessità espressiva quella di andare sopra le righe. Invece, nelle parti che riguardano gli indiani veri, non l'emulazione fallita degli indiani, il linguaggio doveva riuscire ad evocare un'idea di indianità senza cadere nello stereotipo, essere familiare ed estraniato al tempo stesso. E bisognava riuscire a sperimentare senza esibire, restando tra le righe, quasi implicita, in maniera da non ostacolare il lettore. La sperimentazione è armonizzata con la trama che prosegue. Abbiamo cercato di differenziare il linguaggio del sogno, della visione e della premonizione dal linguaggio di tutti i giorni, ricorrendo anche ai trucchi come l'uso del presente al posto del passato remoto, l'uso dell'io narrante al posto della terza persona. Il linguaggio del sogno si distende, ha un ritmo più lento, ha un respiro diverso. Poi c'è il linguaggio dei concili: siccome la civiltà Irochese era una civiltà della retorica, dell'abilità oratoria, con alcuni Sachem che non avevano nulla da invidiare a Quintiliano o a Cicerone quanto a vis oratoria e riflessione sul discorso, lì ci sono queste lunghe tirate immaginifiche, a volte al limite del pomposo. Poi c'è una lingua più pratica, più diretta, più contratta: è quella della guerra, delle istruzioni che ci si dà in battaglia. Urlate, secche, frasi paratattiche. Abbiamo cercato di differenziare a seconda del contesto e dell'ambito."
WM5: "C'è stata una ricerca abbastanza ossessiva sulle fonti antropologiche. Il rischio grosso in cui si incorre quando si ha a che fare con testi sugli indiani d'America è o l'eccessivo elitarismo, cioè informazioni dirette solo agli antropologi, agli addetti ai lavori, o molto spesso sono estremamente divulgative; bisogna trovare un giusto mezzo per non incorrere in castronerie. Abbiamo consultato moltissime fonti, ed è stato molto interessante avere a che fare con le fonti dirette, anche odierne: in Rete esistono parecchi siti relativi alle nazioni irochesi contemporanee."
Tra le vostre fonti ci sono anche le analisi di Morgan sugli Irochesi?
WM5: "Le critiche contemporanee alla visione di Morgan sono molto ideologiche, però alla fin fine la nostra idea di fondo non si discosta poi molto: come Morgan noi vediamo negli Irochesi una forma eminente di democrazia diretta. Poi si pone l'accento sul matriarcato che è molto discusso in questo momento dagli storici e dagli antropologi, però per quanto riguarda le questioni ereditarie e il possesso dei beni economici era indubbiamente un sistema matriarcale."
WM1: "La lettura di Morgan ha cambiato completamente la percezione di Marx su quale dovesse essere il passaggio al socialismo. I taccuini etnologici scritti da Marx (gli "Ethnological notebooks") e pubblicati solo alla fine degli anni 60, che contengono tra le varie cose gli appunti di lettura di Morgan, evidenziano una cosa importante: studiando la comune tradizionale delle campagne russe, la comune contadina, e studiando i testi di Morgan sugli Irochesi, Marx aveva perso quella posizione di ineluttabile passaggio all'industrializzazione, al capitalismo, e diceva che forse sarebbe stato possibile passare al socialismo senza tutta la teoria delle fasi di sviluppo prima di arrivare al pieno compimento del capitalismo.."
Tornando invece al romanzo, ci si accorge dei due punti di vista interni: quello ad esempio dei ribelli, ad esempio Jonas Klug, e quello degli irochesi, alleati ai lealisti. Una differenza palese è la presenza e l'importanza della figura femminile: influente, rilevante e marcata negli indiani, praticamente assente nei coloni. Quanto è voluta questa scelta?
WM1: "All'inizio c'era la moglie di Klug, che poi invece fa solo una piccola comparsata e che non è un personaggio, però in principio i capitoli di Klug erano scritti in io narrante, eravamo dentro la testa di Klug che diceva : "Io" e si rivolgeva alla moglie, diceva "Stai zitta, moglie, lasciami sfogare!"; però anche lì non era proprio una presenza femminile. In realtà, i personaggi femminili importanti sono indiani: Esther è bianca, però di fatto è dentro quel mondo lì, ci vuole entrare, ci entra e si armonizzerà completamente; l'altro personaggio importante è Molly. Le altre donne bianche che compaiono sono comunque periferiche, marginali, ma perché c'era questo dato del matriarcato Mohawk, Irochese, importantissimo: le donne erano capoclan, erano le matrone dei clan, e i clan erano importanti quanto le nazioni, le tagliavano trasversalmente. Molly Brant è stata un personaggio importantissimo dentro quella comunità e non potevamo non darle il peso che realmente ha avuto. E questo è il motivo storico. Poi c'è n'è un altro: noi ci teniamo molto a fare dei buoni personaggi femminili, anche faticando molto perché siamo un collettivo testosteronico, perchè nei romanzi precedenti siamo stati criticati, soprattutto dalle lettrici più femministe, in quanto relegavamo le donne in ruoli stereotipati. Abbiamo cercato di imparare da queste critiche e di descrivere quindi i personaggi femminili senza ricadere nei ruoli tipici in cui vengono incasellate le donne, per capirci dalla puttana santa alla fata turchina, ecco. Poi noi siamo tutti maschi, ma abbiamo delle compagne, delle madri, delle sorelle, delle figlie: io credo che anche il fatto che all'interno del collettivo siano nate delle bambine porti a riflettere sul femminile in tutt'altra chiave. Padre di una donna in potenza, ti interroghi su come vedrà il mondo questa bambina, su che paese ho fatto atterrare questa bimba: c'è una guerra contro le donne in questo paese! Ogni giorno al telegiornale una donna uccisa dal suo convivente, da suo marito, dal suo fidanzato andato fuori di matto…c'è una guerra dichiarata contro le donne, ogni anno le donne vittime di violenza domestica sono tantissime. In più c'è una situazione in cui a parità di livello, di impiego, le donne comunque percepiscono salari più bassi nonostante ci siano più laureate donne e con più competenze. Anche l'interrogarsi su che paese troverà la bambina che hai messo al mondo è naturalmente alla radice dell'attenzione che abbiamo messo nei personaggi femminili, su cosa vuol dire essere donna."
WM5: " Come direbbe Elio, essere donna oggi.."
Un altro volto del libro è, chiaramente, l'atteggiamento delle colonie nei confronti delle nazioni indiane: l'aspetto religioso del puritanesimo, la visione unilaterale del mondo e della divinità che non lasciava spazio alcuno alla tolleranza, imponendo con la violenza il proprio credo nei confronti dei peccatori indiani che non accettavano il loro dio e la loro struttura di società. Ad oggi, tralasciando gli aspetti politici ed economici, gli U.S.A. compiono atti di guerra contro altre nazioni richiamandosi ad una missione divina, si pensi a G.W.Bush che dichiara, per la guerra in Iraq: "Dio è con noi". Parrebbe non essere cambiato nulla…
WM5: "Bisogna però ricordare che le radici del nuovo stato erano plurali: non c'era solo il puritanesimo del New England, c'erano i Quaccheri, c'era la Pennsylvania, c'era l'ambiente culturale del sud che era totalmente diverso, quello virginiano che era intriso di filosofia francese…il problema è che, a quanto pare, le radici che hanno portato frutti maligni sono quelle. Noi percepiamo ex post le colonie come qualcosa di unitario, in realtà all'epoca c'erano fondamenta molto diverse, per esempio a Philadelphia si parlava tedesco: noi abbiamo una visione molto appiattita, schiacciata sul puritanesimo. La tua è una lettura giusta, ma vedendo le fonti ti accorgi che c'erano tante americhe potenziali. Purtroppo una ha schiacciato le altre, ad esempio i Quaccheri, neutrali durante la guerra d'indipendenza, poi sono stati perseguitati."
In conclusione, avete parlato durante la presentazione dei vostri lavori al di fuori dei romanzi. Oltre alla sceneggiatura di "Lavorare con lentezza" ora c'è il progetto di creare un fumetto per Manituana…
WM5: "Magari…"
C'è la possibilità, la volontà di cercare o accettare risorse per poter tirare fuori un film da qualcuno dei vostri libri?
WM1: "Sarebbe bellissimo, ma chi lo farebbe? Il problema dei nostri libri è che ci vorrebbero produzioni multimilionari perché sono tutti colossali. Per Manituana c'è un altro problema: è un libro che ideologicamente negli Stati Uniti si farà odiare e solo gli americani potrebbero tirarne fuori un film, col rischio di vedere edulcorato tantissimo il contenuto."
domenica, ottobre 28, 2007
Come l'Italia sta gabbando le nuove generazioni...
La precarietà l'hanno assunta come problematica anche i padroni... chi ci crede? Io no, ma in tanti penso che ci cadranno e così avvalleranno le misure che i gggiovani confindustriali peroreranno ai nostri cari governanti (sempre a favore dei gggiovani)... l'allenza con l'intellighenzia della sinistra liberale è fatta (per chi aveva ancora dubbi), così possono pure giocare sull'effetto sorpresa garantito da questo "cavallo di troia" con cui rinfocolano lo scontro generazionale, mentre figli, genitori e nonni annegano indistintamente nella merda.
http://www.frdb.org/documentazione/scheda.php?doc_pk=10953&id=157
I biocarburanti un crimine contro l'umanità: l'ONU apre la bocca (e gli occhi)
Ora, quella dei biocarburanti a me - e non solo - è sempre sembrata una bufala, ora come vedete qui sotto la lista dei molto più che scettici si allunga di nomi di un certo peso... Infatti a dichiarare che produrre biocarburanti è un crimine contro l'umanità - chiedendo anche una moratoria di cinque anni - e' stato Jean Ziegler, che per il Palazzo di Vetro cura il dossier sul diritto al cibo. Finora l'unico "governante" al mondo a capire e dichiarare che usare il grano per trasformarlo in combustibile invece che utilizzarlo come cibo è immorale è stato il vecchio e mal ridotto Fidel Castro. Fate un pò voi...
