domenica, gennaio 27, 2008
Art & Immaterial Labor symposium
Audio from the recent "Art and Immaterial Labor" event at the Tate Britain:
Franco "Bifo" Berardi: http://download.yousendit.com/EC92CF1437048096
Maruizio Lazzarato: http://download.yousendit.com/A8E1E3981A1C7724
Antonio Negri: http://download.yousendit.com/2BB45E0011C01B90
Il mondo sotto il segno del consenso di Pechino - Intervista a Giovanni Arrighi
All'esistenza del grande casinò dell'economia mondiale Giovanni Arrighi non crede proprio. È uno studioso che ha sempre tenuto alla dimensione storica, «processuale», dei fenomeni sociali e ecopnomici. Nel suo ultimo libro, in uscita per Feltrinelli con il titolo Adam Smith a Pechino (nelle librerie dal 21 febbraio), lo studioso italiano, docente alla John Hopkins University e direttore del Fernand Braudel Centre, propone una analisi del capitalismo storico tanto affascinante, quanto da discutere. La sua tesi è che il centro dell'economia mondiale si è spostato a Pechino, mentre gli Stati Uniti continuano il loro lento, ma inesorabile declino. Una tesi «partigiana», che discute criticamente a distanza con quanti, come il geografo marxista David Harvey o Naomi Klein, considerano fondamentale dare una sistemazione teorica al ciclone neoliberista, considerato da Arrighi solo una parentesi, a differenza di quanti lo hanno considerato come un modello sociale la cui comprensione aiuterebbe a capire le tendenze nello sviluppo economico capitalistico.
L'intervista è avvenuta a Roma, dove Arrighi è arrivato per partecipare a un seminario organizzato dal Centro riforma dello stato, sul quale ha scritto su questo giornale Angela Pascucci, il manifesto del 22 gennaio e che è stata testimone attiva dell'incontro e della discussione nata durante l'incontro.
«Adam Smith a Pechino» inizia con l'affascinante suggestione sul ritorno del baricentro dell'economia mondiale in Cina, una società di mercato non capitalista. Un'immagine che contraddice le statistiche, nonché le analisi provenienti da quella realtà, le quali descrivono un paese che ha decisamente imboccato la strada del capitalismo. A chiusura del libro la società di mercato non capitalistica diviene è più una speranza che non la realtà. A che punto siamo?
Non parlerei di un carattere ciclico dello sviluppo storico. Per prima cosa va ricordato che l'Europa ha conosciuto uno sviluppo capitalistico con caratteristiche uniche, l'inizio del quale coincide con l'avvio della «grande divergenza» tra Oriente e Occidente. La scommessa teorica su cui cimentarsi è capire il perché lo sviluppo capitalistico mostra evidenti limiti e perché l'Asia, e la Cina in particolare, siano diventati il centro del mercato mondiale, proprio come lo erano all'inizio della grande divergenza.
La Cina ha una lunga tradizione di un'economia di mercato dove sono stati presenti elementi capitalistici molto innovativi. Allo stesso tempo l'esistenza di una diaspora cinese ha sempre consentito a quel paese di avere un rapporto stretto il resto dell'Asia e, dall'Ottocento in poi, anche con gli Stati Uniti. Nessuno dei capitalisti cinesi ha però mai puntato, dal quindicesimo secolo in poi, a controllare lo stato, fattore indispensabile per esercitare un'egemonia sulla società, come hanno sostenuto, seppur da prospettive non sempre coincidenti, Karl Marx e Fernand Braudel.
Non esprimo dunque una speranza, bensì prendo in esame la possibilità che in quel paese stia prendendo forma una società di mercato non capitalista. Questo non esclude la possibilità che invece si sviluppi un sistema capitalistico. André Gunder Frank, al quale è dedicato il libro, mi ripeteva, prima che morisse, che la categoria capitalismo andasse abbandonata. Non ero d'accordo, ma la sua provocazione va accolta come un invito a guardare al capitalismo come una realtà che, come ha scritto Fernand Braudel, deve mutare continuamente per sopravvivere.
Il capitalismo è stato infatti caratterizzato da schiavitù e da espansione territoriale. E così abbiamo avuto il colonialismo e forme aggressive di imperialismo. Poi c'è stato il welfare state nei paesi centrali e diverse forme di subordinazione politica e economica di gran parte della popolazione mondiale. Ora stiamo assistendo all'esaurimento della della spinta propulsiva costituita dal militarismo e dall'imperialismo. È dunque evidente la perdita della capacità euristica dei paradigmi fin qui usati per comprendere dove sta andando l'economia mondiale.
Nel Manifesto del partito comunista, Marx e Engels prospettano un'omologazione capitalista del mondo. Questo li conduce a un'enfasi, molto discutibile, sul carattere progressivo del capitale. La loro profezia non è molto lontana dal «mondo piatto» di uno analista liberal come Thomas Friedman. Il mondo attuale è però tutt'altro che piatto, come testimoniano le vicende cinesi. Non so se la Cina sia capitalista o un socialismo di mercato, ma la sua irruzione sulla scena mondiale provoca un mutamento dei rapporti nel sistema interstatale e che il Sud si presenta ora in una posizione di forza rispetto al Nord del mondo. Ultimamente, ho parlato spesso sulla possibilità di una una «nuova Bandung», cioè di un'intesa tra i paesi del Sud del mondo cementata dll'aumentato peso nel mercato mondiale.
L'uso che fai di Adam Smith è affascinante. Mentre la saggistica dominante lo descrive come il teorico del capitalismo, tu lo consideri come uno studioso a favore del mercato, ma non del capitalismo. L'autore della «Ricchezza delle nazioni» si pone però l'obiettivo di elaborare delle categorie utili a comprendere il funzionamento del capitalismo. Noi ci limitiamo a percepire una grande cambiamento, ma abbiamo difficoltà a innovare le categorie utili per capire la trasformazione in atto. Ti propongo una provocazione: l'analisi del tanto bistrattato Lenin sul capitalismo di stato gestito dal partito potrebbe aiutare a comprendere il dinamismo economico nell'Asia orientale o nel Sud-Est asiatico. Non credi?
Possiamo sostenere che ci sono diverse forme attraverso le quali le élite nazionali esercitano il potere di governo nelle società. Una tesi già avanzata proprio da Adam Smith. In Cina, le riforme di Deng Xsiao Ping sono state varate per salvare la rivoluzione popolare dalla rivoluzione culturale e avevano come centro le campagne. Solo in seguito sono arrivati i capitali stranieri. Negli anni Novanta la situazione è sfuggita di mano al gruppo dirigente, che cerca ora di riprendere il controllo. Mi lasciano molto perplessi alcune letture sul carattere totalitario della società cinese, segnata storicamente dalle rivolte contro il potere centrale o locale. Attualmente, il numero di scioperi, manifestazioni, rivolte è impressionante. E sono ribellioni che coinvolgono centinaia di milioni di uomini e donne. Il partito comunista cinese ha dunque il problema di contenere questa tendenza alla rivolta. C'è poi un altro fatto, su cui pochi si soffermano. Nell'ultimo decennio è accaduto ad esempio che la maggior parte dei quadri intermedi si sono dati al business. Così, il vertice del partito e dello stato non hanno quella camera di compensazione utile per esercitare una governance sulla società.
Nel tuo libro scrivi che le crisi delle borse non sono una tragedia....
La crisi delle borse provocano impoverimento. Questo è indubbio. Ma se ragioniamo in termini sistemici è benefica, perché mette termine a quella follia degli anni Ottanta e Novanta caratterizzata dalla corsa spasmodica per conseguire superprofitti. Un ventennio durante il quale è accaduto di tutto. Crescita del credito al consumo, acquisto da parte del Sud del mondo di buoni del tesoro americano che hanno riversato una massa di capitale monetario negli Stati Uniti che ha alimentato la finanziarizzazione dell'economia. Se non c'è stato il crollo dobbiamo ringraziare il Sud del mondo, che ha alimentato la domanda mondiale, prodotto merci a basso costo per i consumatori statunitensi e, in misura minore, europei; la Cina, come il giappone negli anni Ottanta, acquista buoni del tesoro americano attraverso il quale gli Stati Uniti finanziano il loro dominio sul mondo. La crisi delle borse mette fine a questa follia. E segnala anche la fine dell'egemonia americana nell'economia mondiale. Ora la locomotiva è rappresentata dalla Cina e, in misura minore, dall'India che sostengono la domanda. Diverso è il problema di come fronteggiare le conseguenze sociali delle crisi delle borse. Qui mi sembra che le proposte in campo siano a dir poco deprimenti.
