da il manifesto - 6 agosto 2007
Viviamo in un mondo che ha conosciuto una radicale mutamento delle forme di vita, dei modi di produzione e delle forme politiche e di governo. Viviamo cioè in un'epoca postmoderna, che occorre interpretare per potere trasformare, mettendo a dura critica le categorie della modernità capitalista. È questo uno dei temi ricorrenti della Fabbrica di porcellana (Feltrinelli, pp. 156, euro 16, traduzione di Marcello Tarì), un volume che raccoglie dieci lezioni tenute da Toni Negri al Collège International de Philosophie di Parigi tra il 2004 e il 2005 e che costituiscono al tempo stesso una messa a fuoco dei nodi teorici emersi nella discussione attorno ai noti Impero e Moltitudine (entrambi pubblicati negli anni scorsi da Rizzoli), i due volumi scritti da Negri assieme a Michael Hardt. Ma la fabbrica di porcellana è da intendere anche come un deposito di materiali da sviluppare ulteriormente in un lavoro di ricerca più organico di quanto possa essere un ciclo seminariale. Eppure è proprio questo carattere «provvisorio», seminariale, dialogico che rende questo libro un utile strumento per comprendere meglio il laboratorio culturale di Toni Negri.
Un mondo unificato
La tendenza dell'impero è sostenuta tuttavia non solo dalle logiche interne al capitale, ma anche da quella costellazione di singolarità, di forme di vita definita da Negri, è ormai noto, come moltitudine. Anche in questo caso, l'autore chiarisce che la discontinuità operata con la tradizione marxiana sulle classi sociali non va interpretata come una negazione dei rapporti di sfruttamento che qualificano il capitalismo contemporaneo. La moltitudine diviene quindi il termine per indicare tutte le figure lavorative presenti nella realtà contemporanea che ha come elemento dominante il lavoro cognitivo. Ma più che parlare di elemento dominante, credo sia più aderente parlare di una pluralità di forme lavorative accomunate tuttavia dalla centralità della dimensione relazionale, dialogica, della messa in comune del sapere e della conoscenza in quanto fattori innovativi del processo lavorativo: fattore strategico, quest'ultimo del capitalismo contemporaneo. La forza-lavoro deve cioè alimentare quella macchina dell'innovazione che è la cooperazione produttiva.
È però partendo da una torsione della categoria marxiana di lavoro vivo che Negri risponde alla critiche che i filosofi francesi Etienne Balibar e Pierre Macherey hanno rivolto al concetto di moltitudine. Il primo ha espresso il dubbio che la moltitudine possa essere presentata come forza antisistemica, mentre Macherey ha sostenuto che la moltitudine difficilmente possa passare all'azione proprio per quella resistenza che presenta a manifestarsi come soggetto collettivo. Negri sostiene invece che la moltitudine è lavoro vivo che esprime resistenza al capitalismo cognitivo. Da qui le lezioni dedicate al «politico», che spaziano da una rilettura critica del pensiero di Max Weber, Carl Schmitt, Lenin, Michael Foucalt e Gilles Deleuze.
La democrazia assoluta
Vengono così introdotti e approfonditi i temi del biopotere, della biopolitica e della governance, con interessanti incursioni negli studi postcoloniali, intesi in questo volume come griglia analitica con cui analizzare proprio i processo di «soggettivazione politica» della moltitudine. E se il biopotere è inteso come strategie di governo della vita da parte del potere costituito attraverso strategie di governance, la biopolitica diviene l'orizzonte in cui collocare l'azione della moltitudine nel suo processo di defezione e esodo dal potere costituito.