A United Nations expert has condemned the growing use of crops to produce biofuels as a replacement for petrol as a crime against humanity.
The UN special rapporteur on the right to food, Jean Ziegler, said he feared biofuels would bring more hunger. The growth in the production of biofuels has helped to push the price of some crops to record levels.Mr Ziegler's remarks, made at the UN headquarters in New York, are clearly designed to grab attention.
He complained of an ill-conceived dash to convert foodstuffs such as maize and sugar into fuel, which created a recipe for disaster.
Food price rises
It was, he said, a crime against humanity to divert arable land to the production of crops which are then burned for fuel. He called for a five-year ban on the practice. Within that time, according to Mr Ziegler, technological advances would enable the use of agricultural waste, such as corn cobs and banana leaves, rather than crops themselves to produce fuel.
The growth in the production of biofuels has been driven, in part, by the desire to find less environmentally-damaging alternatives to oil. The United States is also keen to reduce its reliance on oil imported from politically unstable regions.
But the trend has contributed to a sharp rise in food prices as farmers, particularly in the US, switch production from wheat and soya to corn, which is then turned into ethanol. Mr Ziegler is not alone in warning of the problem. The IMF last week voiced concern that the increasing global reliance on grain as a source of fuel could have serious implications for the world's poor.
Il trionfo dei ratti malgrado l'agio della civiltà
immagine di banksy
Eppure il rattus norvegicus era lì, installato al centro della campagna elettorale per le elezioni del presidente americano. A trascinarcelo erano stati i ragazzi della comunicazione assunti dal governatore del Texas, o meglio ancora un pensionato di Seattle che, armato di videoregistratore, li aveva messi al tappeto. Gary Greenup, così si chiamava il pensionato, aveva notato come nello spot che riassumeva il punto di vista dei repubblicani sulle qualità di Albert Gore, gli uomini del futuro presidente avessero inserito alcuni fotogrammi subliminali, che per un momento parvero compromettere le aspirazioni di Bush alla Casa Bianca. In quei fotogrammi appariva una scritta di sole quattro lettere - rats, ratti appunto - che Greenup era riuscito a stanare dalle fogne della competizione politica.
Che si trattasse del rattus norvegicus, il ratto marrone, non poteva essere motivo di discussione: infatti, una volta sbarcati sul suolo americano, i topi scandinavi (così classificati solo grazie a causa di un errore contenuto nei Profili della storia naturale della Gran Bretagna di John Berkenhout) avevano costretto i pochi cugini neri sopravvissuti a ritirarsi sulle palme e nelle soffitte di Los Angeles. In ogni caso, la comparsa dei ratti nel videoregistratore di Seattle operava una sorta di processo ai limiti della democrazia - tanto simile all'esercizio di un voto estemporaneo da mortificarsi nella pulsazione di un fotogramma - e il fatto che a rivelarne l'oroscopo fossero proprio loro, i topi di fogna, non aveva nulla di occasionale.
Anche nell'inchiesta - titolata Ratti, trad. di Carlo Torielli, Isbn - che Robert Sullivan ha dedicato al rattus norvegicus qualche mese dopo le elezioni del presidente americano, infatti, si direbbe che tutto ciò che appartiene all'universo dei topi si inserisca in una prospettiva analoga a quella indicata dalle scritte di Bush. I ratti fanno tendenzialmente schifo, questo è noto, trasmettono le pulci della peste, la febbre gialla, il virus del Nilo, si cibano di immondizia e soprattutto hanno la propensione a rivelare gli aspetti più sgradevoli e maleodoranti di tutto ciò che finisce nel loro raggio di azione.
Un esempio tra i tanti lo potrebbe fornire Barry Beck, il più grande derattizzatore di New York, che non si perde in giri di parole per ammettere di non essere minimamente interessato a chiunque gli impedisca di fare cassa: «Sono un capitalista - taglia corto. - Se non ci guadagno non ho bisogno di te». Ancora meno sorvegliate potrebbero risultare le parole pronunciate dal rappresentante di una grande compagnia per il controllo dei parassiti, nel corso di un convegno organizzato dalla rivista «Pest Control Technology»: «La cattiva notizia - dichiara l'esperto - è che i ratti vinceranno la guerra contro gli uomini. La buona notizia è che potremo fare un mare di soldi».
Soldi già fruttati a Kit Burns, un immigrato irlandese che a partire dal 1840 organizzò combattimenti tra uomini e animali alla Sportsman's Hall, una specie di arena nella quale gli uomini dovevano decapitare i ratti con un morso, qualche decennio prima che gli uni e gli altri venissero salvati dal nuovo entusiasmo del pubblico per il baseball.
In virtù del significato che hanno storicamente assunto nella sfera simbolica, si direbbe che le pantegane custodiscano il segreto delle verità ripugnanti e che lo trasmettano per contagio, aggirandosi nel sistema fognario di una civiltà che allo stesso tempo sfruttano e aggrediscono, saccheggiano e santificano, popolano e tradiscono. A volte basta loro una piccola parte in commedia, come quando il sindaco di Milwaukee, impegnato in una campagna di disinfestazione, esclude che vi sia un qualsiasi rapporto tra l'aumento della criminalità e l'impoverimento dei sobborghi: il punto è che commettere reati sarà sempre «più divertente che immergere una lega di metallo in qualche sostanza chimica in una centrale termica». Perché svaligiare un attico o rapinare una banca è più eccitante che lavorare, alla faccia di tutti i discorsi che tenderebbero a dissimulare il contenuto di violenza delle differenze di ceto. Ma forse la verità dei ratti e delle fobie che ispirano, alla resa dei conti, è mutuata proprio da qui, dal ruolo che interpretano nella dialettica tra il dicibile e l'indicibile, la conformità e l'indecenza, il puro e l'impuro.
Una volta Italo Calvino scrisse che il programma della modernità si poteva riassumere nella riduzione del mondo a un «cromato candore ospedaliero e dentistico», un sogno malato di purezza che l'esistenza dei ratti, di per sé, sembra deputata a squadernare. Di tutti i ratti, dice Sullivan, anche di quello che nuota nelle acque di scarico per spuntare dal water e che si fa interprete di una potenza della vita irriducibile a qualsiasi modello sanitario. A dirla tutta, esistono forme di liberazione meno traumatiche della comparsa di un topo di quaranta centimetri tra gli elementi della nostra camera da bagno, ma è pur vero che il rattus norvegicus oppone alla sterilità dell'ambulatorio la buona novella di una vita sensibilmente più impura, compromessa e quindi reale. «Una scintilla feconda - come la chiama Robert Sullivan, - che vi piaccia o meno».
venerdì, ottobre 26, 2007
Allora e adesso. Perché l’inchiesta - Vittorio Rieser
Dal lavoratore fordista al precariato postfordista, per riconoscere le forme del comando del capitale e le risposte operaie. Ma oggi bisogna riformulare la metodologia e le domande, sul lavoro e sulla vita. Il lavoro di inchiesta dei Quaderni Rossi nasce come strumento di battaglia politica e «anti-ideologica». Possiamo distinguerne schematicamente due fasi. La prima fase comprende il biennio ’60-’61, con inchieste in particolare alla Fiat e alla Olivetti. Stavano riprendendo massicciamente le lotte operaie, ma la Fiat ne restava fuori. Anche per questo restava forte, nella sinistra, l’ideologia che delle forme avanzate del capitalismo sottolineava la capacità di «integrare» la classe operaia. L’alienazione, e il conseguente terreno di lotta, si spostavano altrove dalla fabbrica, sul piano dei consumi e della democrazia. Questa ideologia era il rovesciamento simmetrico di quella, fino allora dominante nelmovimento operaio, sull’arretratezza del capitalismo italiano: se il conflitto di classe in Italia era legato all’arretratezza, l’uscita dall’arretratezza lo avrebbe ridotto o spostato su altri terreni, lontano dai luoghi di produzione.
Le inchieste dei Quaderni rossi , al contrario, fornirono elementi essenziali per l’ipotesi che il conflitto di classe si sarebbe sviluppatoanche e soprattutto nelle aree di capitalismo avanzato, con tutte le implicazioni strategiche che quest’ipotesi comportava. Questi elementi furono confermati dalle grandi lotte operaie del’62-63. E questa battaglia non era solo dei Quaderni rossi: era comune a una buona parte della Cgil (in particolare torinese) e a consistentiminoranze del Pci e del Psi. Dopole grandi lotte del 62/63, il problema diventa l’ingabbiamento delle lotte operaie con la loro dirompente carica politica e dello stesso sindacato. Di fronte a questo quadro, c’era la via d’uscita ideologica di «dedurne» che la lotta operaia andava ormai «al di là» delle linee dei partiti e dei sindacati, collocandosi in una prospettiva rivoluzionaria. Questa era, secondo Panzieri e i suoi seguaci, l’impostazione di Tronti e degli altri compagni che diedero vita al gruppo di Classe operaia.