Come scrivi a un certo punto tu, citando una nota frase di Marx, per capire il capitalismo occorra svelare l'arcano dei laboratori della produzione....
Un'indicazione metodologica di Marx che i marxisti hanno ben presto rimosso. Doveva essere Mario Tronti con Operai e capitale a tirarla fuori nuovamente. Ho però molto dubbi che l'indicazione di scendere nei laboratori della produzione aiuti a capire nessun arcano. Per capire il funzionamento del capitalismo dobbiamo fare i conti con il proliferare di forme economiche di mercato, ma non necessariamente capitalistiche. E poi anche della compresenza di diversi modelli di capitalismo.
Il «mondo non sarà piatto», ma perché allora non pensare che esiste anche una compresenza di modelli produttivi e che siano tra loro interdipendenti. Silicon Valley, ad esempio, non può esistere senza i «lager» dove si producono microchip con una forza-lavoro ridotta quasi in schiavitù o a una condizione carceraria. In altri termini, l'high-tech o le biotecnologie hanno un doppio legame con la militarizzazione del lavoro presente tanto nel nord che nel sud del mondo....
Bisognerebbe scrivere un altro libro per rispondere a questa domanda. Per il momento, sono interessato a capire il ruolo giocato dal militarismo. Molte delle innovazioni produttive sono venute ad esempio dalla produzione di armi. Inoltre sono polemico con chi fa coincidere il capitalismo con la sua fase industriale.
Silicon Valley non è industrialismo...
Certo. Sono convinto della crisi della grande fordista. Se dobbiamo parlare di un modello produttivo emergente, questo è Wal Mart. Ripeto: se si vuol capire come il capitalismo abbia esercitato la sua egemonia su gran parte della popolazione mondiale bisogna cercare capire il linkage tra militarismo e imperialismo. Che vuol dire espansione e conquista territoriale. Ad esempio il capitalismo si è sviluppato attraverso lo schiavismo...
Ma negli Stati uniti lo schiavismo conviveva con l'industria dell'acciaio che innova profondamente la produzione.....
Si, ma l'elemento fondamentale per capire la diffusione del capitalismo e l'egemonia che esercita nel mondo devi capire il ruolo del militarismo, della potenza militare.
Hai appena detto che esiste una attitudine all'insubordinazione della società cinese. Non si capisce però quale sia il rapporto tra questa conflittualità diffusa e il potere politico. Come si dipana dunque il rapporto tra movimenti e istituzioni?
La rivoluzione ha costituito uno spartiacque nella storia cinese. Da allora l'arbiitrio dello stato può essere contestato. E quando accade le forme della critica vanno dallo sciopero alla rivolta vera e proprio. Durante una visita in Cina ho parlato con un quadro del partito che aveva costituito una joint-venture con un'impresa francese per produrre champagne in Cina. Ad un certo punto, la sezione locale del partito ha proposto l'espropriazione della terra. I contadini hanno sequestrato i dirigenti aziendali, i funzionari statali e quelli del partito, ponendo una condizione: «li rilasciamo solo se firmate un accordo che la terra continueremo a coltivarla noi». Il partito ha subito firmato l'accordo.
Mi piace ricordare questo episodio perché indica chiaramente che il partito può pure decidere questa o quella cosa, ma se gli uomini e le donne oggetto di quella decisione non sono d'accordo non vanno tanto per il sottile, perché si sentono legittimati da alcuni principi alla base della rivoluzione.
Da quello che dici non sei proprio in sintonia con quanti sostengono che il neoliberismo è il modello egemone di capitalismo...
Il neoliberismo è stata una parentesi di follia, dove gli Stati Uniti e il suo fedele alleato, l'Inghilterra, hanno cercato o di imporre, con le buone o con le cattive, il loro modello. Ma entrambi hanno fallito, come testimonia la caduta delle borse e la sconfitta statunitense in Iraq. Siamo in una fase turbolente, i cui esisti sono ancora difficili da prevedere. Per il momento, grande è il disordine sotto il cielo, ma non so se la situazione è eccellente.
mercoledì, gennaio 23, 2008
Jefferson Beyond Jefferson? - di Ben Trott
It might seem strange to read Thomas Jefferson, the principal author of the US Declaration of Independence, as ‘a figure of modern revolutionary thought.' This, however, is precisely what Michael Hardt (co-author of the best-selling Empire with Italian political philosopher Antonio Negri) proposes in his new book. The work contains both an introduction to Jefferson’s thought, as well as a selection of his original writings.
Thomas Jefferson has long been connected to Enlightenment ideas (particularly those of John Locke, who famously argued that human beings possess certain ‘inalienable rights’) as well as the idea of republicanism (broadly speaking: an opposition to oligarchy, dictatorship and aristocracy; and the valuing of notions of civic virtue, liberty and rule by the people). Hardt, however, takes things a step further arguing that the very core of Jefferson’s political thought is a project for a radical form of democracy.
Hardt and Negri claim that their book Empire provides a ‘toolbox’ for theorising and acting inside and against today’s networked form of global command and control. Sharing an approach to theory with French post-structuralist philosopher Gilles Deleuze, ideas are picked up and applied where they prove useful, and set aside again where they are not. It is this toolbox approach that Hardt takes to Jefferson, who he grants was an unsystematic, often contradictory thinker, and at times deeply reactionary and racist (his racism against Native Americans was exceeded only by that towards black slaves). ‘The point,’ Hardt explains, ‘is not to give a balanced picture of Jefferson’s thought as a whole [but] to discover and learn from what remains revolutionary.'
If human nature exists
For Hardt, it is Jefferson’s concept of transition that allows us to see most clearly what he has to offer contemporary revolutionary thinking. And it is here that certain resonances can be found with Lenin (granted: much more his thought than practice).
At the core of Hardt’s argument is that ‘human nature’ has often, mistakenly, been conceived as something essential and static – including within the revolutionary tradition. On the one hand, social democratic forces have approached humanity with scepticism. In their conception, the state must play and maintain a strong role in the transition from capitalism to a new society, reconciling conflicting classes. There is to be a permanent division between the rulers and the ruled. On the other hand, the anarchists have tended to take a naïve approach, regarding humanity as always already capable of self-rule. The only obstacle is class domination and state power, both of which can be overcome in a single stroke: their smashing in the revolutionary event. With transition, whereas in the social democratic conception there is a continuous process of reform without a revolutionary event, for the anarchists it is punctual and absolute, occurring overnight.
Both Lenin and Jefferson are said to take a middle position. Or rather, they reject the false opposition entirely. If ‘human nature’ exists at all, it is neither ‘good’ nor ‘bad.' Rather, it changes and develops over time, determined by broad processes of social development. The Jeffersonian-Leninist approach to social change is sought through both rupture and duration: ‘a historical break that opens a new historical process’. The state, in other words, is ‘withered away’ whilst the multitude gradually trains itself in democratic self-rule. The moment of rupture does not signify an end, but part of a process. It is repeated repeatedly, driven forward by ever more democratic forms overthrowing and replacing one another. It is this logic that enabled Jefferson to support those who rebelled even against the very government he helped create.
