Riscrivere la storia a proprio uso e consumo, infatti, non è solo un vecchio vizio di chi comanda: è anche la misura di quanto questa democrazia in crisi profonda e irreversibile in ogni sua articolazione, abbia la necessità estrema di creare artificiosamente attorno a sé quella legittimazione che non c’è più. Le roboanti parole, scelte con sapienza da questo o quel servitore dello Stato, pronunciate nelle aule di un Tribunale, dovrebbero coprire quello che centinaia di migliaia di persone hanno vissuto, e che milioni già conoscono. Quelle parole, diventeranno storia ufficiale quando saranno scritte nero su bianco in calce a condanne di anni di carcere per chi ha avuto la sfortuna di essere stato scelto come capro espiatorio, e la colpa di essere stato a Genova il 19, 20 e 21 luglio del 2001 a contestare il G8.
L’archiviazione dell’omicidio di Carlo Giuliani, è stato il primo capitolo della storia di Genova, scritta per il potere dai tribunali.
Tuttavia commetteremmo un grave errore a pensare che la questione si esaurisca così, in maniera semplificata. Nella requisitoria dei pubblici ministeri, e nella gestione del processo di Genova, traspare ben di più che la sola conferma di un vecchio assunto, con cui tutti i movimenti di lotta hanno avuto a che fare. Innanzitutto per un fatto molto semplice: la storia del potere e quella “sociale”, non viaggiano parallele, ma si scontrano, confliggono. Ed è la forza con cui avviene questo impatto, che determina il risultato. Se si lascia spazio a ciò che il “sistema democratico”, dal parlamento ai tribunali, vuole produrre su Genova, ecco che il risultato sarà sempre a favore del mantenimento del potere. E di chiusura per i movimenti, quelli di allora, e soprattutto quelli che vengono dopo.
Il secondo grave errore sarebbe pensare che anche la storia di movimento sia scritta nero su bianco. Sia statica, depositata, perenne. Non è così. Questa storia è viva, a differenza di quella scritta dai tribunali, e cresce, oppure diventa invisibile, carsica, frantumata, insieme a chi l’ha vissuta. Dopo le giornate di Genova, nessuno di noi, di quelli che in maniere diverse hanno contribuito a costruire quella strordinaria insorgenza, che come tutte le cose vere ha fatto i conti anche con le tragedie, ha saputo riprendere parola con forza. Alcuni perché, dopo quell’esperienza di rivolta, molto semplicemente hanno preferito tornare, o saltare, nel solco della politica ufficiale, nei parlamenti e nei partiti. Altri perché a volte la ricerca dei movimenti, ti porta in strade nuove, difficili da sperimentare, piene di dubbi ed incertezze. In generale non siamo stati capaci di assumere i processi contro alcuni di noi, come fatto politico fondamentale, e abbiamo troppo spesso permesso quindi, che la nostra storia fosse scritta da altri.
Ma cosa significa riprendere la parola con forza? Crediamo che abbia poco a che fare con il semplice parlare, denunciare, testimoniare. Questo, certo, è il minimo, ma come abbiamo visto, se non vi è qualcosa in più, qualcosa che diventi motore di tutto il resto, anche quello che si da per scontato, viene inghiottito in una routine che diventa in fretta incapacità.
E’ un’idea forza che ha prodotto Genova, non la sommatoria di chi vi partecipava. Ed è dalla nostra idea forza, quella di Via Tolemaide, che noi vogliamo contribuire a rimettere al centro ciò che Genova ci ha consegnato.
In questi giorni i pubblici ministeri hanno chiarito bene qual è la chiave che lo stato vuole usare per la criminalizzazione del movimento di genova. Il nodo di via Tolemaide, che è stato anche il corteo più partecipato di quei giorni, è l’anomalia che chi riscrive la storia dal punto di vista del potere, deve attaccare.
Attorno alla moltitudine degli oltre ventimila di via Tolemaide e del Carlini, a ciò che ha generato l’attacco dei carabinieri, ruotano tutti i fatti del 20 di luglio, compreso l’omicidio di Carlo.
Quella moltitudine aveva fatto una scelta precisa. Di disobbedire all’imposizione della zona rossa, che era il simbolo concreto di tutto il potere esercitato dal G8 in quei giorni. Ma questa scelta, era stata resa pubblica. La disobbedienza, la violazione della legge, era divenuta spazio pubblico e direttamente costituente per quella enorme comunità di soggetti, singoli e collettivi. Vedendo oggi ciò che stanno facendo i compagni di Copenhagen, o quello che è successo a Rostock, si ha la dimensione, spaziale e temporale, di quanto quella scelta, rinnovata ed arricchita, sia divenuta pratica di movimento. E non si tratta della "forma di lotta", anche se le tecniche, ad esempio quella degli scudi, le abbiamo viste ormai ovunque utilizzate, ma del paradigma della disobbedienza. La scelta di violare la zona rossa, di dichiararlo pubblicamente e quindi di non "clandestinizzare" né le pratiche né il processo di costruzione di questo percorso, è parte di questa anomalia attaccata dai tribunali e dallo stato.
I ventimila di via Tolemaide sono stati possibili grazie a questo. E questa scelta, l’essere in tanti e costituirsi a partire da una pratica condivisa e non da altro, oggi la ritroviamo in molte esperienze di resistenza che accompagnano movimenti veri che si battono contro le basi o contro il Tav.