A fronte di questo, Panzieri e i compagni rimasti nei Quaderni rossi individuarono nell’inchiesta lo strumento per cogliere elementi di antagonismo reali (non ipostatizzati) e per verificare come si collocavano rispetto alle organizzazioni delmovimento operaio e alle istituzioni. Sta di fatto che questo progetto di inchiesta non fu mai compiutamente realizzato. Tuttavia, per la prima volta i Quaderni rossi formulavanoun discorso sulla funzione strategica dell’inchiesta (e, si noti, senza conoscere le formulazioni di Mao su questo tema, che restano a mio avviso le più complete e attuali). A parte questo, i Quaderni rossi svilupparono, su campi più circoscritti ed empirici, lavori di inchiesta nelle situazioni in cui avevano rapporti operai reali: è il caso della Olivetti (col gruppo «Lotta di classe») e della stessa Fiat (col giornale La voce operaia). L’inchiesta dei Quaderni rossi ruotava su un presupposto teorico derivato anche dalla rilettura e attualizzazione che Panzieri faceva di Marx, inparticolare della quarta sezione del primo libro del Capitale.
L’ipotesi era che il comando capitalistico sul lavoro e gli sviluppi delle forme in cui esso si esercita fossero un tema politicamente, non solo economicamente, centrale nell’elaborazione diuna strategia rivoluzionaria nel capitalismo avanzato. L’inchiesta dei Quaderni rossi aveva comeoggetto quello che oggi si chiama (talvolta con un certo disprezzo...) il «lavoratore fordista». Non nella visione riduttiva che lo riduceva all’operaio, tantomeno all’«operaio-massa» - basta pensare all’attenzione con cui Romano Alquati intervistava capi intermedi e impiegati-tecnici. Da allora, la situazione è indubbiamente molto cambiata. Senza pretendere di darne un’analisi complessiva, quali sono gli elementi di novità che presentano implicazioni particolarmente rilevanti dal punto di vista dell’inchiesta?
Ci sono mutamenti registrabili e leggibili attraverso i vecchi schemi di inchiesta; altri invece che richiedono domande nuove e una revisione e ridefinizione di quegli schemi. Duemi sembrano da questo punto di vista i mutamenti più rilevanti. In primo luogo, la tendenza a una crescente diffusione-prevalenza della dimensione intellettuale del lavoro (mi riferisco alla dimensione intellettuale «esplicita», quella «implicita» essendo già ricchissima nel lavoro dell’operaio dimestiere). Il che non significa necessariamente lavoro più qualificato; significa che nel lavoro la funzione dell’ elaborazione di informazioni risulta sempre più centrale ed esplicita. In secondo luogo, il passaggio da un mercato del lavoro «dualistico» - diviso cioè tra due segmenti, uno qualificato, «forte» e stabile, uno dequalificato, debole e più instabile - a una precarietà nel mercatodel lavoro che investe tutti i livelli di qualificazione, e a una diversificazione nello stesso tipo di rapporto di lavoro.
Quali sono le conseguenze rilevanti di questa nuova situazione? Mi limito ad alcuni esempi. La qualificazione, da patrimonio personale costruito attraverso un percorso spesso faticosoma coerente, diviene una «potenzialità» fatta di percorsi di apprendimento e adattamento erratici e eterogenei, che spesso non offrono possibilità di accumulazione di esperienza. La precarietà investe i progetti di vita, spesso con un capovolgimento rispetto alla situazione del lavoratore fordista. Se questi poteva dire «ho un lavoro di merda, ma una volta uscito dalla fabbrica mi godo il mio tempo e la mia vita», il lavoratore precario qualificato di oggi è facile che dica al contrario «faccio un lavoro mica male, ma appena fuori dal lavoro cominciano le angosce su come faccio a metter su casa o famiglia, ecc.».
Tuttavia, il nucleo centrale su cui concentrare oggi l’«attenzione di ricerca» sta nei sistemi informativi, cioè nelle reti dei flussi di informazioni in cui, sul lavoro e fuori dal lavoro, il lavoratore è situato. Sul lavoro, è collocato in un tessuto di informazionipiù ricco di prima (anche l’operaio di montaggio deve digitare informazioni su un computer, e dovrebbe recepirne alcune che lo riguardano); ed è importante la proporzione tra la fetta che egli può in qualchemodogestire autonomamente (scegliendo le informazioni e quale uso farne) e la parte «alienata» (si decide «dall’alto » quali informazioni dargli, e queste spesso «prescrivono» anche il suo comportamento conseguente). Fuori dal lavoro, si aprono nuove possibilità di inserimento in reti anche molto ricche ed ampie di informazioni: nuove «possibilità a rete» che sostituiscono il tessuto di relazioni più stabile ma più circoscritto del «lavoratore fordista», aprendo nuove possibilità sia sul terreno professionale sia su quello politico; qui diventa importante capire quanto le informazioni ricevute sul lavoro possono essere utilizzate autonomamente sul terreno del collegamento con altri e dell’organizzazione.
Al di là di questi aspetti, c’è una questione di fondo. I percorsi di mobilità nel mercato del lavoro flessibile sono un intreccio tra scelte del lavoratore e imposizioni subìte: quanto pesano rispettivamente i due aspetti nei concreti percorsi di ciascun lavoratore, e dei diversi tipi di lavoratori? (qui il «maschile-neutro» che ho utilizzato per brevità mostra tutti i suoi limiti, perchè le differenze di genere, e non solo in questo caso, sono un elemento decisivo). Chi e perchè preferisce un lavoro stabile anche se di merda, e chi fa una scelta opposta? Ancora una volta, di queste possibili opzioni si discute spesso ideologicamente, in termini di «modelli», senza verifica diretta con gli interessati. Un’inchiesta sul lavoro nella fase postfordista deve dunque intrecciare lavoro, mercato del lavoro e condizioni di vita in misura maggiore di prima.
Malgrado questi importanti cambiamenti, tuttavia, nella prospettiva dell’inchiesta il tema del comando capitalistico sul lavoro resta secondo me cruciale anche oggi, per varie ragioni. L’area del lavoro «sotto il comando del capitale» si è estesa negli stessi paesi capitalistici avanzati, ma anche e ancor più nel resto del mondo. Le forme di questo comando e le risposte dei lavoratori si sono articolate in modo nuovo, e l’inchiesta è necessaria per individuarle e comprenderle. Si ripresentano invece derive ideologiche non molto dissimili da quelle contro cui l’inchiesta dei Quaderni rossi aveva a suo tempo combattuto. Non mi riferisco qui tanto a tesi «volgari» come quelle sull’«era post-industriale» o sulla scomparsa della classe operaia. Penso ad altre tesi, diffuse anche nell’ambito della sinistra e dello stesso neo-operaismo, che «deducono » dai propri schemi gli atteggiamenti dei lavoratori, senza «andarli a vedere » attraverso l’inchiesta: si pensi alle diffuse teorizzazioni della flessibilità come scelta sempre più prevalente tra le nuovegenerazioni di lavoratori, e alle relative ipotesi che vedono in varie forme di «flexsecurity» (garanzie formative, redditi di sostegno) l’unica strategia valida nella fase di oggi.
Qui, un elemento di possibile verità (c’è effettivamente chi sceglie la flessibilità) viene ipostatizzato e generalizzato arbitrariamente. Ma penso anche a certe teorizzazioni sul «capitalismo cognitivo » che tendono a estendere l’area centrale del conflitto tra capitale e lavoro fino a farne un tutto indistinto. E mi ricordano la teoria di fine anni ’50 sull’«alienazione che si sposta nel consumo»: toccavano un aspetto reale, ma, anzichè proporlo come estensione della tematica di ricerca, lo sostituiva ad altri aspetti altrettanto reali. Come pure si ripresentano tendenze a ipostatizzare come «centrali» certe figure del lavoro: dall’«operaio-massa» degli anni ’70 si passa al «lavoratore autonomo di seconda generazione» e alla sua sottospecie di «lavoratore cognitivo precario».
A me pare più che mai attuale una prospettiva di inchiesta che ponga di nuovo al centro il comando capitalistico sul lavoro, cogliendone gli aspetti nuovi ed estendendo l’analisi ad aspetti diversi dal comando diretto. E indaghi i problemi non solo dal lato del capitale ma anche e soprattutto dal lato del lavoro, cogliendo le differenze oggettive e soggettive, ma cercandodi ricondurle ai rapporti sociali fondamentali della società capitalistica. *Scritto in collaborazione con LOAcrobax e Chainworkers il manifesto, 12 novembre 2006
venerdì, ottobre 19, 2007
Cultura Convergente di Henry Jekins
E' stato pubblicato in italiano da Apogeo editore uno degli ultimi lavori di Henry Jenkins - direttore del Comparative Media Studies Program al MIT -, lavoro che meriterebbe di essere attentamente letto per comprendere appieno le potenzialità e i limiti dell'interazione tra la produzione mediatica tradizionale e quella degli utenti. Questo anche focalizzando l'attenzione sull'accezione statunitense della cultura di massa, altra area di studio di Jenkins. L'introduzione all'edizione italiana è di Wu Ming, la potete leggere di seguito, mentre sul sito Apogeonline trovate un'interessante intervista a Jenkin, giusto per conoscere un pò meglio il personaggio e le sue ragioni.