Whilst there is certainly much to be said for the toolbox approach to social theory, it comes with its own dangers. For example, by teasing out particular elements of Jefferson’s thought – such as taking the ‘constituent power’ of resistance from below, rather than the ‘constituted’ form of power represented by the state (even a post-revolutionary state), as the primary space from which the desires of the multitude are legitimately articulated – he can indeed by presented as a radical democratic thinker. The methodological problem here is that not treating his thought systematically runs the risk of important limits becoming obscured. For example, Jefferson found it difficult to conceptualise equality despite difference in human relations. Despite, famously, finding slavery morally problematic, Jefferson (himself a slave owner) opposed abolition. Amongst his reasons was concern for the ability of the sovereign government – whose role was to enable self-rule – to maintain order in a climate where he believed serious racial antagonisms would unfold, not least as a result of the historic oppression of African Americans. Whilst he did not necessarily regard one race as superior or inferior to another, he had difficulty conceiving of a peaceful coexistence in conditions of equality (in Hardt’s language: ‘singularity within the common’).
The challenge Hardt sets us, then, is to try to read ‘Jefferson beyond Jefferson.' This means not only asking how his thought can be brought up-to-date and applied to our own globalised world, but also identifying the real obstacles in his thought, guiding the useful elements beyond these limits and trying to deploy them today. At a time when the ‘global movement of movements’ appears to have reached an impasse, perhaps it is precisely such a toolbox rereading of revolutionary thinkers such as Jefferson that a few tentative answers might after all be found.
Radio Maria su Satana all'università (e nel mondo...)
COUNTING TO ZERO: a semi-serious call for ideological transformation and horizontal organizing
The Zeroeth Transnational is a rewind of the past and a fast forward to the future. Since it's numbered nought, zero, cero, null, it wants to travel back in time to before the First International and the split between Marx and Bakunin, and socialism and anarchism. The Zeroeth Transnational aims at federating radicals, activists and their struggles in all regions, like the social democrat and revolutionary syndicalist Second International failed to do, succumbing to nationalism and world war. The Zeroeth Transnational wishes to revive the enthusiasm of the communist Third International, when even anarchosyndicalists joined the leninist cause only to be horribly betrayed and purged by stalinist commissars. The Zeroeth Transnational finds inspiration in the global antifascist (and anticolonial) front of the 30s and 40s, but rejects the auhoritarian communism of the Cominform era.
Let's go fast forward now: the Zeroeth Transnational is a 21st century idea, and as such it is inherently postsocialist and postcommunist. It aims at networking and federating the radical currents of the prague-genoa-rostock movement against neoliberal shock therapy and neoconservative war. Since 2000 the so-called antiglobalization movement has rocked the continents and changed political culture, but has failed to reverse the free-market tide and the increasing securitization of politics. Also, it has faild achieve the right to exist and act socially and politically: its people and spaces are threatened by the state like never before. The rebellious youth that has propelled it constantly risks being criminalized by conservative politicians and tribunals, also because the established left and the reformist Porto Alegre wing of NGOs fails to defend and often in fact condemn the deeds of the heretic left, without whose thrust no progress on agriculture, environment, media, labor, discrimination of minorities and persecution of migrants would have been made. We were strong in Heiligendamm, but we are increasingly weaker in our cities where our heretic communities live and act daily.
Why is it so? Why do we get no credit for the biggest global movement since 1968, in spite of the fact it was the generation of those born in the 70s, 80s and now 90s that created it, just as they created the major cultural and social innovations of our era (urban anarchy, digital networking, media subvertising, free software, queer culture, green hacktivism and on and on). There are several reasons for this, but one is rooted in our lack of an ideology that is distinct from those that preceded us. The crucial question today is not "What Is to Be Done?", but "Who Are We?".
The Zeroeth Transnational is convoked precisely for this reason, to discuss together a new ideological landscape that best synthetizes our ideas and practices, to cultivate a sufficiently flexible but cohesive political identity, that can give stronger purpose and meaning to the manifold mobilizations and campaigns against monetarist, clerical, militarist, ecocidal, racist Occidentalism.
Who are we? We are not the official european left of Die Linke and Rifondazione. We are not the reformist unions like IG Metall and CGT. We are no Trozkyists of the Fourth International and Socialist Worker. We love the zapatistas, but we are no indios. We work for an ecotopia, but we are not Fischer's Greens. We block military bases, but we're no pacifists. We think all cops are bastards, but we're no hooligans. Who are we? We seek autonomy and anarchy in the EU and the world. We're pink, black, green. Pink as queer, black as wildcat, green as chlorophyll. We are pink clowns allied with black blocs doing direct actions with green radicals. We are anarcho-syndicalists. You might say we're anarcho-negrians. We fight for no borders and no detention centers. We are part of PGA and MAYDAY. We were on the barricades in Genoa and Rostock. We are zeroists;)
Zeroism. Zeroeth. Zero, kamikaze of thought. Zero, but no less than zero. Count Zero and cyberpunk. Zero after Ground Zero. Zero at the Zero Hour of Europe. Zero in the double-00s, ahocking pink and islamic green 2000s. Zero as Off. Zero as fuck off. Zero as opposed to the One. Zero, the moss on the crumbling walls of oppressive regimes. Zeroism, the idea emerging from the ruins of the leftist ideologies of the past century.
Zeroism is self-evidently a dadaist provocation, a provisional concept for the ideology we lack and that blunts the appeal of our messages and actions for teens and other people who might otherwise join us. Since we lack strong symbols, an array of recycled icons and emerging images is proposed in a creative cacophony where pirate flags, antifa symbols, cyber fists, zapata stars, vegan carrots, critical bikes, circled As and bolted circles are spurious substitutes of the real thing. For fear of exploring our ideological sources and horizons we adopt a convenient multi-identity that leaves us undefended when strong identities, be they statist, nationalist or religious, move against us.
Zeroism. Zeroeth. Zero, kamikaze of thought. Zero, but no less than zero. Count Zero and cyberpunk. Zero after Ground Zero. Zero at the Zero Hour of Europe. Zero in the double-00s, ahocking pink and islamic green 2000s. Zero as Off. Zero as fuck off. Zero as opposed to the One. Zero, the moss on the crumbling walls of oppressive regimes.
Zeroism, the idea emerging from the ruins of the leftist ideologies of the past century.
Transnationalism has been with us since Seattle and will be with us for the foreseeable future. It's different from the internationalism of the 1st, 2nd, 3rd, 4th... international. Internationalism brought national movements together in a world alliance against capitalism, fascism and imperialism, transnationalism brings cross-border networks in a europe-wide alliance against nation-state and the neoliberal
eurocracy, and in a global alliance vs corporate capitalism and its headquarters in America, Asia, Europe. One obvious reason is that we are in the 21st century, not in the 20th or the 19th century. And with 1999 and 2001 a new century was historically started. A darker and ecocidal phase, more ominous than the late 20th century, but also one where transnational movements decidedly global elites and the transnational corporations that back their power. The movement's transnationalism has been different in political terms from what it was preceded by on the radical left. We are not only confronted with new issues (rebellious megacities, queer liberation, global war, biospheric catastrophe, meginequality and great recession), but with a new way of looking at revolution and socialization of the means of production, new experiments in coordinatin and self-managing social life and social production. Post-structuralism has radically changed
political discourse and modes of self-expression. Male-worker patriarchy has yielded to transgendered polyarchy. Positivist optimism has given way to scientific catastrophism, socialist industrialism to ecological informationalism as dominant epistemologies on the radical left.
Intrigued? Wanna debate a new ideology and a federating symbology?
Then help us thinking about a 0.0 meeting of the Zeroeth Transnational!
QUESTIONS TO FULLY BAKE CAKE
-what kind of ideology is zeroism?
-what is organisational structure of zeroeth transnational?
-what kind of symbolysm is in pink, black & green tricolor?
-what is the difference between zeroism and communism?
-what is the difference between transnational and international?
-what attitude zeroism has to nationalism and patriotism?
-what attitude zeroism has to revolution?
-what attitude zeroism has to private property and privatisation?
-what attitude zeroism has to state and national state?
-what attitude zeroism has to capitalism, market?
-what attitude zeroism has to weapons, war and militarism
-who is zeroist?
martedì, gennaio 22, 2008
Chiude italia.it, buttati milioni di €uri
Certo avrà dato una mano all'affosamento anche il video in roman-inglish girato dal ministro al tempo del lancio... uno guarda, ascolta e quasi non ci crede...
