Una proposta di discussione
Ci sono eventi che con la loro forza determinano lo spartiacque tra un prima e un dopo, segnano un punto di discontinuità. Quanto è successo martedì 30 gennaio a Roma è uno di questi eventi. Lo diciamo con sobrietà, perché la sbruffoneria è propria di chi è debole, non di chi ha vinto.
E noi martedì abbiamo vinto. Questo è il punto di partenza. Abbiamo vinto perché lo spazio di Esc ce lo siamo ripresi poche ore dopo che era stato sgomberato, e ce lo siamo ripresi con una mobilitazione – determinata, forte, con tutti pronti a tutto – che è partita dall'università ed ha raggiunto la sua interfaccia con la metropoli, Esc appunto. Quando diciamo spazio non intendiamo solo un luogo fisico da difendere, e non intendiamo affatto la perimetrazione di una zona rossa dell'identità antagonista o di una tribù politica.
Quando diciamo spazio vogliamo dire una macchina al contempo mobile e capace di sedimentazione organizzativa, fatta di forme di vita, espressione di conflitto e desiderio di esodo. Il corteo di martedì pomeriggio, convocato nel giro di poche ore, non era composto semplicemente dai militanti dei centri sociali, che pure c'erano in gran numero, perché è da subito corsa come un'evidenza generalizzata che l'attacco a Esc era un attacco a tutti; sotto i caschi e a sfondare i sigilli apposti dalla polizia c'era un pezzo di società, la cui determinazione nasceva dalla consapevolezza che la posta in palio non consisteva in un centro sociale in più o in meno, ma di uno spazio di vita, di relazioni e di resistenza. È per questo che abbiamo vinto, e lo abbiamo fatto da quando ci siamo concentrati davanti all'università, da quando hanno iniziato ad arrivare centinaia di studenti e non, pronti ad affrontare chi quello spazio aveva cercato di toglierglielo, determinati a riprenderselo, con ogni mezzo necessario. Per una volta il nodo della decisione non è stato sciolto, ma è stato tagliato. In molti, e non da un piccolo gruppo. Lì, davanti all'università e alla porta di Esc riaperta dalla forza di tanti corpi, abbiamo imparato cosa significa essere minoranze agenti senza essere minoritari.
Il conflitto nell'epoca della governance metropolitana.
Già dalle prime ore del mattino, mentre i blindati e i vertici della questura non avevano ancora abbandonato il luogo dove avevano terminato il loro agguato, è cominciato il rimpallo di responsabilità sull'avvenuto sgombero. Gli esponenti dell'amministrazione comunale – a partire
da coloro che fino al giorno prima avevano con noi ormai concluso una trattativa sullo spazio, vanificata dall'azione poliziesca – non esitavano a dirsi ignari dell'accaduto, attribuendo ogni responsabilità alla questura. Evidentemente non la raccontavano per intero, ma nello scaricabarile facevano trapelare anche un elemento di verità. Lo sgombero e ciò che ne è seguito hanno
disvelato uno scontro di poteri a più livelli: tra questura e amministrazione comunale, ma anche all'interno della stessa amministrazione comunale. Non è qui importante disegnare le geografie del potere: il problema politico è comprendere cosa esso significa, e come attraversarle conflittualmente. Questo è il problema di praticare conflitto e disegnare linee di fuga non fuori, ma
dentro e contro il laboratorio della governance metropolitana che Veltroni ha costruito nelle sue amministrazioni.
Chiariamo una cosa. Gli organi informativi mainstream sottolineano le differenze tra l'amministrazione Veltroni e quelle di Cofferati o Zanonato. Lo fanno però, come è puntualmente successo nel commentare la giornata di martedì, collocando questa differenza su una scala di valore. In altre parole, i progressisti attribuiscono un segno più all'amministrazione capitolina, laddove i reazionari appuntano un meno. Così posta, la questione non ci riguarda. Il problema non è se Veltroni sia meglio o peggio di Cofferati o Zanonato, ma piuttosto capirne la diversità. Occorre rovesciare il punto di vista. La governance non nasce dalle intenzioni di amministratori illuminati: essa è la risposta alla forza dei movimenti e dei conflitti, che hanno destrutturato le forme del governo verticale. La flessibilità dei meccanismi di governance non sono sinonimo di esercizio di un potere soft: al contrario, tale flessibilità è commisurata e permessa da forme di violenza in punti determinati e a geometria variabile. Esc è stato attaccato non perché luogo fuori dai rapporti con le istituzioni, ma in quanto spazio incompatibile dentro i dispositivi della metropoli. Dunque, la governance non è più buona o più cattiva delle classiche forme di governo. È semplicemente, ma anche sostanzialmente, differente. Ed all'altezza di questa differenza bisogna collocare l'azione politica che vuole sovvertirla.