Nel migliore dei mondi possibili, la pubblicazione di questo libro scuoterebbe come un terremoto il dibattito italiano su Internet e le nuove tecnologie di comunicazione. Se non produrrà nemmeno uno scarto, significa che quel dibattere è una parvenza di vita, finestre sbattute dal vento in una villa disabitata, mortorio al cui confronto un poltergeist è il Carnevale di Rio.
Cultura Convergente è un saggio rivoluzionario per molte ragioni. La prima è un marchio di fabbrica anglo-sassone: l'essere comprensibile, appassionante, farcito di prove ed esempi. Nel testo si fa spesso riferimento ad autori europei, capaci di brillanti costruzioni teoriche, ma molto meno dotati nel tradurle in un linguaggio immediato e in pratiche sociali osservabili. Come per magia, nelle pagine di questo libro ogni oscurità concettuale si fa cristallina.
Il secondo merito è che il professor Jenkins si immerge nella cultura popolare del nostro tempo, fotografa in che modo le nuove tecnologie la stanno cambiando, poi torna in superficie e ci mostra un reportage che in realtà non è sui mezzi di comunicazione ma su coloro che li usano per comunicare. Nelle sue foto ci siamo noi.
A questo proposito, occorre fare subito una precisazione importante.
In Italia per "cultura popolare" si intende di norma quella folk, preindustriale o comunque sopravvissuta all'industrialismo. "Cultura popolare" sono i cantores sardi o la tarantella.
Chi usa l'espressione in un contesto differente, di solito si riferisce a quella che in inglese si chiama "popular culture". Qui da noi siamo soliti definirla "cultura di massa", espressione che ha un omologo anche in inglese ("mass culture"), ma Jenkins fa notare che il nome ingenera un equivoco, e inoltre c'è una sfumatura di significato tra "mass culture" e "popular culture".
L'equivoco è che la "cultura di massa" - veicolata dai mass media (cinema, tv, discografia, fumetti) - non per forza dev'essere consumata da grandi masse: rientra in quella definizione anche un disco rivolto a una minoranza di ascoltatori, o un particolare genere di cinema apprezzato in una nicchia underground. Oggi la stragrande maggioranza dei prodotti culturali non è di massa: viviamo in un mondo di infinite nicchie e sottogeneri. Il mainstream generalista e "nazionalpopolare" è meno importante di quanto fosse un tempo, e continuerà a ridimensionarsi.
La sfumatura di significato, invece, consiste in questo: cultura di massa indica come viene trasmessa questa cultura, vale a dire attraverso i mass media; cultura popolare pone l'accento su chi la recepisce e se ne appropria. Di solito, quando si parla del posto che la tale canzone o il tale film ha nella vita delle persone ("La senti? E' la nostra canzone!"), o di come il tale libro o il tale fumetto ha influenzato la sua epoca, si usa l'espressione "popular culture".
Il problema è che il dibattito italiano sulla cultura pop novanta volte su cento riguarda la spazzatura che ci propina la televisione, come se il "popular" fosse per forza quello, mentre esistono distinzioni qualitative ed evoluzioni storiche, altrimenti dovremmo pensare che Sandokan, Star Trek, Lost, il TG4 e La pupa e il secchione sono tutti allo stesso livello, o che Springsteen, i REM, Frank Zappa e Shakira vanno tutti nello stesso calderone, o che non esistono distinzioni tra i libri di Stephen King e quelli delle barzellette su Totti, dato che entrambi li ritrovi in classifica.
Ci sono due schieramenti l'un contro l'altro armati - e dalle cui schermaglie dovremmo tenerci distanti: da un lato, quelli che usano il "popolare" come giustificazione per produrre e spacciare fetenzie; dall'altra, quelli che disprezzano qualunque cosa non venga consumata da un'élite.
Sono due posizioni speculari, l'una sopravvive grazie all'altra. Le accomuna l'idea che a fruire della cultura pop siano le masse mute dell'Auditel, dei sondaggi di mercato, del botteghino.
La terza benedizione di questo libro è proprio questa: va alla radice di molti equivoci e li estirpa, sposta il cuore dei problemi, da un groviglio inestricabile di banalità a una nuova prospettiva, un modo di affrontare le questioni che spiazza e ridisegna ogni barricata.
Sul finire del 2006, Jenkins ha illustrato sul suo blog otto caratteristiche fondamentali dello scenario dei nuovi media. Non un campionario di strumenti e dispositivi, ma un insieme di pratiche e tratti culturali che ritraggono come gli individui e le società si relazionano ai mezzi di comunicazione.
E' interessante notare che nel dibattito nostrano questi 8 elementi sono sì riconosciuti e accettati, ma il più delle volte in un'accezione triviale, inquietante o stereotipata. Sono quindi un'ottima mappa per analizzare nel dettaglio proprio il genere di equivoci che il libro aiuta a scacciare.
Secondo Jenkins, il panorama mediatico contemporaneo è:
1. Innovativo
Nessuno lo nega. La rapidità con la quale nuove tecnologie di comunicazione nascono, mutano e si mescolano non è in discussione. Il più delle volte, però, l'estrema velocità del processo è il pretesto per dire che nella fretta stiamo perdendo qualcosa - i libri, le relazioni, la vita vera. I giovani navigano su Internet, giocano alla Playstation, scaricano musica invece di sviluppare interessi culturali. L'innovazione tecnologica ci arricchisce sul piano materiale ma ci depaupera su quello umano, soprattutto se non ci dà il tempo di digerire, riflettere, scegliere. Simili affermazioni partono da (pre)giudizi di valore e molto di rado citano esempi chiari e concreti. Al contrario, questo libro illustra centinaia di situazioni reali dove le novità tecniche stimolano la creatività, aprono territori inesplorati, aumentano le opportunità espressive, diversificano la produzione estetica. Forse è vero per qualsiasi epoca, dall'invenzione della scrittura in avanti, ma ancor di più per quella che ci troviamo a vivere, sempre più partecipativa, "a bassa soglia d'accesso", con un forte stimolo a creare e condividere e la sensazione diffusa che il proprio contributo "conti davvero qualcosa".
2. Convergente
Una delle tesi di questo libro è che la collisione tra diversi media, vecchi e nuovi, sia più un bisogno culturale che una scelta tecnologica. Computer e cellulari hanno accorpato molteplici funzioni e si sono trasformati in telefono, televisione, stereo, fotocamera, tutto-in-uno. Eppure nessuno di questi agglomerati ha sterminato i singoli avversari. Piuttosto sono i contenuti della comunicazione che vengono declinati in ogni formato, per potersi spostare da un mezzo all'altro e ricevere così un distribuzione sempre più capillare e pervasiva. La stessa canzone trasmessa in radio diventa jingle pubblicitario in televisione, file da condividere sul computer, colonna sonora al cinema, videoclip su YouTube, suoneria del cellulare, slogan su una maglietta. Non c'è un singolo attrattore, computer o cellulare che sia, capace di trasformare ogni idea in un unico prodotto, fatto di immagine, suono, testo, relazione. Al contrario ogni idea è capace di molte facce, per attirare su di sé strumenti diversi e attraversarli tutti.
Da noi si parla molto più di convergenza tecnologica, di mostruosi cellulari multifunzione, che di cultura transmediale. Quando poi lo si fa, l'attenzione è sulla strategia delle multinazionali dell'intrattenimento, interessate a "spostare" i loro contenuti, come caramelle da un distributore all'altro. Nessuno ragiona sul fatto che lo stesso interesse è spesso condiviso, sovvertito e praticato in maniera "illegale" anche dai consumatori, che muovono storie, suoni e immagini da un territorio all'altro. Nessuno accetta l'idea che questo andirivieni risponda anche a un modello estetico, un nuovo modo di raccontare, informare, sabotare, divertire. E' solo marketing. Se sei uno scrittore, devi scrivere un romanzo, un libro fatto di carta. Tutto il resto - siti web, booktrailer, forum, contenuti extra - è materiale promozionale, appendice spuria che puzza di soldi.
3. Quotidiano
Anche in questo caso, dire che i media e le nuove tecnologie fanno parte della vita quotidiana è discorso da autobus, a mezza via tra paura ed eccitazione, schiavitù egiziana e terra promessa. Questa quotidianità ha come sottoprodotto il famigerato multitasking, lo stato di "attenzione parziale continuata" che in Italia è la bestia nera di insegnanti, genitori e intellettuali gentiliani. Pochi ammettono che si tratta di un'abilità necessaria per affrontare il nuovo ambiente: mantenere un'attenzione diffusa e "a bassa intensità" su una molteplicità di stimoli, per poi focalizzarla ad alta intensità quando uno di questi stimoli si modifica in maniera significativa, ovvero ci avverte di prestare "più attenzione". Il multitasking andrebbe insegnato a chi non ce l'ha nel sangue, non bruciato sul rogo. Purtroppo da noi la caccia alle streghe è sempre aperta e ben retribuita.
4. Interattivo
Grazie ai nuovi media, possiamo interagire più in profondità con suoni, immagini, informazioni. Possiamo determinarne il flusso, scegliere in ogni momento cosa vedere o ascoltare; possiamo archiviare contenuti, usarli in contesti nuovi, modificarli. Spesso il dibattito su queste opportunità scivola nello stallo tra chi sostiene che "tutto ormai si riduce a un mero taglia e incolla" e quanti ritengono che la rielaborazione è alla base della creatività. Oltre questo dilemma stantio, Jenkins mostra come l'abitudine a (ri)appropriarsi di contenuti abbia riportato alla luce un magma di produzioni amatoriali e creatività diffusa, forme di vita tipiche della "vecchia" cultura popolare, che erano andate in esilio sotto terra con l'avvento dei mezzi di comunicazione di massa.