(frnc)
lunedì, gennaio 21, 2008
Faith Fighter - da Molleindustria
"Al giorno d'oggi essere laici non è più politicamente corretto.
Occorre imbracciare le raffinate armi della fede nella ricerca quotidiana della Verità."
Quale fede spetta a voi deciderlo con Faith Fighter, un picchiaduro per questi tempi oscuri."
"Faith Fighter è per tutti voi dubbiosi."
sabato, gennaio 19, 2008
StorieMigranti è on line
E’ il progetto di costruire una storia delle migrazioni attraverso i racconti dei migranti. Una storia del presente, nella consapevolezza che molti degli elementi che costituiscono l’universo delle attuali migrazioni rimangono invisibili, non-detti, sfuggenti rispetto ai discorsi ufficiali, quasi sempre complici delle politiche di controllo delle migrazioni.
Affinché quest’altra storia possa dirsi e affermarsi abbiamo bisogno della collaborazione di tutti: da parte dei migranti innanzitutto, con la scrittura delle loro storie individuali o collettive, e da parte dei ricercatori e degli attivisti con le loro interviste ai migranti. Su www.storiemigranti.org troverete il nostro progetto; una presentazione di chi siamo; alcune sezioni (interviste e racconti; politiche migratorie e dispositivi di controllo: cronologia, interviste; e una sezione dedicata ai video e alle immagini, ancora allo stato nascente). E troverete anche il format da seguire per le collaborazioni.
Per ora, la lingua più presente è l’italiano, ma aspettiamo collaborazioni anche in altre lingue e collaboratori che abbiano voglia di impegnarsi con noi nel lavoro della traduzione.
Per mandare i vostri testi, i vostri racconti e le vostre interviste, per informazioni e per proporsi come collaboratori o traduttori potete scrivere a: redazione@storiemigranti.org
La redazione di www.storiemigranti.org
mercoledì, gennaio 16, 2008
Termovalorizziamoci - Wu Ming
Immagine tratta da ecceterra.org
"Il vocabolario B consisteva di parole create deliberatamente per scopi politici, vale a dire parole che non solo avevano sempre un significato politico, ma erano precisamente intese a imporre un atteggiamento mentale, in una direzione desiderata, nella persona che ne faceva uso […] Le parole B erano sempre parole composte. Consistevano in due o più parole, ovvero porzioni di parole, combinate assieme in una forma che fosse di semplice pronuncia. L’amalgama che ne risultava era sempre un sostantivo+verbo, e si coniugava secondo le regole ordinarie […] Nessuna parola del vocabolario B era ideologicamente neutra. Gran parte erano eufemismi. Parole, ad esempio, come svagocampo (campo per i lavori forzati) o Minipax (Ministero della Pace, e cioè Ministero della Guerra) significavano quasi puntualmente l’opposto di quel che sembravano in un primo momento."
"I principi della neolingua", Appendice a 1984 di George Orwell
Gli eufemismi ammazzano la gente, ammazzano tua madre, annientano tuo figlio, divorano adulti e bambini. Gli eufemismi raschiano l'interno di esofago e polmoni. Gli eufemismi sono cancro, buttano metastasi come ragnatele, catturano le parole, strangolano l'intelligenza finché non ti fanno morire. Letteralmente, morire.
Endlösung, "soluzione finale", fu il capolavoro tra gli eufemismi. Col tempo ha perso l'intonaco di pudicizia e ipocrisia, e si è fuso alla realtà abietta che intendeva mascherare. Gli eufemismi funzionano sul breve-medio periodo, poi cessano di essere tali. A distanza di pochi anni, nessuno usa più l'espressione "guerra umanitaria", nessuno vanta più "bombardamenti chirurgici" a colpi di "bombe intelligenti", anche "danni collaterali" è caduto in disuso. Quelle espressioni hanno ormai l'accezione negativa che erano nate per evitare.
"Termovalorizzatore" al posto di "inceneritore". Coniando il nuovo termine, si è spostato l'accento da quello che certamente rimane (residuo tossico: 1/5 di scorie, senza contare i fumi prodotti dalla combustione) a quello che presuntamente si produce (un valore, energia, vantaggio economico). Chi dice "No al termovalorizzatore!" ha già perso, perché ha accettato l'eufemismo, il frame. Discute sul terreno dell'avversario, e in apparenza si oppone a un valore, a qualcosa di "buono".
"I termovalorizzatori sono la soluzione": lo ripetono, lo cantano in coro, martellano, rintronano, tutti d'accordo erigono la grande muraglia del conformismo sul tema dei rifiuti. Tutte concordi, le voci ufficiali. Chissà perché, al dunque, le popolazioni non ascoltano, non obbediscono. Inceneritori. Processo fondato su un principio obsoleto, di quando c'erano i miniassegni e Bill Gates era povero. Tecnologia vecchia come i neuroni di questa nazione, vecchia ma col muso impiastricciato di cerone, come i grugni della casta e dell'orribile classe intellettuale italiana. Tecnologia vecchia fa buon brodo. E allergie, malattie respiratorie, tumori. Costi sociali. Spese sanitarie che schizzano alle stelle. Macchina energivora, ruota del karma di circoli viziosi, che deve funzionare sempre, senza sosta, ed esistendo incentiva a produrre rifiuti. La spazzatura diviene il mezzo, l'inceneritore il fine.
Esistono alternative. Concrete. Praticabili. Praticate (altrove). Pochi ne parlano. Nemmeno queste, tuttavia, sono la endlösung del problema-pattume. La "soluzione finale" sarebbe, semplicemente, produrre meno rifiuti. Produrre meno stronzate usa-e-getta. Produrre meno, usare di più. Lo abbiamo già scritto: non c'è un modo "giusto" di produrre oggetti inutili.
Il problema siamo noi, non i rifiuti. Il problema siamo noi, non la camorra. O meglio: la camorra siamo noi. I discorsi sulle ecomafie sono veri e necessari, ma possono trasformarsi in diversivo. Tutti noi siamo "ecomafiosi", chi più chi meno. E' il nostro stile di vita a essere "ecomafioso", è il consumo fine a se stesso ad essere ecomafiogeno. Non c'è camorra che possa smaltire o sversare illegalmente rifiuti che non vengono prodotti, ma noi li produciamo, li produciamo eccome, e sempre di più. In Italia, +20% di rifiuti urbani per abitante dal 2003 al 2005. E così ci ritroviamo con più packaging e pacchetti, ci ritroviamo con più sacchetti, con più imballaggio, più scatolame e barattolame e bidoname e fustiname, più flaconeria, sifoneria, tubetteria, più gadget insensati, più telefonini, videofonini, tivù-fonini da cambiare ogni sei mesi, più instant-libri di comici che invecchiano dopo un mese e non facevano ridere nemmeno da attuali, più kleenex tovagliolini salviettine fazzolettini (usa il fazzoletto di cotone, porcozzìo!), più buchette della posta intasate da decine di dépliants giganteschi di ipermercati, più bottiglie e bottiglioni d'acqua minerale anche dove l'acquedotto fa i miracoli e i rubinetti colano oro, "Sì, ma quella che compro è iposodica!", già, e mezz'ora dopo bevi il ghètoreid, o l'ènergheid, o il pàuereid, perché sei un mèntecheit!
Tutto torna, quel che semini raccogli. Consuma, sperpera, spreca, logora, getta via. La tua merda polimerica brucerà (o meglio: sarà "termovalorizzata"), i tuoi cari (o i cari di qualcuno) inaleranno, metastasi, metastasi, metastasi, tumore. Termovalorizziamoci, giochiamo con le parole, questa è la strada, la via del futuro che abbiamo alle spalle. Oppure c'è un altro modo: termovalorizzare chi ci governa, ci ipnotizza, ci sfrutta, ci compra e ci rivende, ci consuma.
Intollerante è chi non accetta il dissenso!
