E' proprio vero che il giornalismo è in crisi nera, anzi che il linguaggio giornalistico segni il passo della crisi quando mette in evidenza ciò che ci mostra Sbancor nell'articolo postato pochi giorni fa. Fa ancora più impressione il pozzo nero in cui si è calato il giornalismo quando si nota che le voci più ascoltate dalle rubriche dei giornali sono quelle degli "opinionisti", che hanno una soluzione pronta per ogni problema, e nella maggior parte dei casi ne hanno per scrivere la loro almeno un paio di volte a settimana...
Ma ecco che a smentire queste tristi conclusioni sul giornalismo arriva un reportage importante, perchè fa pensare che nel giornalismo - forse - tutto non è perduto e perchè racconta quello che gli occhi del giornalista hanno visto, semplicemente.
L'articolo è quello di Fabrizio Gatti (già intrufolatosi come migrante nel C.p.t. di via Corelli a Milano, così come l'anno scorso nel centro d'accoglienza di Lampedusa), pubblicato dall'Espresso e che non poteva non dare scalpore, tanto che immagino che tutti quelli che stanno leggendo sapranno già di che si parla... il reportage racconta delle giornate in cui Gatti si è fatto assumere - per modo di dire - in Puglia come raccoglitore di pomodori, sempre spacciandosi per un migrante e convivendo con loro. Ne esce un quadro sconcertante, niente che non si potesse immaginare ma che comunque si fa fatica a fare, poichè se siamo abbastanza pronti mentalmente per immaginarci episodi di violenza - magari reiterati, magari generalizzati - siamo meno pronti nell'immaginarci un vero e proprio sistema di sfruttamento disumano e schiavistico, in cui le responsabilità delle circostanze raccontate hanno confini labili e coinvolgono un pò tutti gli attori territoriali, dai padroni dei campi ai loro clienti, dai caporali alle amministrazioni locali, dai carabinieri alle aziende sanitarie locali.
Vorrei che tutti leggessero questo reportage, è un esempio cristallino di come primo-secondo-terzo mondo non corrispondano più a una divisione territoriale-statuale ma siano dispiegati senza continuità e sequenzialità su tutto il pianeta, così che anche l'italya possa essere etichettata "terzo mondo".
Questo sotto l'inizio del reportage, tutto qui.
Ma ecco che a smentire queste tristi conclusioni sul giornalismo arriva un reportage importante, perchè fa pensare che nel giornalismo - forse - tutto non è perduto e perchè racconta quello che gli occhi del giornalista hanno visto, semplicemente.
L'articolo è quello di Fabrizio Gatti (già intrufolatosi come migrante nel C.p.t. di via Corelli a Milano, così come l'anno scorso nel centro d'accoglienza di Lampedusa), pubblicato dall'Espresso e che non poteva non dare scalpore, tanto che immagino che tutti quelli che stanno leggendo sapranno già di che si parla... il reportage racconta delle giornate in cui Gatti si è fatto assumere - per modo di dire - in Puglia come raccoglitore di pomodori, sempre spacciandosi per un migrante e convivendo con loro. Ne esce un quadro sconcertante, niente che non si potesse immaginare ma che comunque si fa fatica a fare, poichè se siamo abbastanza pronti mentalmente per immaginarci episodi di violenza - magari reiterati, magari generalizzati - siamo meno pronti nell'immaginarci un vero e proprio sistema di sfruttamento disumano e schiavistico, in cui le responsabilità delle circostanze raccontate hanno confini labili e coinvolgono un pò tutti gli attori territoriali, dai padroni dei campi ai loro clienti, dai caporali alle amministrazioni locali, dai carabinieri alle aziende sanitarie locali.
Vorrei che tutti leggessero questo reportage, è un esempio cristallino di come primo-secondo-terzo mondo non corrispondano più a una divisione territoriale-statuale ma siano dispiegati senza continuità e sequenzialità su tutto il pianeta, così che anche l'italya possa essere etichettata "terzo mondo".
Questo sotto l'inizio del reportage, tutto qui.
Il padrone ha la camicia bianca, i pantaloni neri e le scarpe impolverate. È pugliese, ma parla pochissimo italiano. Per farsi capire chiede aiuto al suo guardaspalle, un maghrebino che gli garantisce l'ordine e la sicurezza nei campi. "Senti un po' cosa vuole questo: se cerca lavoro, digli che oggi siamo a posto", lo avverte in dialetto e se ne va su un fuoristrada. Il maghrebino parla un ottimo italiano. Non ha gradi sulla maglietta sudata. Ma si sente subito che lui qui è il caporale: "Sei rumeno?". Un mezzo sorriso lo convince. "Ti posso prendere, ma domani", promette, "ce l'hai un'amica?". "Un'amica?". "Mi devi portare una tua amica. Per il padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare subito. Basta una ragazza qualunque". Il caporale indica una ventenne e il suo compagno, indaffarati alla cremagliera di un grosso trattore per la raccolta meccanizzata dei pomodori: "Quei due sono rumeni come te. Lei col padrone c'è stata". "Ma io sono solo". "Allora niente lavoro".
Non c'è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi. Il caporale vuole una ragazza da far violentare dal padrone. Questo è il prezzo della manodopera nel cuore della Puglia. Un triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San Severo. Nella regione progressista di Nichi Vendola. A mezz'ora dalle spiagge del Gargano. Nella terra di Giuseppe Di Vittorio, eroe delle lotte sindacali e storico segretario della Cgil. Lungo la via che porta i pellegrini al megasantuario di San Giovanni Rotondo. Una settimana da infiltrato tra gli schiavi è un viaggio al di là di ogni disumana previsione. Ma non ci sono alternative per guardare da vicino l'orrore che gli immigrati devono sopportare.
Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d'estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell'Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all'uomo raccontata da Alan Parker nel film 'Mississippi burning'. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l'hanno ucciso.
Adesso è la stagione dell'oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi, come melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta di non sapere. E a fine raccolto si mettono in coda per incassare le sovvenzioni da Bruxelles. 'L'espresso' ha controllato decine di campi. Non ce n'è uno in regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza sleale all'Unione europea. Dentro questi orizzonti di ulivi e campagne vengono tollerati i peggiori crimini contro i diritti umani.
Continua qui.
Non c'è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi. Il caporale vuole una ragazza da far violentare dal padrone. Questo è il prezzo della manodopera nel cuore della Puglia. Un triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San Severo. Nella regione progressista di Nichi Vendola. A mezz'ora dalle spiagge del Gargano. Nella terra di Giuseppe Di Vittorio, eroe delle lotte sindacali e storico segretario della Cgil. Lungo la via che porta i pellegrini al megasantuario di San Giovanni Rotondo. Una settimana da infiltrato tra gli schiavi è un viaggio al di là di ogni disumana previsione. Ma non ci sono alternative per guardare da vicino l'orrore che gli immigrati devono sopportare.
Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d'estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell'Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all'uomo raccontata da Alan Parker nel film 'Mississippi burning'. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l'hanno ucciso.
Adesso è la stagione dell'oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi, come melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta di non sapere. E a fine raccolto si mettono in coda per incassare le sovvenzioni da Bruxelles. 'L'espresso' ha controllato decine di campi. Non ce n'è uno in regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza sleale all'Unione europea. Dentro questi orizzonti di ulivi e campagne vengono tollerati i peggiori crimini contro i diritti umani.
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