lunedì, marzo 27, 2006
Sergio Bologna sul manifesto rilancia la questione della precarietà
Richiamandosi al movimento contro il CPE francese Bologna ha cercato in un articolo su il manifesto del 24 marzo di rilanciare la questione della precarietà in Italya sotto una diversa lente di lettura rispetto a quelle oggi più in voga. La cosa interessante è che Bologna cerca di andare oltre alle ragioni spese da vari soggetti politici in questa campagna elettorale sulla precarietà, oltre la visione che riduce la precarietà a conseguenza della sola legge 30, ma anche oltre il pacchetto Treu approvato dal governo dell'ulivo. L'origine del male - nella sua specificità italyana - andrebbe piuttosto cercata nell'accordo del luglio '93, uno degli architravi che reggono l'impalcatura istituzionale della seconda repubblica. L'accordo del luglio '93, per chi non lo ricordasse, fu il primo e il più importante fra i patti concertativi degli anni novanta, siglato dalla triade confedarale - la confindustria - il governo. Fortemente contestato dai sindacati di base, l'accordo verteva sulle più disparate materie nell'intenzione di dargli un'apparente visione generale, di sistema. Quindi all'interno di questo accordo trovarono spazio la riforma dei contratti di lavoro, politica industriale, politica dei redditi, ricerca e formazione, fino all'introduzione del lavoro interinale. Ciò che si concrettizzò delle tante "buone intenzioni" fu però solo il blocco dei salari che - sinergicamente alla svalutazione della lira - permise alle industrie italyane un rilancio in grande stile negli anni '90. Queste le parole di Bologna: "Non condanniamo il sindacato per quell’accordo, ma avremo o no il diritto ditrarne un bilancio, tredici anni dopo? Il sindacato volle mostrare allora senso di responsabilità e firmò un patto implicito: noi fermiano i salari e voi, imprenditori, rafforzate e consolidate le imprese, investite in innovazione, fate un salto di qualità. E’ accaduto il contrario. I salari sono rimasti fermi, le grandi imprese si sono rarefatte, è iniziato un processo di sgretolamento, di frammentazione, le imprese sono diventate sempre più piccole, prive di risorse per innovare, investire in ricerca. E’ cresciuta a dismisura la finanziarizzazione, oggi l’Italia è in mano ai riders della finanza, agli immobiliaristi e ai monopolisti privati delle utilities pubbliche (v. autostrade). Accumulano rendite da capogiro. Il patto implicito contenuto nell’accordo del 1993 è stato rispettato solo da una controparte. Ma non è in termini economici che il mancato rispetto di quel compromesso sociale ha prodotto i danni più gravi: è invece in termini di cultura d’impresa, anzi, di civiltà. L’Italia è diventata un paese nel quale il lavoro è considerato un costo, non una risorsa. Ed è qui che inizia il dramma dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro. Possono essere carichi di lauree e master, saranno considerati un puro costo e accettati solo in base alla disponibilità a ridurlo." Ed ancora a proposito di quel che si sente oggi nell'aria a proposito di queste questioni Bologna continua: "Perché queste considerazioni «impolitiche»? Perché troppi sono coloro oggi che invocano una riduzione dei salari ed un allungamento degli orari, troppi sono coloro che parlano di «riforme» fondate su un nuovo «compromesso sociale». Ma chi può oggi sottoscrivere un nuovo patto, quando il primo è stato così vergognosamente violato? Se le imprese non hanno investito in innovazione e consolidamento dieci anni fa, che la congiuntura era favorevole, come si può pensare che lo facciano adesso, messe alle corde da concorrenti ben più temibili e da un prezzo del petrolio che punta verso i 100 dollari al barile? Come possono investire in innovazione le microimprese, le sole che trainano l’occupazione? Può bastare una fattura non pagata per mandarle in rovina." Bologna mette il dito nella piaga di un sistema produttivo allo sbando, sottolineando come "l’Italia ha iniziato il suo declino quando il conflitto sociale è scomparso, quando le generazioni hanno perduto il gusto ed il senso di «farsi sentire»". Ancora più indietro del '93, a risalire fino alla sconfitta operaia della Fiat del 1980.
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