Insomma, che dialogo possiamo immaginarci fra la comunità dei fisici e il papa nella cerimonia che dovrebbe celebrare la supposta autonomia dell'Università da ogni potere, sia esso politico, economico o religioso?
Che non fosse questo un tentativo di legittimazione reciproca fra due poteri - forse gli ultimi rimasti - di stampo feudale? Il tentativo di scambiare l'autonomia del sapere universitario con la legittimazione delle pretese cattoliche dentro le università, per avere in cambio l'incoronazione di alcuni baroni nelle cattedrali da parte del pontefice?
Quello che segue è il comunicato della Rete per l'autoformazione di Roma che risponde alle accuse piovute sui contestatori della visita del papa. (frnc)
Una grande vittoria, una pagina importante della vita politica del paese. Non tanto e non solo perché il papa ha deciso di rinunciare all'inaugurazione dell'anno accademico de La Sapienza previsto per giovedì 17 gennaio, ma anche e soprattutto perché una verità è stata confermata. La decisione del papa, infatti, dimostra in modo evidente che le istituzioni ecclesiastiche di Benedetto XVI non accettano dissenso, né differenza, né libertà di parola.
L'occupazione del rettorato che abbiamo fatto quest'oggi è stata un grande successo perché ha ottenuto un risultato che qualifica la democrazia e ne garantisce il funzionamento: la libertà di espressione, la libertà di contestare opinioni, posizioni e poteri che vengono ritenuti lesivi dei diritti di tutt*. Non si è trattato né di violenza, né di una cacciata, ma di un esercizio di libertà! L'attacco ai diritti e alle libertà da parte di papa Ratzinger non è cosa nuova e non è invenzione intollerante di un gruppuscolo di laici: ogni giorno gli attacchi alla 194, alla decisione delle donne; ogni giorno l'attacco alle libere scelte sessuali; ogni giorno la crociata contro la laicità delle istituzioni pubbliche. Per non parlare della richiesta pressante di destinare le risorse pubbliche alle strutture formative e di cura cattoliche (lo schiaffeggiamento per Veltroni e Marrazzo della scorsa settimana).
Questo papa è persona di grande intelligenza, dotato di un pensiero forte, indisponibile alle mediazioni: oggi lo ha dimostrato in modo chiaro (a noi e a tutti quelli che per il loro vuoto politico attendevano una benedizione)! Dicendo di no all'inaugurazione Ratzinger non lascia dubbi, né ambiguità: non accetta la possibilità di critica e di dissenso. Non è il pericolo sicurezza che lo ha spinto a rinunciare, ma il fatto che docenti e studenti ritenevano la sua visita inopportuna e hanno lottato in questi giorni per poter pronunciare queste parole. La richiesta di non militarizzare l'università, la richiesta di poter contestare la sua presenza all'interno della città universitaria evidentemente lo ha indispettito. La disarmonia che tiene lontano il papa per noi ha un altro nome, si chiama democrazia.
L'università non è una famiglia, ma uno spazio pubblico, dove la ragione si esercita con il confronto e le divergenze, anche aspre. Chi sono dunque gli intolleranti? È questa la domanda che rivolgiamo alla stampa e alla politica. È intollerante chi chiede di poter manifestare all'interno della propria università o chi voleva una vetrina senza incrinature e senza rumori dissonanti? Un elogio va al coraggio dei tanti docenti che con fermezza e passione hanno detto quanto tutta la comunità scientifica italiana avrebbe dovuto dire a gran voce: il pensiero di Ratzinger non ha a cuore la scienza e l'autonomia della ricerca. Questa affermazione che da sola giustifica tanto coraggio sembra suono impercettibile per i tanti che nel mondo politico attaccano docenti e studenti, definendoli mostri laici e integralisti.
Ci vuole davvero scarsa dignità a non prendere sul serio le parole di Ratzinger, perché solo chi non le prende sul serio può ritenerle innocue per la scienza, per i diritti, per la libertà, per i desideri. Invitiamo, infine, tutt*, studenti e precari, ricercatori e docenti, sindacati di base e centri sociali, associazioni della società civile, a partecipare alla conferenza stampa di domani, sotto la statua della Minerva finalmente libera, e alla manifestazione che si svolgerà sotto la scalinata di Lettere giovedì mattina a partire dalle ore nove. Una festa e una manifestazione nello stesso tempo, tenendo in conto che per gli studenti e i precari le politiche della sinistra di Veltroni e di Mussi in materia di università e di ricerca sono inaccettabili, oltre che lesive.
W la Minerva libera!
giovedì, gennaio 10, 2008
La Minerva e l'Inquisitore
“Tradizione e innovazione”: ci sono slogan che riescono a catturare la realtà, o il suo triste vuoto. Questo è tutto ciò che possiamo riconoscere allo slogan scelto dalla “Sapienza” per autocelebrare un simulacro, cioè le macerie del “tempio della conoscenza”. Così, il 17 gennaio l’università di Roma, alle prese con un’ormai permanente crisi di legittimità, inaugurerà l’anno accademico proponendo l’alleanza tra ciò che i libri di storia hanno frettolosamente ritenuto i due poli incompatibili della modernità: religione e illuminismo, fede e ragione. O almeno tra i loro eredi sbiaditi.
Chi meglio di Veltroni può interpretare lo slogan: tradizione, “ma anche” innovazione? Chi più di Mussi, ministro senza qualità, ha bisogno della forza della reazione per poter mettere piede in un’università che ne ha subito l’assenza e la debolezza? Chi se non Benedetto XVI, al secolo papa Ratzinger, rappresenta il nocciolo duro del fondamentalismo cattolico, crociato fuori tempo massimo, propagandista dello scontro di civiltà? I protagonisti di questa vicenda non sono casuali, così come non è casuale che il governo universitario abbia scelto un inconsueto giorno di metà gennaio, in sordina e in un contesto ancora spopolato, per tentare questa disperata operazione.
Diciamolo senza mezzi termini: Ratzinger, imbarazzante stampella del partito democratico e del governo di centro-sinistra, è un nemico dell’università. Non ne fa mistero, del resto, quando manifesta la propria nostalgia per la Santa Inquisizione, o semmai ne è critico per l’eccessiva moderazione nel perseguitare, appunto, l’innovazione; quando si schiera, in tema di ricerca scientifica, dalla parte della morte contro la vita; quando invoca, nelle famigerate esternazioni pontificie su donne e famiglia, l’oscurantismo e la repressione dei corpi e della libertà di scelta femminile, il disciplinamento e il controllo degli stili di vita che dell’università sono protagonisti e produttori. Allora, noi non possiamo che essere nemici della reazione, e di ciò con cui si allea; dell’articolazione di vuota retorica e politiche securitarie, di controllo, rendita parassitaria e aperta reazione che il 17 gennaio, senza più veli, qualificherà la governance ai tempi del veltronismo e del centro-sinistra.
Noi non abbiamo nessuna nostalgia per il “tempio della conoscenza”: per questo la mattina del 17 gennaio ci troveremo intorno alla Minerva, protettrice della conoscenza e dea della guerra, per difendere la potenza dei saperi di parte e del conflitto. Non verseremo nessuna lacrima sulle macerie dell’università dei baroni e della riforma, decadente istituzione feudale al pari del papa e del ministro che sono stati scelti come alleati per rappresentarla. Noi il 17 gennaio difenderemo la libera repubblica dell’autoformazione e della circolazione dei saperi, delle lotte e dei movimenti, della cooperazione e della libertà delle forme di vita. Invitiamo a partecipare studenti, precari e docenti che non si inchineranno a baciare il pontificio anello. Rivendichiamo una presa di parola forte e collettiva da parte di tutt* per garantire l’agibilità delle mobilitazioni, affinché tradizione e innovazione non siano accompagnati dal loro fedele e indispensabile gendarme, la militarizzazione. Gli alberi della libertà li piantiamo quotidianamente, squarciando la pesante cappa di normalizzazione – questo è il vero slogan della “Sapienza” – che vorrebbero inaugurare il 17 gennaio. E che cento fiori di gioia, esodo e resistenza sboccino!
