tratto da Nandropausa #13 - Libri letti, discussi e consigliati da Wu Ming - 13 dicembre 2007
E' difficile recensire La fuga in avanti di Manolo Morlacchi. Come una torta appena sfornata, questo libro andrebbe lasciato a raffreddare sul davanzale. Chi intende parlarne in modo equanime deve avere la volontà e la forza di riempire certi buchi, ed è fatica improba mantenere una distanza senza cedere alla tentazione della ripulsa. La priorità è duplice: criticare il libro per quello che è, non è o sarebbe potuto essere, senza mancare di rispetto alla carne e al sangue che lo formano.
Insomma, cos'è questo libro? E' una testimonianza di amore filiale e nipotile. Ed è un contenitore di microstorie della Milano operaia e antifascista, dagli albori del socialismo a poco fa, passando per il ventennio, la ricostruzione, il boom e la bufera degli anni Settanta. Appunto, i Settanta. La fuga in avanti è qualcosa di "sbagliato", che si colloca sul "lato cattivo": il Lessico famigliare di un figlio e nipote di brigatisti. Un figlio che ha amato i propri genitori e, dopo la loro morte, li ringrazia per lo "splendido clima" (!) in cui ha trascorso l'infanzia. Un figlio che non descrive "demoni" alla Stavrogin, bensì mamma, papà e zii, esseri umani coi loro affetti e sorrisi, le loro passioni, le forze e le debolezze. E' proprio questo a rendere il libro... oltraggioso, inaffogabile nel pour parler di un'epoca dominata da falsi pacificatori.
Manolo Morlacchi era bambino quando suo padre Pierino entrò nel circuito delle carceri speciali. Pierino veniva da una delle più note famiglie comuniste del quartiere Giambellino, e suo figlio ne approfitta per narrare la saga, le scelte, le avventure e disavventure di tre generazioni di militanti, sullo sfondo di una Milano proletaria che non esiste (quasi) più. Il libro di un familiare di chi scelse la lotta armata è merce rara, o meglio: è raro perché non è abbastanza merce. Sono altri i punti di vista vendibili e acquistabili, abbonda la pubblicistica di/su ex-terroristi spettacolarizzati, che si rifanno vivi a parlare ex cathedra, magari dopo un risciacquo nel "sociale" targato CL. Sono narrazioni fatte su misura per la stagione del rimorso senza ripensamento, parenti strette di quei saggi su sangue dei vinti e cuori neri in cui l'antifascismo militante è ridotto a nihilismo e Grand Guignol.
La fuga in avanti, con tutti i suoi limiti e dislivelli, ha il pregio di non correre incontro ad alcuna moda. Di più: Morlacchi scrive il libro più inattuale, più in controtendenza che si possa immaginare. Ci vuole coraggio, anzi, incoscienza, a far uscire un'opera del genere. Eppure, persino chi all'epoca combattè la lotta armata con ogni mezzo (anche malsano, e sarebbe ora di riflettere sul lascito della legislazione d'emergenza) potrebbe trarre beneficio da alcune pagine di questo libro, perché è importante ri-umanizzare il nemico e non rimanere prigionieri di un rancore che spegne l'anima (come nel romanzo di Carlotto L'oscura immensità della morte). Limiti e dislivelli, dicevo. Per essere davvero un libro riuscito, La fuga in avanti avrebbe necessitato di un maggior controllo della materia e della scrittura, ma non è cosa che si possa chiedere a una persona tanto coinvolta emotivamente. Certo, con un po' di respiro in più e qualche reticenza in meno sarebbe stato un romanzo popolare anomalo e inconciliante... ma allora avrebbe dovuto scriverlo qualcun altro, ed è chiaro che nessun altro avrebbe potuto scriverlo. Quel che resta è vivida memorialistica da un'angolazione inusuale, con quaranta pagine di fotografie ad arricchire il racconto. Ho appena usato la parola "reticenza" e intendo spiegare perché. Ci sono troppi non-detti. L'autore rimane sostanzialmente acritico nei confronti delle Brigate Rosse, o quantomeno del loro "nucleo storico". In nessun punto Morlacchi aggiorna o corregge le proprie impressioni d'infanzia: "I compagni del nucleo storico. Guardavo a loro con gli occhi di un bambino che osserva i propri eroi che lottano contro le forze del male... Mio padre e i suoi compagni erano uomini giusti, capaci di intelligenza, ironia e grande altruismo; avevano tutti i pregi che mi era così difficile trovare nel mondo 'libero'."
Del resto, pure in ambienti insospettabili sopravvive una visione "romantica" delle prime BR: il passaggio dall'epoca Curcio-Cagol al "militarismo" di Mario Moretti è visto come una coupure, una rottura di continuità, ma troppi elementi vengono rimossi dal quadretto alla Robin Hood. Dal carcere, a partire dal 1980, il "nucleo storico" finì per appoggiare la linea iper-sanguinaria di Senzani e del partito-guerriglia, "patrocinando" azioni ripugnanti e insensate. Una su tutte: l'esecuzione con colpo alla nuca delle guardie giurate Sebastiano D'Alleo e Antonio Pedio, a Torino, al solo fine di far trovare sui corpi un comunicato contro una pentita (Natalia Ligas) che non era nemmeno tale. L'incaglio in una palude di cadaveri non fu conseguenza di uno sbandamento, di un'uscita di carreggiata: è una possibilità insita in qualunque culto dell'avanguardia separata dalle masse. Quasi cent'anni prima della nascita delle BR, Marx ed Engels avevano condannato duramente la fascinazione per le società segrete e dichiarato che, almeno in Europa, la rivoluzione non sarebbe stata "affare per massoni". Forse, nei loro incubi, i due capostipiti avevano visto il videotape della condanna a morte di Roberto Peci, dichiarato traditore su base biologica - per consanguineità con un pentito - dopo un "processo" senza difesa. Pornografia della violenza degradante, reality show di faida mafiosa, il tutto accompagnato dall'Internazionale, inno mai tanto svilito e insozzato, nemmeno nei giorni delle purghe staliniane.
Quel singolo episodio è un dado super-concentrato, contiene un minestrone di tutti gli errori del movimento comunista. Riconoscere l'orrore anche dentro l'amore non è "fuga all'indietro", né significa abiurare il conflitto. Al contrario, è il solo modo per tornare a pensarlo fecondo.
lunedì, gennaio 07, 2008
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