5. Partecipativo
Fino a vent'anni fa la grande maggioranza del pubblico era soltanto audience e l'unico messaggio che poteva emettere si riduceva a una scelta binaria: ascolto/non ascolto, consumo/non consumo. Oggi abbiamo a disposizione diversi canali per far conoscere le nostre idee a una platea molto ampia. Certo non basta aprire un blog o una pagina su myspace: si tratta di una competenza che va appresa e affinata. Senza dubbio è un'abilità che fa la differenza in molti ambiti lavorativi, e la farà sempre di più.
Purtroppo, invece di interrogarsi su come formare individui che sappiano maneggiare certi strumenti, si preferisce evocare spettri. Ultimo esempio: la "nuova" ondata di teppismo giovanile - subito definito cyberbullismo - sarebbe partita da Internet, perché la possibilità di filmare le proprie bravate, caricarle su You Tube e "diventare famosi", funzionerebbe da incentivo. Stessa cosa per la pedopornografia e altre mostruosità: tra le righe di inchieste in stile freak show, che accostano fatti e leggende, esperti e ciarlatani, si insinua sempre il dubbio che aprire un sito e attivare una rete di contatti sia troppo facile. Come dire che i circoli neonazisti esistono perché purtroppo, in Italia, incontrarsi e costituire un'associazione è un gioco da ragazzi. Così la diffusione libera e trasversale di contenuti diventa di per sé un fenomeno da contenere, ridurre, gestire. Salvo poi lamentarsi, alla prima occasione, del consumismo passivo di certi adolescenti.
6. Globale
Le nuove tecnologie ci permettono di interagire in qualsiasi momento con persone e situazioni, a prescindere dalla collocazione geografica. In Italia, il più delle volte, questa constatazione serve a brandire la minaccia di un'omologazione culturale sempre più forte. Il rischio esiste, senz'altro, ma perché non puntare lo sguardo anche su altri scenari, ad esempio l'eventualità, nient'affatto remota, che questa situazione faccia aumentare la diversità culturale, come risposta al crescente bisogno di uscire dal provincialismo e di costruirsi un'identità sempre più ricca e sempre nuova?
7. Generazionale
Tra "nativi" e "immigrati" dell'era digitale e partecipativa ci sono attitudini molto differenti, approcci diversi agli stessi media. Questo non significa che le comunità non possano confrontarsi ed educarsi a vicenda. Troppo spesso si preferisce erigere steccati, insistere su stereotipi come "i giovani sono tutti smanettoni" oppure "i giovani chattano e basta" e via discorrendo. Si prende atto che per molti aspetti il passaggio di conoscenze ed esperienze da una generazione all'altra è saltato, dunque andrà tutto in malora, e comunque "non c'è più niente da fare".
Quando in Italia si parla di "digital divide" lo si fa sempre in termini tecnologici. Bisogna mettere i computer (e l'informatica) nelle scuole, bisogna portare la banda larga ovunque, bisogna accendere hot spot per la connessione wireless, e via dicendo. Fatto questo, il baratro digitale sarà colmato. Come dire che l'analfabetismo è una questione di diottrie. Alcune persone non sanno leggere perché gli occhi non gli funzionano bene. Attivando un programma di "occhiali per tutti", il problema sarà debellato. Purtroppo, l'analfabetismo non si sconfigge nemmeno insegnando l'ABC, così come il "digital divide" non si elimina con i computer o la banda larga e nemmeno insegnando a usare linguaggi di programmazione e HTML.
Certo, se uno ha due gradi di vista, prima di insegnargli a leggere dovrò dargli gli occhiali. Certo, se uno non riconosce le lettere, deve imparare l'ABC. Ma poi leggere e scrivere implicano una serie di competenze più raffinate, così come far parte di una cultura partecipativa non è solo poter navigare a 10 mega al secondo.
Il punto non sono le abilità cognitive. Un quindicenne apre un programma qualsiasi, inizia a esplorarlo senza istruzioni e dopo qualche giorno lo padroneggia. Suo nonno non è in grado di maneggiare uno stereo diverso da quello che ha in casa e per usare la posta elettronica impiega una settimana di titanici sforzi.
Il vero problema è che a parità di mezzi e di capacità tecniche, adolescenti diversi si rapportano alla Rete secondo modalità molto diverse, tali da collocarli su versanti opposti di un crinale sociale molto discriminante.
La proverbiale facilità con la quale i ragazzini utilizzano i nuovi media fa credere a molti adulti che sia sufficiente fornire loro la tecnologia giusta per trasformarli in cittadini della nuova società digitale. In, Jenkins ha criticato proprio questo approccio "liberista", dove la fede nel laissez faire non fa che moltiplicare le ineguaglianze.
Il mito dell'adolescente in simbiosi con le macchine nasconde una realtà variegata, dove moltissimi ragazzini che hanno il computer, la posta elettronica e un software per scaricare musica, non sanno usare un motore di ricerca per trovare informazioni, notizie, prodotti. Altri lo sanno usare ma non sono in grado di selezionare, tra le tante risposte, quella che davvero gli serve, e così desistono prima di aver trovato davvero quello che cercavano. Altri ancora trovano ma non sanno di preciso cosa (un conto è copiare un articolo di Wikipedia, un altro è capire che cos'è quella fonte, come funziona, cosa implica).
Jenkins individua tre problemi nell'idea che gli adolescenti, usando Internet, sviluppino da soli le competenze di cui hanno bisogno, così come da soli diventano campioni di videogame o utenti di YouTube.
Il primo è un problema di partecipazione: non basta aprire una porta perché le persone entrino. Per molti la Rete è uno spazio importante, un'esperienza ricca di stimoli, un mezzo da usare in maniera attiva; per altri resta un ambito residuale, poco noto, limitato, da consumare in modo passivo e senza interazioni significative.
Il secondo è un problema di trasparenza, che si pone già per i media tradizionali. Una qualsiasi notizia di solito è opaca rispetto a una serie di caratteristiche cruciali: chi la diffonde, per quale pubblico, per quale committente, con quali interessi, su quale sfondo ideologico. Allo stesso modo, un articolo di Wikipedia non ci dice nulla sul sapere diffuso e l'intelligenza collettiva, così come una canzone scaricata in maniera illegale non ci interroga sui temi del diritto d'autore, il ruolo dell'artista, la diffusione della cultura.
Il terzo è un problema etico, come evidenzia il cyberbullismo di cui si parlava prima. Pochi osservano che il problema non è YouTube o le potenzialità della Rete, ma il fatto che ancora non abbiamo sviluppato una percezione etica chiara di quale sia la differenza tra fare uno scherzo a un compagno di classe; fare uno scherzo e filmarlo; fare uno scherzo, filmarlo e renderlo fruibile da chiunque.
Cultura Convergente non si occupa di tematiche educative, ma è comunque evidente in molte pagine lo stimolo ad elaborare e diffondere un nuovo modello di alfabetizzazione mediatica. Ecco la quarta ragione che rende molto importante l'edizione italiana di questo lavoro.
Nel nostro paese, inutile dirlo, i pochi programmi attivati su larga scala riguardano la sicurezza. Si cerca di istruire i ragazzi a difendere la propria privacy, a evitare truffe, a filtrare comunicazioni e pubblicità indesiderate, a reagire in caso di soprusi, tentativi di adescamento, raggiri. Inoltre, si fa informazione rispetto ai reati che potrebbero commettere con pratiche largamente diffuse: download di contenuti protetti, condivisione di file, pubblicazione di filmati.
Nessuno sembra capace di attivare un confronto sulle "competenze digitali" che sempre più determinano la formazione sociale, culturale e professionale degli individui. L'Età della Partecipazione, inaugurata dalla Rete, è carica di promesse: cittadinanza attiva, consumo consapevole, creatività diffusa, intelligenza collettiva, saperi condivisi, scambio di conoscenze. Tuttavia, se ci si aspetta di vederla sorgere all'orizzonte come un'alba scontata e inevitabile, si finirà per trasformarla nel suo contrario, producendo una nuova, vasta massa di esclusi.
* Wu Ming 2 e Wu Ming 1, luglio 2007
giovedì, ottobre 18, 2007
Le genealogie in ombra del knowledge worker
Un libro che invita a pensare il conflitto di classe nel capitalismo contemporaneo dove la guerra contro la middle class è parte della campagna di annientamento politico del lavoro in tutte le sue determinazioni.
Dopo dieci anni dalla pubblicazione del volume collettivo sul lavoro autonomo di seconda generazione, Sergio Bologna torna sulla scena del delitto per continuare a sbrogliare la matassa sulle forme del lavoro contemporaneo. Non che se ne fosse mai di molto allontanato. A leggere i saggi contenuti ne Ceti medi senza futuro? scopriamo infatti una costante attenzione e riflessione attorno a questo tema che Sergio Bologna ha svolto all’interno del progetto di Luhmi, la libera università di Milano e del suo hinterland, della rivista di ispirazione fortiniana l’Ospite ingrato, oppure in riviste più «istituzionali», convegni, anche se ci sono scritti che portano la dicitura «memorizzato nel computer in data ....».