Per discutere di tutto questo invitiamo tutt*, studenti e precari dell’università, ricercatori e docenti, centri sociali, associazioni e sindacati, donne e uomini liberi, con a cuore il desiderio e l’intelligenza, la ragione e la voglia di sperimentare, ad un momento pubblico di dibattito e di confronto, martedì 15 gennaio, alle ore 16 presso la facoltà di Scienze politiche.
O dalla parte del papa, o dalla parte dei saperi!
O dalla parte della tradizione, o dalla parte della libertà!
Liberiamo la Minerva, difendiamo la libera repubblica dell’autoformazione!
La fuga in avanti: precisazioni e chiarimenti dell'autore
La fuga in avanti è uscito nelle librerie da qualche settimana e ci sono alcune osservazioni, provocazioni, domande, che appaiono in modo ricorrente nelle presentazioni a cui partecipo e nelle recensioni che ho potuto sin qui leggere, in particolare, la segnalazione di Wu Ming 1 su Nandropausa. Quindi mi sono convinto della necessità di approfondire alcune questioni intorno al mio libro.
Lungo le pagine de La fuga in avanti descrivo a più riprese con grande enfasi e nostalgia il clima in cui ho trascorso gli anni della mia infanzia e adolescenza, suppergiù dal 1975 al 1985. Questa descrizione può sollevare qualche fastidio o perplessità tra chi ha vissuto in prima fila quella stagione politica e ne ha pagato duramente le conseguenze. Ma la mia lettura è volutamente provocatoria. E’ il tentativo di porre in relazione tra loro i profili umani e sociali di chi decise di andare allo scontro con lo Stato, rispetto ai profili umani e sociali con cui siamo abituati a convivere oggi. E’ il tentativo di dimostrare come, in ultimo, quei nomi e cognomi siano gli stessi di allora; che non si tratta di biografie personali, ma di vicende collettive, di opportunità politiche e rivoluzionarie, di questioni molto materiali. E’ il tentativo di intervenire sulla vulgata comune, secondo la quale gli anni ’70 sono stati un medioevo contemporaneo, plumbeo e segnato dall’ultraideologia.
I miei ricordi mi descrivono una realtà diversa. Nel mio quartiere, il Giambellino, negli anni ’70, i proletari erano dalla parte delle Brigate Rosse. Tante sono le testimonianze a riguardo. Tutti sapevano chi fossero i clandestini; capitava che gli stessi clandestini te li ritrovavi a cenare o a bere nelle trattorie e nei luoghi di ritrovo del Giambellino, alla Bersagliera o alla Cooperativa, senza che nessuno avesse qualcosa da ridire (e non si trattava di paura). In Piazza Tirana le BR tennero alcuni comizi pubblici senza che la polizia intervenisse. Sui tetti delle case popolari spesso comparivano bandiere rosse con la stella a cinque punte. Gli stessi militanti del PCI sapevano chi si nascondeva dietro le Brigate Rosse, ma nella peggiore delle ipotesi ci convivevano. Mio padre era così legato alla sua storia nel partito che, negli ultimi anni della sua vita, si iscrisse a Rifondazione Comunista e festeggiò la prima vittoria di Prodi su Berlusconi!
Chi scrive non intende certo separare la storia delle Brigate Rosse avventuriere e romantiche, rispetto alla storia delle Brigate Rosse sanguinarie e militariste. Esiste una sola storia della lotta armata in Italia e mio padre ne fece parte appieno dal 1970 a quando uscì di prigione nel 1986. Rimase impermeabile a ogni tentativo di alleggerire la propria condizione di prigioniero, senza cercare le scorciatoie della dissociazione o l’infamia del pentitismo. Le sue critiche e le sue perplessità sull’Organizzazione le riservò sempre ai compagni con cui condivideva la propria irriducibile avversione al sistema borghese.
Ciò che mosse quei personaggi del Giambellino e i tanti che li seguirono, era una spinta molto materiale che proveniva da lontano e non rappresentava il frutto di una elaborazione da salotto universitario. In loro si riassumevano tante lotte: la Resistenza al nazifascismo, la fame patita durante e dopo la guerra, le lotte operaie nelle fabbriche degli anni ’50, la rottura con il PCI e il sostegno alla Cina, al Vietnam, a Cuba, alle lotte anticolonialiste africane. Infine, il 1968 e la dialettica difficile con gli studenti, “la futura classe dirigente del Paese che intendeva guidare i cortei”.
Fu questa loro coerenza pratica, prima ancora che intellettuale/ideologica, a rendere particolari quei compagni ed esaltante la mia infanzia. Sapevi chi avevi di fronte. Sapevi che quei personaggi li trovavi a giocare a dadi con la malavita alla stazione ferroviaria di San Cristoforo in piazza Tirana, ma quando c’era bisogno di altro su di loro potevi contare senza dubbi.
Queste sensazioni ho cercato di trasferirle nelle pagine del libro, tentando di evitare ogni reticenza. La fuga in avanti è un libro partigiano che intende porre nel solco delle lotte rivoluzionarie del secolo scorso l’esperienza della lotta armata in Italia. Il mio libro non ha alcun intento pacificatorio. E’ il tentativo di capire gli errori e le conquiste di quell’esperienza a uso e consumo di chi continua a credere che la società del profitto sia un abominio contro cui bisogna combattere.
MAYDAY MAYDAY - LA LIBERA PARADE
Immancabilmente, tuttavia, una decina di attivisti/e sono stati condannati/e per danneggiamento, con la solita enfasi giudiziaria che trasforma in distruzione ciò che non è altro che la naturale tensione (innanzitutto ideale) che accompagna ogni movimento d'opposizione alla precarizzazione - che per noi è un vero e proprio flagello nazionale e non solo. Tutto ciò vale in modo particolare per la manifestazione che rappresenta in modo più autentico il primo maggio italiano, la Mayday Parade, partecipata da decine di migliaia di precari/e, vissuta in numerose città italiane ed europee.
Viste le premesse - lo ammettiamo - siamo rimasti allibiti nell'ascoltare lo stesso pm chiedere assoluzioni e derubricazioni, riconoscendo nella Mayday Parade e nelle pratiche delle azioni di "Adotta una catena" – che avevano colpito le catene commerciali rimaste aperte grazie al lavoro precario anche nel giorno della festa dei lavoratori - la "normale espressione di dissenso politico e di sensibilizzazione sul tema del lavoro" e nel riconoscere ad alcuni testimoni della difesa "un'ammirabile lucidità" nella spiegazione dei fatti. Nell'era delle sentenze oscene che abbiamo ascoltato in altri processi, ciò è un atto degno di nota.
Tuttavia la precarizzazione rimane, e con lei rimarrà quella "naturale tensione" insita nei gesti e nelle idee di chi a essa si oppone. Senza voler scadere nell'enfasi retorica è evidente che sono la mancanza di diritti, il crollo del potere d'acquisto delle retribuzioni, le condizioni precarie nel lavoro, le privatizzazioni nella sanità e nella scuola (per non parlare del welfare state pressoché inesistente) a danneggiare e distruggere la vita di tutti. Tutto sommato, lo sceriffo per niente extra e poco terrestre De Corato ha poco da gioire: la sua Milano tutta facciate, lucine e vetrine è un città decadente e precarissima. Rivendicare e lottare per riaffermare diritti nel lavoro e oltre il lavoro per tutti/e, continuità di reddito per i precari/e, nativi o migranti, mobilità gratuita, accesso ai saperi e alle loro tecnologie, una scuola e una sanità pubbliche e di qualità, è cosa buona e giusta.
