lunedì, ottobre 09, 2006

A proposito de La miseria umana della pubblicità: un edonismo cool e ironico


“Un edonismo cool e ironico”. E' a questa definizione, ripresa da un discorso del pubblicitario Bernard Cathelat, che si richiamano gli autori di Della miseria umana della pubblicità per definire il processo di devastazione che sta portando il deserto in ogni angolo del pianeta. Non solo dunque la devastazione intesa come stato di cose, come distruzione dell'ecosistema terrestre, ma anche come stato d'animo, che è appunto fatto “di edonismo cool e ironico”.

Il Gruppo MARCUSE – che ha redatto il libro – ricorre a queste immagini per rendere evidente il legame fra la devastazione – nella sua doppia forma esteriore e interiore – e la coppia che rappresenta al tempo stesso il mito fondativo del capitalismo e la sua ragion d'essere: il produttivismo e il consumismo.

Ma di fronte alla portata delle questioni fino a qui poste che peso può avere il ruolo della pubblicità, che è il vero target di questo libro? “La pubblicità è al tempo stesso il vettore e la vetrina della devastazione, contribuendo alla distruzione ecologica del pianeta, al deterioramento delle relazioni umane, alla dissoluzione degli immaginari e a un abbrutimento drammatico. La pubblicità incarna questa miseria in modo esemplare negli scempi che comporta, nella stupidità di cui dà prova, nello squallore che mette in mostra e nel cinismo che diffonde” [p. 119].
Una dichiarazione del genere a molti potrà apparire catastrofista, parrà accentuare oltre che la dimensione dei problemi anche il ruolo della pubblicità, ma come ci ricordano gli autori non c'è possibilità di dividerci fra ottimisti e pessimisti nel valutare questi problemi, poiché questi sono assolutamente evidenti a noi tutti nelle nostre esperienze dirette e non sono ineludibili.

La tendenza a mascherare e minimizzare questi problemi si spiega probabilmente nello stesso modo in cui si spiega la ragione per cui noi tutti tendiamo a eludere il ruolo nevralgico della pubblicità: poiché il problema siamo noi, il nostro stile di vita, la costituzione della nostra identità, diviene difficile riconoscere quanto della nostra vita sia debitrice – o a questo punto creditrice – dei modelli di vita imposti dalla pubblicità. Significherebbe, in ultima istanza, ammettere che quelli che noi consideriamo gelosamente come gli ambiti più intimi delle nostre esistenze – il mito dell'autonomia dell'individuo – siano in verità profondamente influenzati e indirizzati dai dispositivi di marketing. Si crede nella propria immunità dall'influenza di questi dispositivi poiché si suppongono disvelati, della pubblicità infatti tutti conoscono il fine che è appunto quello di influenzare le nostre preferenze, quello di indurci a consumare e di orientare i nostri consumi. Ammettere una sua influenza così profonda sulle nostre esistenze, è ammettere a noi stessi la nostra stupidità.

Tutte queste considerazioni risultano più convincenti a mano che si procede con la lettura del libro, muovendosi da un'attenta pulizia del campo da facili e futili argomentazioni quali la pretesa neutralità della pubblicità, la riduzione della problematica agli eccessi dei pubblicitari, fino ai richiami strumentali alla libertà di scelta o a un supposto valore artistico o culturale di alcune campagne pubblicitarie.
Gli autori ci raccontano gli albori della pubblicità e il contesto storico-sociale in cui prese forma, quindi di quella che ancora era chiamata réclame e di uno sviluppo delle società industriali che mirava a rendere illimitato il mercato della domanda di beni, anche attraverso l'apertura all'accesso ai consumi alla grande massa della classe operaia.
La pubblicità si trasforma
, raffinando i suoi strumenti di persuasione, passando dalla forma informativa (forma rudimentale che si rivolge al consumatore razionale), a quella meccanicistica (con cui già si cerca di condizionare il consumatore passivo); dalla forma integrativa (in cui molto più sottilmente si offrono modelli appetibili da imitare per il consumatore conformista), a quella suggestiva (il cui strumento principale sono le teorie psicologiche, mentre l'obiettivo è dirigere la propria azione direttamente alle istanze irrazionali dell'ego). Queste forme nella pratica pubblicitaria si presentano oggi – nel momento di massimo splendore di questo settore produttivo, almeno guardando ai profitti – miscelate e coniugate: “Il martellamento resta il principio di base, al quale si aggiunge la manipolazione delle pulsioni o delle tendenze conformiste. Si preannuncia così la seduzione dell'inconscio, proponendo al contempo le razionalizzazioni necessarie capaci di giustificare l'acquisto irrazionale” [p. 84].

