di Benedetto Vecchi - il manifesto 24 gennaio 2008
All'esistenza del grande casinò dell'economia mondiale Giovanni Arrighi non crede proprio. È uno studioso che ha sempre tenuto alla dimensione storica, «processuale», dei fenomeni sociali e ecopnomici. Nel suo ultimo libro, in uscita per Feltrinelli con il titolo Adam Smith a Pechino (nelle librerie dal 21 febbraio), lo studioso italiano, docente alla John Hopkins University e direttore del Fernand Braudel Centre, propone una analisi del capitalismo storico tanto affascinante, quanto da discutere. La sua tesi è che il centro dell'economia mondiale si è spostato a Pechino, mentre gli Stati Uniti continuano il loro lento, ma inesorabile declino. Una tesi «partigiana», che discute criticamente a distanza con quanti, come il geografo marxista David Harvey o Naomi Klein, considerano fondamentale dare una sistemazione teorica al ciclone neoliberista, considerato da Arrighi solo una parentesi, a differenza di quanti lo hanno considerato come un modello sociale la cui comprensione aiuterebbe a capire le tendenze nello sviluppo economico capitalistico.
L'intervista è avvenuta a Roma, dove Arrighi è arrivato per partecipare a un seminario organizzato dal Centro riforma dello stato, sul quale ha scritto su questo giornale Angela Pascucci, il manifesto del 22 gennaio e che è stata testimone attiva dell'incontro e della discussione nata durante l'incontro.
«Adam Smith a Pechino» inizia con l'affascinante suggestione sul ritorno del baricentro dell'economia mondiale in Cina, una società di mercato non capitalista. Un'immagine che contraddice le statistiche, nonché le analisi provenienti da quella realtà, le quali descrivono un paese che ha decisamente imboccato la strada del capitalismo. A chiusura del libro la società di mercato non capitalistica diviene è più una speranza che non la realtà. A che punto siamo?
Non parlerei di un carattere ciclico dello sviluppo storico. Per prima cosa va ricordato che l'Europa ha conosciuto uno sviluppo capitalistico con caratteristiche uniche, l'inizio del quale coincide con l'avvio della «grande divergenza» tra Oriente e Occidente. La scommessa teorica su cui cimentarsi è capire il perché lo sviluppo capitalistico mostra evidenti limiti e perché l'Asia, e la Cina in particolare, siano diventati il centro del mercato mondiale, proprio come lo erano all'inizio della grande divergenza.
La Cina ha una lunga tradizione di un'economia di mercato dove sono stati presenti elementi capitalistici molto innovativi. Allo stesso tempo l'esistenza di una diaspora cinese ha sempre consentito a quel paese di avere un rapporto stretto il resto dell'Asia e, dall'Ottocento in poi, anche con gli Stati Uniti. Nessuno dei capitalisti cinesi ha però mai puntato, dal quindicesimo secolo in poi, a controllare lo stato, fattore indispensabile per esercitare un'egemonia sulla società, come hanno sostenuto, seppur da prospettive non sempre coincidenti, Karl Marx e Fernand Braudel.
Non esprimo dunque una speranza, bensì prendo in esame la possibilità che in quel paese stia prendendo forma una società di mercato non capitalista. Questo non esclude la possibilità che invece si sviluppi un sistema capitalistico. André Gunder Frank, al quale è dedicato il libro, mi ripeteva, prima che morisse, che la categoria capitalismo andasse abbandonata. Non ero d'accordo, ma la sua provocazione va accolta come un invito a guardare al capitalismo come una realtà che, come ha scritto Fernand Braudel, deve mutare continuamente per sopravvivere.
Il capitalismo è stato infatti caratterizzato da schiavitù e da espansione territoriale. E così abbiamo avuto il colonialismo e forme aggressive di imperialismo. Poi c'è stato il welfare state nei paesi centrali e diverse forme di subordinazione politica e economica di gran parte della popolazione mondiale. Ora stiamo assistendo all'esaurimento della della spinta propulsiva costituita dal militarismo e dall'imperialismo. È dunque evidente la perdita della capacità euristica dei paradigmi fin qui usati per comprendere dove sta andando l'economia mondiale.