E' come dire Mayday !
mercoledì, gennaio 09, 2008
Sparateci così fate prima - di Bifo
Quello che segue è un intervento di Bifo postato su alcune mailing-list che mi trova completamente d'accordo, che rappresenta anche il mio stato d'animo sempre più inquieto. (frnc)
Che il governo di centrosinistra nato dalle elezioni del 2006 fosse finito nella poubelle de l'histoire molti lo sospettavano da tempo. Ma gli eventi napoletani degli ultimi giorni stanno trasformando la metafora in una descrizione realistica. Sprofondano nell'immondizia. La decisione di risolvere il problema della devastazione ambientale con l'invio di un uomo come De Gennaro fa impressione. Vien da pensare che il governo Prodi sia nel panico e non abbia più la capacità di riflettere, di rendersi conto di quello che fa. De Gennaro sarà certamente una degnissima persona, ma qual è la sua professione, in cosa si è distinto nella vita? Questa è la sua professione: manganellare la gente. Cosa ti viene in mente quando dici De Gennaro?
A me viene in mente la mattanza di Genova. E' questo il messaggio che il governo Prodi vuole mandare alle popolazioni meridionali? Mandare De Gennaro a Pianura è una scelta idiota o una scelta consapevolmente criminale. In questo modo si consegna alla camorra la possibilità di moltiplicare la sua base sociale, di trasformarsi in esercito popolare. "Sparateci così fate prima" ho visto scritto su un lenzuolo esposto su un balcone di Pianura. Il governo di centrosinistra ha deciso di mostrare la faccia torva oggi a Pianura domani a Vicenza dopodomani in Val di Susa? E' questo quello che sanno fare? La scelta di spedire De Gennaro a Pianura trasforma il governo dell'impotenza in un governo di polizia.
Il ministro Damiano dichiara che gli unici aumenti salariali che gli operai possono aspettarsi sono quelli che derivano dalla detassazione del cottimo e dello straordinario. Piangono lacrime finte per sei operai cremati nei forni della ThyssenKrupp, ma sono loro, i ministri e i deputati del centrosinistra, che hanno votato una legge assassina che premia lo straordinario, che obbliga allo straordinario, che restaura il cottimo come forma generalizzata di rapporto tra capitale e lavoro.
Oggi mandano l'esercito a Pianura per sottomettere le popolazioni costrette a vivere nella spazzatura, domani lo manderanno a Vicenza per sottomettere le popolazioni destinate a vivere in una caserma americana.
E' ancora possibile chiedervi di ragionare, uomini e donne del centrosinistra, deputati di Rifondazione comunista, del partito verde e così via?
E' ancora possibile chiedervi di ripensarci finché siete in tempo?
E' possibile chiedervi di andarvene, prima di diventare degli assassini?
martedì, gennaio 08, 2008
Tutto si spiega: è un Mistero napoletano
tratto da il manifesto - 06 gennaio 2008
Ho ricevuto nei mesi scorsi diverse sollecitazioni a intervenire sulla questione dei rifiuti a Napoli e in Campania. Ho sistematicamente declinato l'invito per il fatto di non riuscire a capire cosa succedesse esattamente. Come mai le autorità locali (responsabili dei governi regionale, provinciale e comunale) non sono mai stati seriamente contestati (fino a ieri) dalla popolazione per la loro incapacità o mancanza di volontà di affrontare il problema? I risultati elettorali delle ultime elezioni hanno premiato alla grande Antonio Bassolino e Rosa Iervolino per loro indubbi meriti, ma nonostante la assoluta inanizione rispetto alla questione dei rifiuti. E ancora non trovo una riposta. O, forse, la risposta sta proprio nella confusione, nel fatto che i diretti interessati concorrono a rendere la situazione poco chiara.
Non parliamo poi degli opinionisti: Dio ce ne scampi. Chi rivela al Tg1 che le responsabilità vanno individuate nelle regioni del Nord che si accordano con la camorra per portare a Napoli e in Campania i rifiuti tossici. Chi trova la soluzione affidando la gestione di Napoli a governanti stranieri (come un giovane autore intervistato con larghezza da Repubblica). Chi se la prende con la tolleranza dei napoletani. Chi - tanto per cambiare - richiede l'intervento dell'esercito.
Sulla prima spiegazione - nota da una decina di anni grazie al lavoro dei magistrati - c'è da obiettare che ciò non riguarda le cento mila tonnellate di rifiuti da smaltire ora. Il fatto stato è terribile e bisogna ancora indagare sul fenomeno e soprattutto sui suoi potenziali effetti. Ma c'entra poco o niente con le montagne di rifiuti, certo schifose, ma meno pericolose e certamente evidenti e alla luce del sole. Segue il solito gusto napoletano per l'autodenigrazione collettiva che non porta da alcuna parte. C'è poi sempre la trovata dell'esercito, sistematicamente ricorrente quando ci sono guai a Napoli, invocata questa volta non a caso anche dalla Lega.
Il grande protagonista nelle spiegazioni è la Camorra. Tutti sanno e dicono che è colpa della camorra: dalla casalinga di Voghera a Bassolino. Questa è la spiegazione vincente. Peccato che non sia una spiegazione. La camorra - ovviamente - c'è e fa affari. E c'era anche quando insieme ai politici tangentisti lucrava sulle discariche (tanto a chilo al politico di turno). Ma il riferimento alla camorra finisce per essere generico e mitico. Sarebbe utile capire cosa fa esattamente e quali sono gli intrecci e con quali politici opera e come. Se ne invoca invece il ruolo per spiegare sia la gestione dei rifiuti che le rivolte. Nel vederla dappertutto si finisce per non vederla dov'è.
Tra l'altro la spiegazione pan-camorrista fa assolutamente comodo ai politici perché così non devono spiegare la loro incapacità o mancanza di volontà. Il governatore Bassolino ha dichiarato di voler restare al suo posto per portare avanti l'impegno nella lotta alla camorra. Viene da chiedersi cosa ha fatto da quando è governatore in materia di rapporto camorra/rifiuti. Sarebbe stato utile per la Regione se avesse condotto anche la lotta contro il ruolo dell'Impregilo (che tanta parte ha nella mancata volontà o possibilità di affrontare la questione dei rifiuti in Campania). E mi chiedo perché non se ne parli quasi mai. Mistero napoletano.
Un altro pezzo di mistero sta nei messaggi che inviano i politici. Le vuote dichiarazioni del ministro Nicolais che, dopo aver cenato con il Presidente della Repubblica a Capri, si dichiara «molto dispiaciuto per la situazione» mi hanno lasciato più stupefatto che indignato. Ma poi ho capito che sono le meno gravi. Ben più preoccupanti mi sembrano le allusioni e i messaggi in codice che si inviano i politici locali (il presidente di questa o quella provincia che si lamenta «per non aver avuto risposta alla sua offerta» per la soluzione del problema) Rosa Iervolino, sindaco di Napoli, poi se la prende con chi ha scelto il sito di Pianura e appoggia i rivoltosi. Certo, si tratta di uno dei posti più belli del paese (il parco degli Astroni) per altro già distrutto dalla speculazione edilizia (con o senza camorra). Anche lei ci poteva pensare prima. Mistero.
Quando poi la televisione - inquadrando Villa Rosbery (la residenza napoletana del Presidente della Repubblica a Posillipo) - fa sapere alla nazione che il Presidente ha preferito stare a Capri a per marcare la distanza da Napoli, ho pensato che si è raggiunto il colmo. E ancora non c'è stata alcuna smentita da parte del Quirinale.
Questa è Napoli. O forse no: forse c'è anche dell'altro. Ma in questo momento il peggio domina. Domina nella realtà e domina anche nell'immaginario. Il successo delle descrizioni orribili di Napoli (piene di creazioni anche immaginifiche, come quelle dei container pieni dei cadaveri sfusi di cinesi) hanno un successo strepitoso. Le specifiche responsabilità vengono annegate nel mare delle spiegazioni antropologiche. E tutto va avanti come prima. Ma questa è un'altra storia, anche se forse vale la pena di ritornarci sopra.