Va subito detto che Ceti medi senza futuro? è un libro ambizioso. Di fronte alle tesi prevalenti sul costante declino del lavoro autonomo, Bologna controbatte affermando che le statistiche non sono mai neutre e che occorre un lavoro di «decostruzione», evidenziando la concezione del lavoro che hanno alle spalle. Da qui la tensione polemica con autori, filoni di ricerca che alimentano la sociologia del lavoro mainstream, tanto nella variante apologetica della realtà contemporanea che in quella che trasuda nostalgia per il passato della occupazione a tempo indeterminato. I saggi che ricostruiscono la figura del knowledge worker, tra i più avvincenti del volume, vanno collocati proprio in questo lavoro di «decostruzione» ed esprimono un percorso d ricerca che ha privilegiato autori spesso rimossi nella discussione pubblica attuale, come quando ricostruisce il vivace dibattito nella Germania weimariana attorno ai «lavoratori intellettuali», vero buco nero nella sinistra tanto socialdemocratica che comunista di allora. Si parte, dunque, dai conflittuali anni Venti tedeschi per poi spostarsi, seguendo il flusso degli intellettuali in fuga dal nazismo, negli Stati Uniti, dove tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta il futuro guru del management Peter Druker parla del knowledge worker non come «classe generale», ma come «classe che guida lo sviluppo capitalistico».
Il dialogo con la differenza sessuale
E a chi sostiene che in questi anni c’è stata una diminuzione del lavoro autonomo di seconda generazione, l’autore risponde che non si possono conteggiare solo i contratti di collaborazione continuativa. Ai co.co.co o alle consulenti, va aggiunta quella moltitudine di piccole imprese cresciuta in questi dieci anni. Imprese davvero «atipiche», visto che spesso sono composte da un datore di lavoro e uno, due dipendenti. Per Bologna più che di impresa si deve infatti parlare di lavoro autonomo che ha caratteristiche che nulla hanno a che vedere con le professioni liberali tradizionali, né con il commercio al minuto, né con la figure del coltivatore diretto. È una forza-lavoro che garantisce il coordinamento della produzione capitalista diffusa nel territorio, vera interfaccia cognitiva tra i diversi nodi dell’impresa a rete capitalistica. Svolge infatti mansioni con un livello medio-alto di competenze tecnico-scientifiche, ma soprattutto deve far leva su capacità relazionali per creare il contesto in cui la cooperazione produttiva innovi tanto il processo lavorativo che il prodotto. Da qui il saggio, di felice equilibrio tra ricostruzione storica e analisi dei processi in atto, sulla logistica. Da qui il dialogo serrato che Sergio Bologna ha intrattenuto in questi anni con la Libreria delle donne di Milano, comunità intellettuale che ha prodotto molti materiali di riflessione sulla «femminilizzazione del lavoro». La proverbiale vis polemica dell’autore si scaglia contro anche coloro che parlano e scrivono di precarietà in termini di crescente pauperismo della forza-lavoro, ricordando le genealogie - la fuga al tramonto degli anni Settanta dal lavoro sotto padrone o l’espulsione dalla grande fabbrica in fase di ristrutturazione capitalistica - del lavoro autonomo di seconda generazione.
Nel lavoro autonomo di seconda generazione troviamo tuttavia quell’ambivalenza che ha sempre caratterizzato il rapporto che uomini e donne hanno avuto con il lavoro nel capitalismo. Da una parte, ricerca di autonomia, affermazione, critica dello sfruttamento; dall’altra le forme del comando capitalistico su di esso. In questa ambivalenza, il lavoro autonomo di seconda generazione rifiuta «il posto fisso», ma al tempo stesso sperimenta ciò che lo stesso autore non esista a chiamare sfruttamento capitalistico. Allungamento della giornata lavorativa; costante riduzione dei compensi; ricatti da parte del «committente», quasi sempre un’impresa tipicamente capitalistica, un prelievo fiscale articolato secondo una logica neoliberista in base alla quale il lavoratore autonomo è un imprenditore di se stesso: sono questi gli elementi che caratterizzano la costituzione materiale del lavoro autonomo di seconda generazione. E dunque: quali forme di organizzazione, di lotta il lavoratore autonomo così specificato deve dotarsi e mettere in campo per conseguire un sistema di diritti che gli è precluso?
Oltre l’estetica della rivolta
Bologna invita a guardare ad alcune esperienze statunitensi, in particolare alla union dei free lance di New York, di come si è costituita attraverso Internet, di come sia riuscita a raggiungere ad un accordo con le compagnie di assicurazione sull’assistenza sanitaria, per poi porre il problema «politico» sul rispetto del pagamento della prestazione lavorativa, sul diritto alla maternità per le donne. E allo stesso tempo, serve una coalizione con il precariato diffuso. Le pagine che l’autore dedica all’esperienza della MayDay sono dettate da un’urgenza politica, che non nasconde però le differenze. E se la MayDay innova l’«estetica della rivolta» e di dunque di comunicazione politica attorno alla precarietà, spesso le loro rivendicazioni, sostiene Bologna, hanno come orizzonte un certo tipo di precari (della grande distribuzione, ma anche della grandi imprese della logistica) ma non hanno nulla da dire ai lavoratori autonomi di seconda generazione. Una differenza non da poco, ma che, si potrebbe aggiungere, può diventare una ricchezza della coalizione se diviene parola pubblica, anzi presa di parola tanto del precariato diffuso che dei lavori autonomi di seconda generazione. Ma anche di quei salariati tradizionali che spesso svolgono una prestazione lavorativa che non è poi così lontana dai lavoratori autonomi di seconda generazione.
Guerra contro la middle class
Un libro denso, che si presta a molte chiavi di lettura. Sarebbe ingeneroso non ricordare i saggi dedicati all’operaismo, a Danilo Montaldi, a Bartok, a «musica e democrazia», piccoli gioielli di un fare storia che non si accontenta della storia ufficiale e che meriterebbero ben altro spazio. Un libro come si è detto ambizioso, in particolare quando sottolinea la necessità di una risposta politica quella che potremmo chiamare la campagna di annientamento contro la middle class operata dalle istituzioni del capitalismo neoliberista (stati nazionali e organismi sovranazionali, partiti conservatori e partiti progressisti). Ma più che solo contro la middle class, appare una campagna politica di annientamento contro il lavoro sans phrase. Dunque contro i tempo indeterminato, i precari, gli autonomi di seconda generazione. E se di coalizione si deve parlare va quindi riconosciuto che a differenza del passato non c’è più un settore strategico della forza-lavoro (l’operaio-massa dell’impresa fordista), né la «classe guida dello sviluppo» (il knowledge worker di Peter Drucker), né il precario, figura equiparata spesso al proletario ottocentesco, bensì il lavoro vivo in tutte le sue determinazioni. Sergio Bologna lancia però la proposta di una autorganizzazione del lavoro autonomo di seconda generazione. È la scommessa da raccogliere una volta letto il libro.
Individui sociali nella rete del comando
«Ceti medi senza futuro?», un libro che raccoglie saggi e interviste di Sergio Bologna. Dalla deindustrializzazione al «divenire rendita del profitto», analisi e proposte di coalizione per il lavoro autonomo di seconda generazione
In questo libro, che raccoglie saggi, interviste e articoli scritti nel corso degli ultimi dieci anni, c’è tutta l’intelligenza e la lucidità di Sergio Bologna (Ceti medi senza futuro?, DeriveApprodi, pp. 282, euro, 19). Bologna è giustamente conosciuto, non solo in Italia, per essere stato il primo a prendere molto sul serio l’emergenza socio-professionale della figura del lavoratore autonomo di seconda generazione, espressione del passaggio dal fordismo al postfordismo, effetto dei processi di riorganizzazione dei modi di produrre a mezzo di esternalizzazione (outsourcing), di flessibilizzazione del mercato del lavoro, di digitalizzazione e globalizzazione, ma anche di esodo dal lavoro dipendente, cioè di scelta soggettiva, di rifiuto del lavoro subordinato.
L’individuazione di un soggetto emergente al di fuori della griglia cognitiva di gran parte della sociologia del lavoro accademica, secondo la quale il lavoro autonomo o atipico va interpretato dal punto di vista del lavoro dipendente, ha posto Bologna in una posizione critica - per così dire - nei confronti sia della baronia universitaria e delle organizzazioni sindacali, sia, anche, della sinistra radicale che nella trasformazione del lavoro ha voluto vedere soprattutto la dimensione precaria. E Bologna, senza peli sulla lingua, non si è mai sottratto alla polemica contro questo modo di interpretare le trasformazioni in atto con lo sguardo rivolto al passato, come se le nuove forme del lavoro «atipico», ma ormai tipico, fossero una sottrazione, un non-ancora del lavoro a tempo indeterminato.
