In fondo, retrospettivamente, si può ben indicare nella sollevazione zapatista del 1994 il momento di avvio di questa nuova stagione politica, senza che ciò significhi sostenere alcuna lineare continuità tra quell’evento e le molteplici esperienze di governo “popolare” inaugurate negli ultimi anni: dal Brasile di Lula all’Argentina di Kirchner, dall’Uruguay di Tabare Vásquez al Venezuela di Chavez, dalla Bolivia di Evo Morales allo stesso Cile di Michelle Bachelet. Sarà bene anzi dire subito che queste esperienze sono profondamente eterogenee, che ciascuna di esse esprime contraddizioni e limiti specifici, una concezione anche molto diversa della politica economica e sociale, un peculiare modo di immaginare e praticare il rapporto tra azione di governo e movimenti sociali. Se tuttavia ha un senso il riferimento all’insurrezione di tipo nuovo dell’EZLN in Chiapas, lo ha prima di tutto a livello di metodo: ci ricorda cioè che in America latina, in questi anni, le lotte e i movimenti sono venuti prima delle nuove esperienze di governo di cui stiamo parlando. Gli spazi al cui interno queste esperienze si collocano sono stati aperti dalla continuità, su scala continentale, di un’azione di movimento che non di rado (ad esempio in Venezuela nel 1989, in Argentina nel 2001, in Bolivia nel 2004) ha assunto un vero e proprio carattere insurrezionale.
Anche questa azione di movimento è ben lungi dal poter essere descritta in termini di omogeneità per quel che concerne la sua composizione e le sue forme di espressione. La mobilitazione dei piqueteros argentini non comunica necessariamente con le lotte operaie nell’ABC paulista; le lotte degli indigeni in Chiapas e in Bolivia non si pongono sullo stesso piano delle iniziative sui “diritti umani” che in molti paesi latinoamericani hanno denunciato la continuità tra le dittature militari e le politiche dei governi neoliberali; i movimenti metropolitani che hanno infiammato gli slum di Caracas e le favelas di Rio hanno caratteri distinti dalle occupazioni di terra nelle campagne. Tuttavia, proprio l’eterogeneità di queste lotte e di questi movimenti (a cui molti altri potrebbero essere aggiunti) esprime la ricchezza di comportamenti e pratiche di insubordinazione sociale che sono cresciuti sul terreno stesso materialmente costruito tra gli anni Ottanta e Novanta da quelle politiche neoliberali che in America latina hanno conosciuto uno dei loro terreni privilegiati di sperimentazione. La crisi di queste politiche è stata determinata proprio dai movimenti: la continuità della loro presenza sulla scena continentale è l’elemento fondamentale alla base dell’enorme potenzialità di innovazione che oggi l’America latina presenta, e lo stesso avvenire delle nuove esperienze di governo dipende in buona misura dalla capacità che avranno di costruire in modo nuovo un rapporto con i movimenti e con le lotte, facendone la base di una riqualificazione della stessa democrazia.
Da questo punto di vista, non mancano segnali poco incoraggianti. Se è ancora presto per valutare le iniziative di Morales in Bolivia, sono note le difficoltà di Lula, mentre il rapporto di Kirchner con i movimenti dei disoccupati sembra spesso riproporre modalità di cooptazione e di mediazione corporativa fin troppo note nella storia del peronismo argentino e il governo di Chavez si muove tra i caratteri indubbiamente innovativi dei planes di intervento sociale e l’esasperazione carismatica della figura del presidente. Più in generale, circola in America latina lo spettro dello «sviluppismo», di quella che fu a partire dagli anni Sessanta la specifica variante di «compromesso keynesiano» in quest’area del mondo: il lavoro salariato, industriale, come via privilegiata di accesso alla piena cittadinanza politica e sociale, lo Stato come centro e monopolista incontrastato della stessa azione di contrasto al neoliberalismo. I limiti di questa concezione della politica, a fronte della grande trasformazione che, anche attraverso le politiche neoliberali, ha investito l’intera America latina negli ultimi vent’anni sono evidenti, e molti governi ne stanno facendo diretta esperienza.
In America latina, tuttavia, è aperto un grande cantiere di sperimentazione democratica, e non mancano – spesso all’esterno, ma non di rado anche all’interno dei nuovi governi – tentativi di immaginare soluzioni realmente nuove sia sul piano del rapporto tra movimenti e istituzioni, sia su quello di una politica economica e sociale che interpreti positivamente, senza ripiegare sul mito di un impossibile ritorno alle politiche «sviluppiste» - la crisi del neoliberalismo. Una grande chance, da questo punto di vista, è offerta dall’inedita congiuntura mondiale: non mancano, evidentemente, ingerenze statunitensi nella politica latinoamericana, ma altrettanto evidente è che l’impegno – e le difficoltà – in Medio Oriente, la sconfitta di fatto dell’unilaterialismo USA in Iraq, aprono spazi di autonomia e potenzialità per un progetto politico su scala continentale impensabili fino a pochi anni fa. Le difficoltà incontrate dal progetto dell’ALCA ne sono un segno che non è possibile ignorare. Si tratta di spazi e di potenzialità che devono essere conquistati. Ma ad onta delle plateali differenze tra i nuovi governi “popolari” in America latina, la consapevolezza di condividere questa nuova congiuntura politica mondiale, di rappresentare varianti interne di un’unica scena latinoamericana in tumultuosa evoluzione, si va diffondendo. Le opportunità rappresentate, per lo stesso modello di sviluppo economico e sociale, da una prospettiva di governo dell’interdipendenza, al di là delle ricorrenti tentazioni nazionaliste e «sovraniste», ancora attendono di essere esplorate concretamente, ma cominciano quantomeno a essere chiaramente percepite.
mercoledì, aprile 26, 2006
IL RISVEGLIO DEL GIGANTE di Sandro Mezzadra
Il gigante addormentato si sta svegliando: era uno degli slogan della gigantesca manifestazione di migranti che il 18 marzo di quest’anno ha invaso le vie di Los Angeles. Non è difficile riferire questo slogan alla situazione complessiva di quell’America latina da cui proviene la stragrande maggioranza dei protagonisti di quella manifestazione. Un’aria nuova spira in quella parte del mondo. L’elezione di Lula alla presidenza del Brasile, nel 2002, è soltanto un tassello di un insieme di eventi che ci parlano della fine del «Consenso di Washington» in America latina, di una nuova stagione politica che si sta aprendo, senza che sia ancora possibile valutarne a pieno la direzione di sviluppo.
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