Nel Manifesto del partito comunista, Marx e Engels prospettano un'omologazione capitalista del mondo. Questo li conduce a un'enfasi, molto discutibile, sul carattere progressivo del capitale. La loro profezia non è molto lontana dal «mondo piatto» di uno analista liberal come Thomas Friedman. Il mondo attuale è però tutt'altro che piatto, come testimoniano le vicende cinesi. Non so se la Cina sia capitalista o un socialismo di mercato, ma la sua irruzione sulla scena mondiale provoca un mutamento dei rapporti nel sistema interstatale e che il Sud si presenta ora in una posizione di forza rispetto al Nord del mondo. Ultimamente, ho parlato spesso sulla possibilità di una una «nuova Bandung», cioè di un'intesa tra i paesi del Sud del mondo cementata dll'aumentato peso nel mercato mondiale.
L'uso che fai di Adam Smith è affascinante. Mentre la saggistica dominante lo descrive come il teorico del capitalismo, tu lo consideri come uno studioso a favore del mercato, ma non del capitalismo. L'autore della «Ricchezza delle nazioni» si pone però l'obiettivo di elaborare delle categorie utili a comprendere il funzionamento del capitalismo. Noi ci limitiamo a percepire una grande cambiamento, ma abbiamo difficoltà a innovare le categorie utili per capire la trasformazione in atto. Ti propongo una provocazione: l'analisi del tanto bistrattato Lenin sul capitalismo di stato gestito dal partito potrebbe aiutare a comprendere il dinamismo economico nell'Asia orientale o nel Sud-Est asiatico. Non credi?
Possiamo sostenere che ci sono diverse forme attraverso le quali le élite nazionali esercitano il potere di governo nelle società. Una tesi già avanzata proprio da Adam Smith. In Cina, le riforme di Deng Xsiao Ping sono state varate per salvare la rivoluzione popolare dalla rivoluzione culturale e avevano come centro le campagne. Solo in seguito sono arrivati i capitali stranieri. Negli anni Novanta la situazione è sfuggita di mano al gruppo dirigente, che cerca ora di riprendere il controllo. Mi lasciano molto perplessi alcune letture sul carattere totalitario della società cinese, segnata storicamente dalle rivolte contro il potere centrale o locale. Attualmente, il numero di scioperi, manifestazioni, rivolte è impressionante. E sono ribellioni che coinvolgono centinaia di milioni di uomini e donne. Il partito comunista cinese ha dunque il problema di contenere questa tendenza alla rivolta. C'è poi un altro fatto, su cui pochi si soffermano. Nell'ultimo decennio è accaduto ad esempio che la maggior parte dei quadri intermedi si sono dati al business. Così, il vertice del partito e dello stato non hanno quella camera di compensazione utile per esercitare una governance sulla società.
Nel tuo libro scrivi che le crisi delle borse non sono una tragedia....
La crisi delle borse provocano impoverimento. Questo è indubbio. Ma se ragioniamo in termini sistemici è benefica, perché mette termine a quella follia degli anni Ottanta e Novanta caratterizzata dalla corsa spasmodica per conseguire superprofitti. Un ventennio durante il quale è accaduto di tutto. Crescita del credito al consumo, acquisto da parte del Sud del mondo di buoni del tesoro americano che hanno riversato una massa di capitale monetario negli Stati Uniti che ha alimentato la finanziarizzazione dell'economia. Se non c'è stato il crollo dobbiamo ringraziare il Sud del mondo, che ha alimentato la domanda mondiale, prodotto merci a basso costo per i consumatori statunitensi e, in misura minore, europei; la Cina, come il giappone negli anni Ottanta, acquista buoni del tesoro americano attraverso il quale gli Stati Uniti finanziano il loro dominio sul mondo. La crisi delle borse mette fine a questa follia. E segnala anche la fine dell'egemonia americana nell'economia mondiale. Ora la locomotiva è rappresentata dalla Cina e, in misura minore, dall'India che sostengono la domanda. Diverso è il problema di come fronteggiare le conseguenze sociali delle crisi delle borse. Qui mi sembra che le proposte in campo siano a dir poco deprimenti.