Una questione centrale è il rilievo che la pubblicità in generale ha, o meglio che hanno l'insieme di ogni campagna pubblicitaria, nello svolgere un ruolo a monte dell'influenza determinata sui consumi individuali e questo ruolo è la promozione del sistema capitalistico e della sua logica cieca che è la crescita illimitata.
Tornando alle teorie pubblicitarie sopra esposte aggiungerei che oggi, oltre che ad una miscellanea di queste forme, un posto centrale nelle strategie di marketing sia da individuare nelle così dette strategie di branding e nelle pratiche di advertissing, in cui ciò che si offre non è più la merce in sé (che diviene un feticcio), il suo “valore d'uso”, ma piuttosto attraverso le prime (il l
ogo) si offre l'adesione ad una determinata comunità di riferimento, mentre con le seconde si costruiscono gli universi simbolici che tracciano i confini di questa.
A proposito gli stilisti Gabbana e Dolce, intervistati in una trasmissione televisiva, hanno candidamente spiegato la logica che spinge un individuo a spendere cifre spropositate per un paio di mutande che riporti il loro logo: sentirsi parte di una tribù, potersi riconoscere e riconoscersi nei codici, nei rituali, nel linguaggio, negli “ideali” veicolati dalle campagne pubblicitarie, in sintesi nel mondo simbolico ed emozionale proposto dal brand.
Forse siamo noi tutti che dovremmo essere meno ingenui, mentre loro – i Gabbana e i Dolce – sanno benissimo che gioco conducono.

Miseria umana della pubblicità mi dà inoltre la possibilità di sviluppare brevemente una risposta alla critica che gli autori muovono a quello che definiscono un discorso economico diffuso, “sfortunatamente ripreso senza alcun distacco critico dai gruppi «contestatari» vicini alle idee di Toni Negri, ha la pretesa di sostenere l'entrata in una nuova «economia immateriale»: come se non si producessero più oggetti, ma soltanto «conoscenza», «informazioni», «concetti», oppure «servizi»” [p. 88].
La risposta si rivolge alle diffuse critiche per cui quella che qui è definita – molto riduttivamente e approssimativamente – «economia immateriale» sarebbe dipinta dal pensiero post-operaista come un processo di democratizzazione dell'economia, come una nuova e splendente frontiera in cui lo sfruttamento scompare; in verità ciò non è corretto, poiché l'accento viene posto dai sostenitori delle tesi sul “lavoro immateriali” sui rapporti di produzione e sulla natura delle loro relazioni e, oltre che individuare e descrivere l'emergere dell'egemonia del lavoro cognitivo, denunciano l'ampliarsi delle forme dello sfruttamento. Un esempio è il libro di Bologna e Fumagalli Il lavoro autonomo di seconda generazione, di cui anche negli ultimi mesi su il manifesto si sono potuti trovare vari riferimenti critici in cui si addossa a questi tesi una visione paradisiaca, appunto, del lavoro autonomo di seconda generazione; mentre le tesi di questo libro tendono a sottolineare in primo luogo le nuove forme dello sfruttamento che si stratificano sulle precedenti, fino al lavoro servile, e la relazione di servizio come nuova forma di riferimento nei rapporti di lavoro. Insomma, tutto fuorché una visione edulcorata del mondo della produzione contemporaneo.

Per finire una piccola avvertenza prima della lettura de La miseria umana della pubblicità: se già odiate la pubblicità continuerete a farlo, se invece a volte indugiate su questa e vi sentite “quasi” coinvolti allora godrete di una consapevolezza che anche se non immunizza almeno aiuta.

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