Un libro, dunque, che presente tutti i temi della riflessione di Toni Negri negli ultimi anni. E che ha l'indubbio pregio nel carattere seminariale che lo contraddistingue. La lezione che problematizza meglio di altre le tesi del filoso italiano è quella che porta il titolo «Dal diritto di resistenza al potere costituente». È noto che il diritto di resistenza è elemento fondante del pensiero politico moderno. Ma Negri non è un democratico liberale. La sua prospettiva è una democrazia radicale. Meglio: spinozianamente assoluta che ha nel potere costituente della moltitudine il suo viatico. È su questo crinale che l'insistenza sulla cesura del postmoderno acquista consistenza. La presa di congedo dal pensiero politico della modernità è quindi da intendere non tanto come la constatazione di una evoluzione della società capitalistica, quanto come l'affermarsi di un capitalismo che ha trasformato l'attività intellettuale in mezzo di produzione. Viviamo dunque in un'epoca che vede il capitale come elemento parassitario della cooperazione produttiva sviluppata dalla forza-lavoro, dato che il sapere e la riflessività, direbbe il sociologo tedesco Ulrich Beck, «appartiene» al singolo. La rilevanza del capitale finanziario non è quindi da intendere come «squilibrio temporaneo», ma come fattore qualificante l'attuale capitalismo. Il capitale perde così le caratteristiche produttive, imprenditoriali e si presenta come un elemento parassitario del lavoro vivo. Il puzzle del moderno va così in pezzi e con esso il pensiero politico moderno.
Il potere costituente
La moltitudine e il potere costituente sono quindi da intendere come le coordinate indispensabili per un'azione politica radicale che punti al superamento del capitalismo stesso. La moltitudine per la sua resistenza a qualsiasi processo di eterodirezione della volontà politica; il potere costituente come un potere che non si cristallizza in istituzioni basate sul meccanismo della rappresentanza, bensì su istituzioni che hanno la capacità di prendere decisioni, di attuarle e di modificare se stesse rispondendo così al mutare delle azioni della moltitudine. Una lezione, questa settima, squisitamente politica, quasi una proposta di vademecum per i movimenti sociali che da Seattle in poi hanno prospettato l'altro mondo possibile. Ma visto che ci troviamo di fronte a un work in progress, è indubbio che alcuni elementi problematici vanno comunque sottolineati. La fabbrica di porcellana, cioè la possibilità di un'azione politica radicale, deve misurarsi con una crisi del capitalismo che ha la capacità di trarre comunque linfa vitale proprio dai suoi limiti.
Così l’impero vede un doppio movimento: da una parte il ruolo dirimente di alcune economie e stati nazionali - gli Stati Uniti e la Cina, ad esempio -, dall’altra l’accresciuta influenza di organismi sovranazionali e regionali come l’Unione europea, l’Asean e il tanto bistrattato Nafta, l’accordo di libero commercio tra Canada Usa e Messico, e il nascente Mercosur in America latina. È quindi un impero che ha si nella governance il dispositivo per dirimere i conflitti geopolitici e geoeconomici al suo interno, delegittimando talvolta l’operato del Wto, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, cioè le istituzioni principe della «prima» globalizzazione. Inoltre, il carattere parassitario del capitale deve essere misurato alla luce di quel regime della proprietà intellettuale che garantisce innovazione e un ruolo non residuale al sistemadi macchine dell’organizzazione capitalistica della produzione. Per questo, il sistema della formazione, università compresa, diviene il campo dove l’addestramento di una forza-lavoro flessibile si accompagna a una «messa in produzione» di un sapere tecnico-scientifico mediata dal sistema di macchine. Ma ciò che è davvero rilevante è la crisi dei movimenti sociali. Crisi a geometria variabile, ovviamente. In America latina è difficile parlare di crisi radicale, ma in Europa, negli Stati Uniti e in Asia la recessione economica alimenta il lessico politico della destra populista. Allo stesso tempo, «l’unità d’azione della moltitudine corrisponde alla molteplicità delle espressioni di cui essa è capace» di cui parla Negri rimane imbrigliata in una ambivalenza che il conflitto non riesce a sciogliere. E forse ciò che indica l’autore come problema irrisolto - quello dell’organizzazione politica della moltitudine - è il nodo teorico su cui misurare le capacità di un pensiero politico che assume la cesura postmoderna come scommessa e parte del problema da risolvere.
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