Non ci è utile la triste alternativa tra ghettizzazione identitaria e subalternità di fatto ai partiti, in quanto agenti di traduzione delle istanze dei movimenti nelle forme di cattura delle istituzioni rappresentative. Il problema è esattamente far saltare questo nesso dialettico, aggredendo ed agendo fino in fondo la crisi della rappresentanza. Una prima approssimazione di ciò che questo significhi l'abbiamo vissuta martedì sera, quando Veltroni – dopo, e non prima che ci siamo riappropriati dello spazio, e dunque incalzato da ciò che era successo – ci ha telefonato direttamente per comunicarci l'assegnazione dello spazio, saltando i partiti e gli istituti della rappresentanza. Detta con una battuta: senza la mobilitazione "minacciosa" non ci avrebbero riconsegnato le chiavi, sarebbe probabilmente cominciata una nuova trattativa, dall'esito forse incerto, dai rapporti di forza sicuramente sfavorevoli. Esc ce lo siamo ripresi con la forza, perché è con la forza che si fanno saltare i meccanismi di regolazione e gestione del potere, ed è con la forza che si apre lo spazio dell'autorappresentazione. Ma il problema è anche trovare i punti di applicazione della forza, non solo le sue forme. E questi punti stanno interamente dentro, non più fuori: nel sistema di governance, infatti, il problema delle istituzioni non è escludere, ma includere differenzialmente, attraverso filtri di volta in volta mediati da attori e poteri diversi. Il problema non è più nei termini classici della repressione per allontanare, ma è immediatamente sulla qualità dell'inclusione e sulla resistenza alle forme della cattura. Alla luce di questo l'anti-veltronismo, nelle forme in cui si è fino ad ora espresso, è problematico non perché sbagliato, ma in quanto inefficace. La questione non è essere più o meno contro Veltroni, non è sulla radicalità verbale che si misura la qualità dell'antagonismo; al più, lì si misura la spartizione degli assessorati! Piuttosto, la qualità dell'antagonismo si qualifica nella produzione di "autonomia" dentro e contro l'impresa-metropoli.
Organizzarsi sulla frontiera tra autonomia e cattura.
Fin dal mattino la zona de La Sapienza è diventata l'ovvio punto di aggregazione della mobilitazione. Ovvio in quanto prodotto dalla lunga sedimentazione organizzativa in uno spazio produttivo continuamente aperto su ciò che lo eccede. Proprio in quello spazio di frontiera noi da anni ci collochiamo, provando ad articolare un processo costituente, di produzione di soggettività, di sperimentazione organizzativa. Non esiste, infatti, produzione di saperi al di fuori della lotta e
dell'espressione di parzialità. Il punto di applicazione della forza nella metropoli produttiva non è dove le forme di governance sono più deboli, ma là dove il precariato è più forte. Sulla frontiera tra università e metropoli, per esempio. Questa è un'altra lezione che martedì abbiamo imparato nel nostro "corso di autoformazione". Questo è un elemento utile che traiamo dal 30 gennaio sul piano della ridislocazione della forma centro sociale nella metropoli. Elemento che, assieme ad altro, vorremmo consegnare ad una discussione ampia che ecceda i nostri confini organizzativi.
I lessici della vittoria sono sempre spuntati e stentati, mentre quelli della sconfitta abbondano di lagnosa retorica: questa è un'altra zavorra con cui la sinistra tenta di appensantire i nostri corpi e i nostri cervelli che stanno tentando di praticare esodo, dalla sinistra innanzitutto.
Ora, la posta in palio si alza: ripensare in termini radicali uno spazio sociale nella metropoli produttiva significa sfuggire alla dicotomia tra impresa culturale e sconfinamento antagonista. Lo spazio sociale diventa antagonista proprio nella misura in cui riconosce nella cultura, nelle relazioni e nelle conoscenze il campo specifico del conflitto nel capitalismo cognitivo. È proprio qui, nella ricomposizione di teoria e pratica, di conoscenza e odio, di tattica nell'applicazione della forza e strategia nella scelta dei luoghi in cui organizzarsi, che un centro sociale si differenzia da qualsiasi Auditorium, dall'essere ridotto a luogo di produzione di eventi culturali disincarnati, o tribù politica chiusa nella fobica conservazione di un'identità astratta. La sfida consiste nello spiazzare questa falsa alternativa, in cui entrambi i termini sono funzionali all'offerta formativa della governance metropolitana. Saper andare oltre la vittoria, ora, significa abitare la frontiera che separa la capacità di innovazione radicale dal massimo del pericolo. Su questo margine ci vogliamo collocare, dopo che non noi in quanto spazio politico abbiamo vinto, ma un pezzo di società, o meglio un pezzo della nostra parte – conflittuale, radicale e non rappresentabile. A difendere Esc, a riprenderselo, c'erano gli occupanti, gli artisti che sviluppano lì dentro i loro progetti, gli studenti che lo hanno vissuto come fatto proprio, il movimento romano, dai centri sociali ai movimenti di lotta per la casa, che si è ricomposto di fronte a un'emergenza percepita come collettiva. La comune matrice dell'occupazione, infatti, segna la differenza dei centri sociali, ne rappresenta la cifra di incompatibile autonomia, ed è per questo che l'obiettivo delle strategie di governance sta nel rimuoverne le tracce, nell'esorcizzarne il pericolo. In quest'ottica leggiamo l'intenzione di riforma della delibera 26, come tentativo di neutralizzazione a mezzo di inclusione, di normalizzazione a mezzo di (esposizione al) mercato, come forma di controllo a mezzo di individualizzazione.
La giornata del 30 ci parla di un quadro mutato ma anche di un'affermazione di autonomia e di forza collettiva, di come quest'affermazione di autonomia abbia giocato un ruolo fondamentale nella definizione di un rapporto di forza a noi favorevole. Bisogna tenere insieme questi due elementi come bussola della sfida che ci si pone, il piano alto della scommessa: come si fa oggi autonomia precaria nella governance metropolitana?
La questione è aperta, ma non partiamo da zero. Partiamo dall'aver agito a pieno questo quadro invertendone il segno, partiamo da una vittoria.
Invitiamo tutti i centri sociali a partecipare ad una discussione pubblica sui temi dell'autogestione, delibera 26 e produzione culturale mercoledi 7 febbraio h18 ESC