Io resto con le mie domande senza risposta in questo mistero napoletano. Continuo a chiedermi perché non si è dato un calcio a Romiti e all'Impregilo. Non conosco benissimo i fatti. Ma se ho capito, la storia nasce con un presidente fascista della Regione che fa un accordo capestro e poco credibile con Romiti (Impregilo) - ne accenna l'intervista di Ganapini sul Manifesto di Venerdì. Poi arriva il grande governatore democratico e ci resta intrappolato. Perché non si è denunciato l'accordo, mobilitando la gente, perché non si è fatto chiarezza subito sulla questione di Acerra? Mistero. Altro mistero è la mancata scelta dei comuni di procedere effettivamente alla raccolta differenziata. Andava fatta e si poteva fare comunque e in ogni caso.
E' stata la camorra a impedire a Rosa Iervolino, sindaco di Napoli, di far funzionare effettivamente la raccolta differenziata a Napoli? O c'è dell'altro? Mistero napoletano anche qui. E perché non è stata fatta - che so - a San Giorgio a Cremano che ha la palma della invasione della spazzatura? Anche qui è stata la Camorra a ordinarlo? Non lo escludo, ma sarei curioso di sapere come ha fatto, con chi si è accordata. Per ora è un mistero.
C'è invece un fatto per nulla misterioso che riguarda una errore politico gravissimo, che si aggiunge a quello della mancata pratica della raccolta differenziata, esso riguarda l'assenza di partecipazione democratica. Fin dai tempi del regalo a Romiti si poteva stabilire (oltre che forme diverse di uso) un rapporto diverso con la popolazione contrattando qualità, dimensioni e ruolo dell'impianto. E ad Acerra, come in ogni altro luogo, distruzione o deposito della spazzatura (per l'emergenza ma soprattutto per la prospettiva di stoccaggio e distruzione di spazzatura meno pericolosa) andavano, e vanno, offerte contropartite per la popolazione, da negoziare e discutere con essa.
Speriamo che tutto il pandemonio di questi giorni porti almeno a questo esito.
lunedì, gennaio 07, 2008
Wu Ming 1 su la Fuga in avanti
E' difficile recensire La fuga in avanti di Manolo Morlacchi. Come una torta appena sfornata, questo libro andrebbe lasciato a raffreddare sul davanzale. Chi intende parlarne in modo equanime deve avere la volontà e la forza di riempire certi buchi, ed è fatica improba mantenere una distanza senza cedere alla tentazione della ripulsa. La priorità è duplice: criticare il libro per quello che è, non è o sarebbe potuto essere, senza mancare di rispetto alla carne e al sangue che lo formano.
Insomma, cos'è questo libro? E' una testimonianza di amore filiale e nipotile. Ed è un contenitore di microstorie della Milano operaia e antifascista, dagli albori del socialismo a poco fa, passando per il ventennio, la ricostruzione, il boom e la bufera degli anni Settanta. Appunto, i Settanta. La fuga in avanti è qualcosa di "sbagliato", che si colloca sul "lato cattivo": il Lessico famigliare di un figlio e nipote di brigatisti. Un figlio che ha amato i propri genitori e, dopo la loro morte, li ringrazia per lo "splendido clima" (!) in cui ha trascorso l'infanzia. Un figlio che non descrive "demoni" alla Stavrogin, bensì mamma, papà e zii, esseri umani coi loro affetti e sorrisi, le loro passioni, le forze e le debolezze. E' proprio questo a rendere il libro... oltraggioso, inaffogabile nel pour parler di un'epoca dominata da falsi pacificatori.
Manolo Morlacchi era bambino quando suo padre Pierino entrò nel circuito delle carceri speciali. Pierino veniva da una delle più note famiglie comuniste del quartiere Giambellino, e suo figlio ne approfitta per narrare la saga, le scelte, le avventure e disavventure di tre generazioni di militanti, sullo sfondo di una Milano proletaria che non esiste (quasi) più. Il libro di un familiare di chi scelse la lotta armata è merce rara, o meglio: è raro perché non è abbastanza merce. Sono altri i punti di vista vendibili e acquistabili, abbonda la pubblicistica di/su ex-terroristi spettacolarizzati, che si rifanno vivi a parlare ex cathedra, magari dopo un risciacquo nel "sociale" targato CL. Sono narrazioni fatte su misura per la stagione del rimorso senza ripensamento, parenti strette di quei saggi su sangue dei vinti e cuori neri in cui l'antifascismo militante è ridotto a nihilismo e Grand Guignol.
La fuga in avanti, con tutti i suoi limiti e dislivelli, ha il pregio di non correre incontro ad alcuna moda. Di più: Morlacchi scrive il libro più inattuale, più in controtendenza che si possa immaginare. Ci vuole coraggio, anzi, incoscienza, a far uscire un'opera del genere. Eppure, persino chi all'epoca combattè la lotta armata con ogni mezzo (anche malsano, e sarebbe ora di riflettere sul lascito della legislazione d'emergenza) potrebbe trarre beneficio da alcune pagine di questo libro, perché è importante ri-umanizzare il nemico e non rimanere prigionieri di un rancore che spegne l'anima (come nel romanzo di Carlotto L'oscura immensità della morte). Limiti e dislivelli, dicevo. Per essere davvero un libro riuscito, La fuga in avanti avrebbe necessitato di un maggior controllo della materia e della scrittura, ma non è cosa che si possa chiedere a una persona tanto coinvolta emotivamente. Certo, con un po' di respiro in più e qualche reticenza in meno sarebbe stato un romanzo popolare anomalo e inconciliante... ma allora avrebbe dovuto scriverlo qualcun altro, ed è chiaro che nessun altro avrebbe potuto scriverlo. Quel che resta è vivida memorialistica da un'angolazione inusuale, con quaranta pagine di fotografie ad arricchire il racconto. Ho appena usato la parola "reticenza" e intendo spiegare perché. Ci sono troppi non-detti. L'autore rimane sostanzialmente acritico nei confronti delle Brigate Rosse, o quantomeno del loro "nucleo storico". In nessun punto Morlacchi aggiorna o corregge le proprie impressioni d'infanzia: "I compagni del nucleo storico. Guardavo a loro con gli occhi di un bambino che osserva i propri eroi che lottano contro le forze del male... Mio padre e i suoi compagni erano uomini giusti, capaci di intelligenza, ironia e grande altruismo; avevano tutti i pregi che mi era così difficile trovare nel mondo 'libero'."
Del resto, pure in ambienti insospettabili sopravvive una visione "romantica" delle prime BR: il passaggio dall'epoca Curcio-Cagol al "militarismo" di Mario Moretti è visto come una coupure, una rottura di continuità, ma troppi elementi vengono rimossi dal quadretto alla Robin Hood. Dal carcere, a partire dal 1980, il "nucleo storico" finì per appoggiare la linea iper-sanguinaria di Senzani e del partito-guerriglia, "patrocinando" azioni ripugnanti e insensate. Una su tutte: l'esecuzione con colpo alla nuca delle guardie giurate Sebastiano D'Alleo e Antonio Pedio, a Torino, al solo fine di far trovare sui corpi un comunicato contro una pentita (Natalia Ligas) che non era nemmeno tale. L'incaglio in una palude di cadaveri non fu conseguenza di uno sbandamento, di un'uscita di carreggiata: è una possibilità insita in qualunque culto dell'avanguardia separata dalle masse. Quasi cent'anni prima della nascita delle BR, Marx ed Engels avevano condannato duramente la fascinazione per le società segrete e dichiarato che, almeno in Europa, la rivoluzione non sarebbe stata "affare per massoni". Forse, nei loro incubi, i due capostipiti avevano visto il videotape della condanna a morte di Roberto Peci, dichiarato traditore su base biologica - per consanguineità con un pentito - dopo un "processo" senza difesa. Pornografia della violenza degradante, reality show di faida mafiosa, il tutto accompagnato dall'Internazionale, inno mai tanto svilito e insozzato, nemmeno nei giorni delle purghe staliniane.
Quel singolo episodio è un dado super-concentrato, contiene un minestrone di tutti gli errori del movimento comunista. Riconoscere l'orrore anche dentro l'amore non è "fuga all'indietro", né significa abiurare il conflitto. Al contrario, è il solo modo per tornare a pensarlo fecondo.