Come scrivi a un certo punto tu, citando una nota frase di Marx, per capire il capitalismo occorra svelare l'arcano dei laboratori della produzione....
Un'indicazione metodologica di Marx che i marxisti hanno ben presto rimosso. Doveva essere Mario Tronti con Operai e capitale a tirarla fuori nuovamente. Ho però molto dubbi che l'indicazione di scendere nei laboratori della produzione aiuti a capire nessun arcano. Per capire il funzionamento del capitalismo dobbiamo fare i conti con il proliferare di forme economiche di mercato, ma non necessariamente capitalistiche. E poi anche della compresenza di diversi modelli di capitalismo.
Il «mondo non sarà piatto», ma perché allora non pensare che esiste anche una compresenza di modelli produttivi e che siano tra loro interdipendenti. Silicon Valley, ad esempio, non può esistere senza i «lager» dove si producono microchip con una forza-lavoro ridotta quasi in schiavitù o a una condizione carceraria. In altri termini, l'high-tech o le biotecnologie hanno un doppio legame con la militarizzazione del lavoro presente tanto nel nord che nel sud del mondo....
Bisognerebbe scrivere un altro libro per rispondere a questa domanda. Per il momento, sono interessato a capire il ruolo giocato dal militarismo. Molte delle innovazioni produttive sono venute ad esempio dalla produzione di armi. Inoltre sono polemico con chi fa coincidere il capitalismo con la sua fase industriale.
Silicon Valley non è industrialismo...
Certo. Sono convinto della crisi della grande fordista. Se dobbiamo parlare di un modello produttivo emergente, questo è Wal Mart. Ripeto: se si vuol capire come il capitalismo abbia esercitato la sua egemonia su gran parte della popolazione mondiale bisogna cercare capire il linkage tra militarismo e imperialismo. Che vuol dire espansione e conquista territoriale. Ad esempio il capitalismo si è sviluppato attraverso lo schiavismo...
Ma negli Stati uniti lo schiavismo conviveva con l'industria dell'acciaio che innova profondamente la produzione.....
Si, ma l'elemento fondamentale per capire la diffusione del capitalismo e l'egemonia che esercita nel mondo devi capire il ruolo del militarismo, della potenza militare.
Hai appena detto che esiste una attitudine all'insubordinazione della società cinese. Non si capisce però quale sia il rapporto tra questa conflittualità diffusa e il potere politico. Come si dipana dunque il rapporto tra movimenti e istituzioni?
La rivoluzione ha costituito uno spartiacque nella storia cinese. Da allora l'arbiitrio dello stato può essere contestato. E quando accade le forme della critica vanno dallo sciopero alla rivolta vera e proprio. Durante una visita in Cina ho parlato con un quadro del partito che aveva costituito una joint-venture con un'impresa francese per produrre champagne in Cina. Ad un certo punto, la sezione locale del partito ha proposto l'espropriazione della terra. I contadini hanno sequestrato i dirigenti aziendali, i funzionari statali e quelli del partito, ponendo una condizione: «li rilasciamo solo se firmate un accordo che la terra continueremo a coltivarla noi». Il partito ha subito firmato l'accordo.
Mi piace ricordare questo episodio perché indica chiaramente che il partito può pure decidere questa o quella cosa, ma se gli uomini e le donne oggetto di quella decisione non sono d'accordo non vanno tanto per il sottile, perché si sentono legittimati da alcuni principi alla base della rivoluzione.
Da quello che dici non sei proprio in sintonia con quanti sostengono che il neoliberismo è il modello egemone di capitalismo...
Il neoliberismo è stata una parentesi di follia, dove gli Stati Uniti e il suo fedele alleato, l'Inghilterra, hanno cercato o di imporre, con le buone o con le cattive, il loro modello. Ma entrambi hanno fallito, come testimonia la caduta delle borse e la sconfitta statunitense in Iraq. Siamo in una fase turbolente, i cui esisti sono ancora difficili da prevedere. Per il momento, grande è il disordine sotto il cielo, ma non so se la situazione è eccellente.
domenica, gennaio 27, 2008
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