Nel libro Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, edito in Italia da DeriveApprodi, è riportata la discussione fra Michel Foucault e Noam Chomsky nell'unica occasione d'incontro che ebbero. Un incontro al di fuori del solito ambiente accademico, per la precisione l'occasione si presentò in una trasmissione televisiva olandese nel 1971 e rappresenta tuttora un interessante dibattito fra le posizioni del filosofo francese - quindi del pensiero critico - e quelle del linguista americano - quindi delle scienze cognitive. Un libro godibile che certamente consiglio di leggere.
Questo piccolo mio intervento non vuole essere una recensione, piuttosto rappresenta il tentativo di evidenziare alcune riflessioni attuali che la lettura del libro mi ha suggerito.
Per inquadrare il tema va detto che il dibattito verteva sul tema e il concetto di natura umana, per poi allargarsi a questioni più politiche che riguardano il potere e l'esistenza – o meno – di una “società giusta” inscritta nello stesso concetto di natura umana.
Chomsky in quel dibattito esplicita con forza dall'inizio la sua convinzione che vi siano delle invarianti biologiche, cioè dei caratteri peculiari ed unici che permettono agli esseri umani di riconoscersi come tali; i temi che porta a sostegno di questa ipotesi si riferiscono alla linguistica e in particolare alla facoltà di linguaggio, temi che lo stesso autore aveva radicalmente rimesso in discussione introducendo l'elemento della creatività (a cui Chomsky dà un valore e un senso particolare, riferendosi non ai processi creativi “alti” ma piuttosto a quelli diffusi, “quotidiani”). Foucault al contrario – senza tuttavia esplicitare con forza la sua contrarietà a tale ipotesi ma piuttosto rispondendo problematizzando le affermazioni di Chomsky – fa emergere via via nel dibattito una visione radicalmente opposta, poiché egli riteneva che queste stesse invarianti biologiche siano – potremmo dire – figlie del proprio tempo, ossia imprescindibilmente determinate da quelle griglie concettuali che permettono a uomini e donne di rappresentare e dare un senso alla realtà e alle proprie esperienze di vita.
La parte del dibattito certamente più interessante ed anche più viva è però quella che, conseguentemente alle posizioni espresse sulla natura umana, pone la questione del potere e, a mio modo di vedere, di quella che potremmo definire come la visione teleologica che spinge al conflitto, all'azione politica antagonista. Su questa parte del dibattito sono molti i ricorsi che possiamo tracciare con l'esperienza del movimento dei movimenti (come accenna in appendice al libro Virno), ed è a partire da questo che la mia attenzione si è spostata sulle forme attuali di un movimento in fase discendente, nella fase sotterranea che si alterna a quella evidente e di potenza che abbiamo visto esprimersi a partire dai grandi controvertici negli anni '90 del secolo scorso.
Chomsky infatti insiste nel sottolineare come la creatività sia la facoltà da liberare, cioè da sottrarre al dominio delle istituzioni statuali, economiche e sociali; il linguista continua poi sulla sua linea, affermando che un processo rivoluzionario debba poggiarsi su un'idea di giustizia oggettiva, poiché si riferisce proprio alle forme della natura umana date dalla determinazione delle invarianti biologiche. Di questo approccio all'azione politica antagonista mi sembra siano profondamente segnate le esperienze di movimento che vedo vicino a me, esperienze che risentono di una spinta motivazionale all'azione tutta imperniata sulla critica della giustizia sociale in nome appunto di una giustizia più “pura”; la risposta di Foucault a riguardo è una critica a mio avviso più che convincente, poiché segnala che se la giustizia è al centro dei conflitti questa debba esserlo in quanto “strumento di potere”, non come speranza-convinzione che in una data società – futura e risultante dal conflitto – le persone saranno ricompensate per i loro meriti o punite per le loro colpe.
Ciò che mi ha colpito di questo dibattito e di queste conclusioni è che una concezione vicina a Chomsky – 35 anni dopo – si aggrava ancora più poiché elude uno degli ambiti fondamentali del conflitto odierno, in particolar modo per quanto riguarda l'azione: la costruzione delle identità, la produzione di diverse e infinite forme di vita. A proposito penso che Foucault ci indichi una via tuttora feconda e percorribile: “anzichè pensare alla lotta sociale in termini di giustizia, occorre mettere l'accento sulla giustizia in termini di lotta sociale” (pag. 62).