Ma aver trasformato il proprio obiettivo in uno spazio pubblico costituente, porta ad un’altra incompatibilità per lo stato, che poi i giudici nei tribunali tentano di criminalizzare: il consenso. Il corteo di via tolemaide, e l’esperienza del Carlini, potevano contare di un appoggio, anche solo in termini di opinione, che andava molto oltre il numero dei partecipanti. E’ possibile per il potere ammettere questa stranezza? Si può essere cattivissimi, ferocissimi, ma bisogna essere pochi, isolati da tutti, costituenti solo della propria sconfitta: questo è compatibile. Anzi, al di là della volontà dei protagonisti, alcune volte generosi e riempiti di anni di carcere, lo stato assegna un ruolo a tutto ciò, come lo assegna alla testimonianza e alla denuncia. L’importante è che il risultato finale rafforzi le istituzioni, e il loro precario legame con legittimità e consenso.
Ma se il consenso si incardina per un attimo a qualcosa che prelude a una non accettazione delle leggi, dell’ordine costituito, e lo pratica collettivamente? Via Tolemaide era anche questo.
E un altro nodo, fondamentale, è ciò che è accaduto dopo l’attacco dei carabinieri. L’esercizio di un diritto di resistenza, spontaneo, diretto, diffuso. La disobbedienza non si è trasformata in un gioco di ruolo, appunto. Nelle distorsioni spesso operate da chi, anche all’interno di quel percorso, parlava di disobbedienza ma pensava al governo, la disobbedienza ha rischiato di morire rinsecchita varie volte. Prima perdendo la sua originalità legata al contesto che l’aveva prodotta, e richiamandosi a modelli "storici". Come dire che la nonviolenza dei movimenti birmani è la stessa cosa di quella propagandata da certi parlamentari italiani, che votano le guerre tralaltro. Poi rischiando di diventare un feticcio, un’identità chiusa e pesante, fondata sulle tecniche di lotta più che su un sentire comune.
Via Tolemaide, con l’esercizio da parte della disobbedienza, del diritto di resistenza, ha spazzato via tutti i tentativi di questo tipo. La disobbedienza non poteva più essere considerata né un modello, né una forma.
Oggi in Italia ed in Europa ci sembra dimostrato che si tratta dell’assunzione di un percorso, che può avere forme e modi diversi ed articolati, e trova il suo fondamento in alcune linee di tendenza. Dal Carlini si è partiti per agire con la disobbedienza, un obiettivo. Ci si è ritrovati a resistere, con ogni mezzo possibile, alla furia cieca e di annientamento, che nessuno aveva potuto prevedere in quei termini, che carabinieri e polizia hanno scaricato contro quel corteo. Questo è stato un passaggio naturale, ed è per questo che la resistenza di quel corteo, rivendicata collettivamente fino in fondo, è per lo stato, i tribunali e le istituzioni, difficile da digerire. Ed è in quel contesto che va letto l’omicidio di Carlo. In assenza quindi di facili strumentalizzazioni possibili, in quel caso lo stato ha scelto l’archiviazione.
E’ questo il nodo che si tenta di annullare con il processo di Genova. Perché parla agli altri movimenti, quelli di oggi e quelli di domani, e lo fa con speranza e determinazione, con rabbia e lucidità. Via tolemaide ha messo in difficoltà il potere, e per questo bisogna tentare di riscriverne la storia, facendola rientrare in un contesto compatibile. A Genova con l’assunto: “In Via Tolemaide erano tutti violenti”, a Cosenza con l’imputazione di “associazione sovversiva composta da oltre ventimila aderenti”.
Con questa idea forza dobbiamo riprendere la nostra corsa che è stata interrotta lì, in quella via di Genova, in quella piazza poco distante bagnata del sangue di uno di noi. Altri hanno ripreso a correre, in Germania, in Danimarca, in Val di Susa, a Vicenza. Sappiamo da dove partire per raggiungerli. Dalla difesa di tutti i compagni sotto processo, dal riconoscere ciò che ci ha consegnato Genova, da Via Tolemaide.
Sottoscriviamo quanto sopra per prendere un impegno. Quello di organizzare, durante il ritiro in camera di consiglio dei giudici del processo di Genova, una mobilitazione. La sentenza, cioè il tentativo di riscrivere la storia dal punto di vista del potere, deve trovare un contrasto diretto da parte di tutti coloro che in quei giorni del 2001 scesero in strada nonostante le minacce, l’arroganza, la violenza scatenata contro chi voleva cambiare. Iniziamo noi, con i nostri nomi e cognomi, perché innanzitutto qui vi è la scelta, personale e politica, di continuare a batterci per una verità che non sia addomesticata, che non sia occasione per chiudere ulteriormente gli spazi dei movimenti e del dissenso in questo paese. Ma facciamo da subito appello a tutti, singoli e realtà collettive, perché costruiscano insieme a noi le iniziative che sono oggi necessarie. Perché tutti i compagni processati a Genova siano liberi, perché la storia del potere non sia un ostacolo alla corsa di tutti, quelli che c’erano e quelli che verranno, verso la libertà. Con Carlo nel cuore.
Per le adesioni vedi qui.
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