Organizzazione cercasi
Per evitare i soliti equivoci, è bene citare un passaggio tratto dal saggio dal titolo «Il senso della coalizione»: «operaio massa e lavoratore autonomo di seconda generazione vorrebbero essere termini nei quali si racchiude da un lato il carattere coercitivo di una determinata organizzazione del capitale, dall’altro il potenziale di emancipazione, di liberazione che è intrinseco a certi valori di cui quelle figure sono portatrici. Non ho mai inteso dire che l’operaio massa fosse l’intera classe operaia del fordismo, né che il lavoratore autonomo di seconda generazione sia la maggioranza della forza lavoro postfordista. Intendevo dire che sono figure portatrici di determinati valori, per l’operaio massa l’egualitarismo, per il lavoratore autonomo di seconda generazione l’autodeterminazione». A partire da questa figura produttiva in cui management, capitale costante e lavoro salariato si fondono in un’unica persona (per cui risulta assurdo parlare di «impresa individuale», dato che l’impresa presuppone una precisa separazione tra questi ruoli), occorre intercettare i percorsi di autodeterminazione, le forme di vita, le pratiche relazionali e comunicative che permettono di autonomizzarsi dalle forme della regolazione capitalistica odierna: «Ieri era il cronometrista a starti dietro, oggi è una qualsiasi delle figure gerarchiche dell’azienda che è esperta dei mille sotterfugi con cui si gestisce la flessibilità, sostituendo un lavoratore a tempo indeterminato con un contratto a termine e questo con un interinale e l’interinale con un co.co.pro. e il co.co.pro. con una Partita Iva e via dicendo». In altri termini, Bologna è interessato ad evidenziare la trasversalità della riorganizzazione postfordista del lavoro, tanto che il titolo del libro, volutamente, tira in ballo il ceto medio, quella categoria bistrattata dalla sinistra che, rincorrendo i neoliberisti, la interpretano esclusivamente in termini di bacino elettorale, salvo poi trovarsi di fronte, allibita, il mostro dell’antipolitica.
Strategie di libertà
Il problema posto da Sergio Bologna è dunque quello della lotta di classe, della ricomposizione sociale e politica di una classe produttiva fatta di «individui sociali» isolati, despazializzati, di cui si possono conoscere le soggettività, le aspirazioni, le domande di identità navigando con attenzione nella blogsfera, una webclass, così la chiama Bologna, che già ha dimostrato di sapersi muovere a partire dalla mobilitazione degli intermittenti dello spettacolo in Francia, ai «devoti» di San Precario in Italia, alle forme organizzative in rete dei freelance newyorchesi. La «classe virtuale» per la quale occorrono nuove forme di coalizione non è, per Bologna, priva di differenze interne. Anzi, è proprio a partire dalla differenza di genere, dalle esperienze di lotta delle donne, che bisogna organizzarsi: «Se il lavoro femminile oggi è il lavoro tout court, le azioni di autotutela, le strategie di libertà, i modi di convivere con la precarizzazione, insomma il modo per non restare schiacciati dall’organizzazione del mercato del lavoro è quello delle pratiche femminili, quello - e non altri - è il modo di coalizione con valenza generale, con cui gli uomini debbono confrontarsi».
Le forme della ricomposizione, della coalizione politica, insomma della produzione di un’organizzazione all’altezza del pluriverso soggettivo del lavoro, scontano, devono scontare, una marcata autonomia. Quando Bologna afferma che «la rendita prevale sul profitto» si potrebbe aggiungere che, in realtà, vi è «un divenire rendita del profitto» perché gli odierni dispositivi di estrazione del plusvalore sono conficcati nel cuore stesso di questa composizione sociale del lavoro. Le forme di vita messe oggi al lavoro dal capitale sono l’equivalente della terra nel Tableau économique del fisiocratico Quesnay. La rendita, meglio del profitto, rappresenta l’esternalità dell’appropriazione di un valore prodotto fuori dai cancelli delle fabbriche, per cui non c’è nulla di particolarmente anomalo o scandaloso nella finanziarizzazione dell’economia postfordista, semmai è interessante capire come la finanziarizzazione, per il suo stesso modo di funzionare, produce un corpo sociale sempre più ingovernabile. La rendita-come-profitto è l’altra faccia di questa nuova composizione socio-professionale del lavoro, è il risultato della ricerca di nuovo plusvalore a partire dalla crisi del fordismo degli anni ’70, a partire cioè dall’impossibilità di succhiare plusvalore sulla base della composizione fordista del capitale.
La democrazia che verrà
Per saper ascoltare i «rumori della notte», come faceva il compositore ungherese Bartòk, di cui Bologna ci offre un bellissimo ritratto proprio in questo libro (che c’entra? C’entra molto, se si vuole capire Bologna!), bisogna adottare un nuovo metodo, una nuova cornice cognitiva, bisogna cioè guardare alle forme di vita di questa nuova classe fatta di singolarità multiple, di moltitudine. Il lavoro come vita oggi non ha rappresentanza, ma sta già producendo innovazione sociale, relazioni, scambi di esperienze, centri di ricerca autonomi, modalità di autoformazione, un vero e proprio prologo in terra di una democrazia a venire. Bologna fa suo il pensiero del giovane Karl Polanyi secondo il quale «Democrazia per noi non è un sistema di governo, è una forma ideale di vita».
Il senso della coalizione
In un suo recente intervento, che ha largamente circolato in rete col titolo Uscire dal vicolo cieco, Sergio Bologna dice che occorre smetterla di considerare la precarietà come una malattia adolescenziale, e occorre cominciare a parlare di "classe precaria". Per meglio apprezzare il senso generale dell'operazione concettuale e politica che Bologna sta compiendo, occorre leggere un libro che esce in questi giorni col titolo Ceti medi senza futuro?, pubblicato dalla casa editrice Derive approdi. Si tratta di un testo prezioso per chiunque voglia uscire dalla lunga spirale di vittimismo e di passatismo che ha caratterizzato finora il discorso della sinistra. A questo proposito scrive Bologna:
"Mai dimenticare che il postfordismo è stato il prodotto di una doppia spinta: da una parte la riorganizzazione capitalistica e dall'altra il rifiuto del lavoro normato, così come si manifestò, per esempio, nel movimento del '77. La precarizzazione l'abbiamo voluta anche noi! E pertanto deve essere cancellato ogni accento vittimista."
Nell'introduzione al libro è posto il problema politicamente più urgente: il problema dell'autodifesa dei lavoratori, di quella "coalizione dei lavoratori"che il postfordismo ha rotto con la complicità dei sindacati: "Il sistema postfordista è riuscito in larga parte a sradicare le condizioni della coalizione all'interno dei luoghi di lavoro esasperando le differenze tra segmenti della forza lavoro. Se i luoghi di lavoro non sono più luoghi di coalizione, non sono più sede di formazione di pratiche di democrazia politica, lo si deve in prima istanza agli accordi sindacali del luglio 1993 che hanno sancito la centralizzazione della contrattazione sindacale. Se i lavoratori dell'impresa non hanno più poteri di negoziazione salariale, su quali basi dovrebbe svilupparsi un'idea di coalizione nel luogo di lavoro?"
Ma Bologna non si ferma a costatare l'eredità di una sconfitta, e passa all'analisi delle trasformazioni sociali che la nuova organizzazione tecnica del lavoro ha prodotto, e delle possibilità nuove di organizzazione che dallinterno della forma-rete cominciano a vedere la luce. Il libro racconta anzitutto i risultati di un'indagine sui blog in cui si esprimono le opinioni e il vissuto di lavoratori. Attraverso questa indagine viene smontata l'ideologia della nuova impresa, e anche l'ideologia (ad essa speculare) secondo cui i lavoratori autonomi come padroncini. Uno sconosciuto lavoratore scrive ad esempio in uno dei blog su cui l'Autore ha svolto la sua ricerca:
"le tante neonate Nuove Imprese, orgoglio dei programmi di governo sia di destra sia di sinistra, non sono altro che milioni di persone che per non farsi sfruttare dai contratti di collaborazione si sono aperti la fatidica Partita Iva. Siamo stati COSTRETTI a creare queste nuove imprese. ci hanno costretto ad avventurarci nell'impresa di diventare liberi professionisti, ai quali chiedere più del 40% di tasse. Io sono uno di questi nuovi liberi professionisti, io sono una nuova impresa. Perché l'ho fatto? Perché con una partita iva ho qualche possibilità in più di far valere i miei diritti mentre con i contratti a progetto ho solo doveri. O almeno non cè nessuno che vigili sull'uso quasi criminoso che i datori di lavoro fanno di questa formula contrattuale."
Il concetto di «impresa individuale», sostiene Bologna, è una contraddizione in termini, un falso che nasconde le condizioni dello sfruttamento di rete. L'impresa individuale è in realtà l'autogestine dello sfruttamento nella dinamica cellularizzata della fabbrica sociale di rete. Al tempo stesso, però, Bologna indica la doppia valenza della messa in rete del lavoro. Proprio nella dimensione della rete si ricreano le condizioni della coalizione e della solidarietà dei produttori, fuori dai luoghi della politica rappresentativa.
"Bisogna proprio essere ottusi per non vedere che ormai va crescendo una specie di onda lunga che percorre l'intero pianeta lungo il circuito del web all'interno della quale si consolida un'identità che appare ancora di tipo generazionale ma sempre più acquista i contorni di classe."
Bisogna proprio essere sordi e ciechi per continuare a ignorare la dimensione del web, come una forma di rappresentanza. Il web come forma di rappresentanza, come spazio dell'autorganizzazione e dell'autodifesa del nuovo lavoro. Da qui inizia il processo di costruzione della coalizione politica che può restituire forza sociale agli sfruttati. Una sola obiezione voglio rivolgere a Sergio Bologna: dal momento che il suo discorso è centrato sulla scoperta e sulla descrizione della nuova figura sociale produttiva, perché usare ancora l'espressione ceti medi, per definirla? Nel libro è contenuta una ricostruzione utilissima del concetto di "lavoratori della conoscenza", e della loro differenziazione rispetto all'intellettuale moderno. Perché non ripartire da qui, dal carattere essenzialmente cognitivo della produzione di valore, per una definizione meno banale (sociologico-giornalistica) della definizione "ceti medi"?
di Bifo
mercoledì, ottobre 10, 2007
The Shock Doctrine - Recensione di J.E. Stiglitz
A questo link una recensione di The Shock Doctrine scritta da J. E. Stiglitz - premio Nobel per l'economia nel 2001 - e pubblicata su The New York Times lo scorso 30 settembre.
