Nella loro introduzione a Translation, Biopolitics and Colonial Difference, Naoki Sakai e Jon Solomon – due dei critici più originali degli studi postcoloniali asiatici ospiti a Bologna nei giorni scorsi di due seminari sul tema della traduzione – affermano che le “entità macro-spaziali (stati-nazione, regioni o altre comunità culturali omogenee) lasciateci in eredità dalla modernità coloniale non sono la traduzione letterale di un qualche presunto soggetto trascendentale (come la sovranità nazionale o l’Occidente) ma una forma storicamente specifica di “appropriazione del comune”. Se guardiamo ai conflitti più importanti del nostro presente, si può certo sostenere che questa descrizione del progetto coloniale moderno restituisca una dimensione politica davvero cruciale a uno dei presupposti essenziali degli studi postcoloniali: il capitalismo moderno si è costituito sin dalla sua nascita come una “macchina produttrice di differenziazione”, si è sempre dispiegato attraverso dispositivi biopolitici di segregazione e di confinamento.
Sakai e Solomon sono piuttosto chiari su questo punto: le recinzioni materiali si sono da sempre accompagnate a recinzioni immateriali. I processi di accumulazione originaria hanno riguardato certo i beni materiali, ma hanno scatenato la loro violenza anche sulle culture, le lingue, i saperi. Attorno a premesse di questo tipo è andato configurandosi negli studi postcoloniali un importante dibattito sulla nozione di “capitalismo postcoloniale”. Può dirci davvero qualcosa sulla condizione globale contemporanea? Il libro di Sandro Mezzadra “La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale” (Ombre corte) offre a questo dibattito un contributo sicuramente originale e ricco di spunti.
Sin dalle prime pagine, e “correggendo” un importante deficit politico e di radicalità che attraversa buona parte della critica postcoloniale di matrice anglosassone, Mezzadra mette bene in luce che ciò che intende per “condizione postcoloniale” ha a che vedere soprattutto con i modi in cui sono andate articolandosi sia la costituzione materiale dell’attuale capitalismo globale, sia le insorgenze che lo attraversano e che ne contestano i principi. Aprendo l’archivio degli studi postcoloniali in modo volutamente (e giustamente) “selettivo” Mezzadra colloca al centro della sua analisi la nozione di “confine” o, meglio, quel principio di confinamento spaziale e temporale che era al tempo stesso “codice e limite interno fondamentale del progetto coloniale”. Come si ricorderà, era proprio questa proliferazione di confini a produrre nelle società coloniali ciò che Frantz Fanon chiamava ne I dannati della terra uno “spazio proteiforme”, ovvero uno spazio sociale eterogeneo caratterizzato dalla coesistenza sullo stesso territorio di diversi modi di produzione, diversi regimi di lavoro e diverse temporalità storiche. In modo estremamente convincente, e affrontando l’argomento a partire da molteplici punti di vista, Mezzadra individua nell’infiltrazione di questi codici coloniali di confinamento negli ex-spazi metropolitani la specificità “postcoloniale” della nostra condizione contemporanea. E’ proprio la diffusione globale di questo principio coloniale di confinamento e quindi l’irruzione di questo spazio “disomogeneo” o “proteiforme” – della frammentazione o eterogeneità sociale, economica, culturale, storica e giuridica tipica degli ex territori coloniali – nel cuore delle stesse metropoli occidentali a consentirci di definire il nostro presente come postcoloniale. Secondo Mezzadra, infatti, “una volta che il confine coloniale ha cessato di organizzare in modo coerente la geografia globale, esso si diffonde virtualmente ovunque, riproducendosi sulla superficie apparentemente liscia del presente globale: accompagna la nuova logica delocalizzata della produzione, segna in modo brutale intere società che furono un tempo capaci di liberarsi dal giogo coloniale, introduce nuove radicali differenze di status e nuove forme di apartheid nell’Occidente postcoloniale, si fortifica fisicamente, condannando potenzialmente a morte chiunque tenti di attraversarlo, passando tra le recinzioni tra Tijuana e San Diego o facendo naufragio nel Mediterraneo”.
E’ così che la condizione postcoloniale, in quanto sintomo della sovrapposizione di quei confini “infrasistemici” che avevano permesso in passato di distinguere chiaramente la dimensione spazio-temporale delle metropoli da quelle delle colonie, mette radicalmente in discussione qualsiasi interpretazione storicistica del presente, qualsiasi tipo di sapere improntato a una qualunque filosofia della storia. In effetti, si tratta di una condizione che vede il riaffiorare disordinato dell’insieme dei passati storici che il capitalismo moderno ha trovato sulla sua strada, in cui “sussunzione formale” e “sussunzione reale” del lavoro al capitale riescono a ibridarsi, a convivere fianco a fianco senza definire una qualche tendenza lineare di sviluppo. Mezzadra però ci mette costantemente in guardia dall’evitare facili analogie tra la condizione coloniale del passato e quella postcoloniale del presente. Il post di postcoloniale non sta mai ad indicare una persistenza stabile e lineare nel presente del passato coloniale. Esprime certamente delle continuità, nel senso che tra le genealogie del presente globale vi è anche e soprattutto il colonialismo moderno, ma non può costituirsi come un semplice equivalente del termine neocoloniale. Soprattutto perché la “scoperta dell’eguaglianza” trasmessaci dalle lotte anticoloniali, il rifiuto del mondo a scomparti tipico della situazione coloniale, costituisce un portato irreversibile del nostro presente. Così, ciò che Mezzadra tiene a sottolineare è che la radicalità delle rivendicazioni di ega-libertè profuse in tutto il mondo dalle insurrezioni anticoloniali ha messo per sempre in crisi la possibilità di assumere come scontato lo stesso principio del confinamento e la conformazione “attorno ad esso di un modello univoco di governo dei processi politici e produttivi, nonché uno stabile assetto dei confini, geo-politici o identitari”. Mi pare che proprio qui il suo lavoro ci offra dei suggerimenti davvero interessanti attraverso cui pensare la nozione di capitalismo postcoloniale: nella sua definizione dell’istanza postcoloniale come condizione instabile e aleatoria in cui le possibilità stesse del capitale – il suo costituirsi come “macchina di differenziazione” – devono essere costantemente riaffermate, ovvero vengono quotidianamente sfidate dalle pratiche di uomini e donne che nella loro irriducibile molteplicità cercano di sottrarsi all’azione dei suoi dispositivi biopolitici di confinamento: nel Chiapas come in Palestina, a Buenos Aires come nelle Banlieues parigine. E che nel momento stesso della loro soggettivazione aprono la questione politica della loro ricomposizione in quanto classe: della traduzione della loro inclusione differenziale nella produzione di un nuovo comune.
1 commento:
Gran libro, recensito a mia volta.
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