I conflitti delle identità negate - intervista a Pizzorno
Qui l'articolo completo.
Lei dedica critiche durissime all'individualismo metodologic. Uno dei compagni di strada di questa critica è Albert Hirshman e la sua tassonomia dell'azione sociale (la defezione, la protesta, la lealtà)...
Hirshman è senza dubbio un autore importante perché la sua riflessione non partiva dalla convinzione che la realtà sociale potesse essere spiegata partendo dalle strategie individuali di massimizzare i propri interessi. Ne abbiamo parlato molte volte negli incontri che abbiamo avuto. Siamo stati sempre in sintonia sul carattere «sociale» del comportamento umano rispetto a quelle spiegazioni che privilegiavano le intenzionalità, le passioni, gli interessi individuali. Poi abbiamo preso strade diverse e ci siamo, come si dice, persi di vista. In questa mia esplorazione dell'azione sociale mi sono imbattuto in autori, come ad esempio il filosofo Donald Davidson, secondo i quali c'è razionalità in un'azione sociale quanto essa è coerente con le intenzioni degli attori sociali. Una spiegazione seducente certo, che pone tuttavia un problema: siamo così sicuri di sapere appieno quali siano le intenzioni, i desideri, insomma la ratio degli attori coinvolti in un'azione? Ne dubito. Noi sappiamo solo ciò che vediamo. Dunque, un ricercatore deve recepire un'azione e al stesso tempo situarla. Deve cioè interpretarla.
Lei sostiene che società può essere una parola fuorviante se non adeguatamente qualificata. Infatti, lei preferisce parlare di «cerchia di riconoscimento», quasi che le relazioni di prossimità spieghino il perché e il come delle relazioni sociali. Solo in base a questa preliminare interpretazione si possono arricchire di specificazioni successive....
La cerchia di riconoscimento non coincide solo con le realzioni di prossimità. Può indicare anche un partito, un sindacato, un'impresa, una nazione. Vorrei però introdurre un altro concetto, quello di «reidentificazione». Quando io voglio spiegare un fatto o un evento, come si dice nella nostra contemporaneità, mi trovo di fronte a una situazione in cui è stata attribuità una identità alle persone. Il ricercatore deve tuttavia compiere un'operazione preliminare: deve reidentificare la persona alla luce di quanto accaduto nella realtà in seguito all'azione che compie. Prendiamo una ragazza di religione musulmana che decide di indossare il velo quando va a scuola in Francia o in Italia, dove indossare un velo è segnato da un disvalore: ma cosa accade quando lo indossa? come modifica i comportamenti degli altri? La risposta a queste domande svela la razionalità dell'azione e al tempo stesso svolge appunto un lavoro di reidentificazione, perché la ragazza stessa è modificata da quell'azione. La chiave di tutto per me sta proprio nel riconoscimento: si compiono delle azioni perché vogliamo essere riconosciuti, cioè vogliamo la stima, la fiducia e acquisire visibilità nel nostro gruppo di riferimento. Sono stato spesso accomunato al filosofo tedesco Alex Honneth, ma mentre lui intende il riconoscimento come rispetto degli altri, io preferisco rifarmi a quanto sostiene Hegel a proprosito del servo e del padrone: diventano l'uno servo, l'altro padrone, quando c'è riconoscimento reciproco. Da questo punto di vista aderisco totalmente a una certa ortodossia sociologica che privilegia le relazioni sociali alle intenzioni degli individui. Dunque Max Weber di quando faceva ricerca, Emile Durkheim studioso della società, Karl Marx e la centralità dei rapporti sociali. Il mio è solo un contributo per uscire fuori dalla condiszione disastrosa in cui siamo caduti a causa dell'egemonia dei teorici della scelta razionale e della intenzionalità come motore dell'azione.
Lei parla spesso parla di capitale sociale in termini polemici con la concezione economicista che spesso accompagna questo concetto.....
È un concetto che ha una lunga storia. Ci sono le reti sociali ampiamente studiate da Mark Granovetter. C'è poi Robert Putnam, ma che recentemente ne dà una lettura minimalista, quasi che il capitale sociale sia espressione di una generica tendenza ad avere rapporti di buon vicinato Allo stesso tempo, Pierre Boudieu ha parlato di capitale sociale in relazione al possesso di alcune risorse (relazionali, di know how). Dal mio punto di vista il capitale sociale non si rifereisce a relazioni di scambio, né al semplice incontro casuale tra persone. Non si può parlare di capitale sociale quando ci troviamo di fronte a relazioni di ostilità, conflittuali o di sfruttamento. Possiamo dunque parlare di capitale sociale solo in presenza di relazioni continuative nel tempo, segnate da solidarietà e reciprocità e in cui è possibile che le identità dei partecipanti siano riconosciute.
Lei parla di identità sempre all'interno di una relazione duale: io e l'altro. Mi sembra invece che la tematica della identità debba introdurre un'altra figura che va a comporre un triangolo. Possiamo chiamarla uditorio, oppure dell'intervento esterno del ricercatore. In altri termini, si può parlare di identità solo in un rapporto triangolare, dove il terzo partecipante alla relazione «certifici» l'identità di entrambi di partecipanti alla relazione. Lei che ne pensa?
Non avevo mai pensato a una terza figura che attesta il riconoscimento. Ci devo pensare, ma se analizziamo il riconoscimento dell'identità effettivamente c'è bisogno di una terza figura, che potremmo chiamare il «certificatore», che attesta le identità delle persone coinvolte nella relazione. Ripeto: non so se sono d'accordo con questo schema, ma è uno schema a prima vista convincente..
La maschera è una costante nella sua riflessione. Possiamo però pensare all'identità come una maschera.....
Certo, l'identità è una maschera che posso indossare per presentarmi come nordafricano, nero, musulmano, cioè in base a tipologie e tassonomie di persone e gruppi umani che vogliono presentarsi con alcune caratteristiche immutate nel tempo. Sappiamo, però, che non è così, perché l''identità si definisce in una relazione, sia all'interno di uno stesso gruppo che al di fuori del gruppo. Soltanto che si pone un primo problema: se la mia identità di nordafricano, nero, musulmano non viene accettata dagli altri, cosa faccio? Posso lavorare a quelli che Alain Touraine chiama i meccanismi di integrazione. Ma questo aggiustamento della maschera è un tradimento dell'identità «certificata». La stessa rivendicazione di una identità originaria è tuttavia un tradimento, perché, ripeto, c'è identità all'interno di relazione sociale. Dunque la maschera consente di presentarmi alla relazione con l'altro, ma così facendo accetto il fatto di doverla continuamente modificare all'interno di questa relazione.
Sul tema identità e globalizzazione è stato scritto molto. Una cosa però è certa: l'identità, in un mondo globale, è sia un riparo attraverso il quale possiamo essere riconosciuti. Ma anche il manufatto per entrare a forza nella cerchia di riferimento che è la società globale.
Si, è un riparo dietro il quale ci difendiamo dai fattori «destabilizzanti» della globalizzazione. Ma anche lo strumento attraverso il quale possiamo essere riconosciuti. Indossiamo quindi la maschera e poi la modifichiamo per poter essere riconosciuti anche quando viene la usiamo per criticare i meccanismi di integrazione della globalizzazione. Oscilliamo cioè tra integrazione e rifiuto.
Lei dunque tende ad escludere che un'identità possa essere inventata, meglio immaginata, per parafrasare il libro di Benedict Anderson «Le comunità immaginarie»?
Non escludo questo, ma aggiungo solamente che una volta inventata o immaginata deve essere riconosciuta, altrimenti torniamo a spiegare la società in base alle intenzioni dei singolii. È solo nel riconoscimento che un singolo o un gruppo sociale può esercitare la voice, l'exit o la loyalty. Il riconoscimento è infatti indispensabile, perché garantisce visibilità, reputazione, dignità. Mi viene spesso obiettato che in passato non c'erano solo lotte per il riconoscimento, ma anche lotte di classe. Dal mio punto di vista anche quelle degli operai o dei proletari se preferisce erano lotte per il riconoscimento. Non si lotta solo per avere dei vantaggi, ma sopratutto per essere riconosciuti. Certo entriamo in un terreno ambiguo, perché accanto all'identità emerge il suo corollario, la diversità. Il riconoscimento non è mai indolore. E infatti può essere l'esito di relazioni molto conflittuali, perché all'interno di ogni relazione è sempre presente la minaccia di andarsene e dimostrare che non hai bisogno dell'altro. È come nel rapporto amoroso, che è sempre una relazione conflittuale perché è latente la possibilità che uno dei due partner renda operativa la minanccia di andarsene, abbandonando così l'amato o l'amata. In passato ho molto studiato i conflitti di lavoro e mi sono trovato di fronte delle situazioni paradossali, specialmente negli Stati Uniti. Poteva esserci un imprenditore che offriva 200 dollari in più per un determinanto tipo di lavoro e gli operai rifiutavano perché quel lavoro avrebbe comportato il tradimento della propria identità e dell'apparato di riconoscimento che avevano contribuito a costruire. Può sembrare un assurdo un comportamento così «disinteressato», visto che dalla mattina alla sera c'è sempre qualcuno che sentenzia sulla tendenza innata dei singoli a massimizzare i propri interessi. Eppure accade il contrario, perché il riconoscimento vuol dire solidarietà, reciprocità, comunanza.