di Marco Philopat
da il manifesto - 9 agosto 2008
C'era una volta la Darsena, il porto milanese dove centinaia di barconi rifornivano giornalmente i cittadini con materie prime, viveri e manufatti. La Darsena era il fulcro di una fitta rete di canali che collegavano la città al bacino del lago Maggiore, attraverso il Ticino e il Naviglio Grande, e a quello del lago di Como con l'Adda e il canale della Martesana. In questo slargo acquatico artificiale costruito durante la dominazione spagnola, confluivano anche le acque di ben 19 fiumi o torrenti, tra cui l'Olona, il Seveso e il Lambro, che ancora oggi scorrono nel sottosuolo milanese. Un sistema di trasporto unico al mondo. A metà dell'Ottocento la Darsena era uno dei più funzionali e capienti porti italiani. 85.000 mila tonnellate di merci per 8300 imbarcazioni all'anno. La zona circostante, il quartiere Ticinese, era il centro degli scambi commerciali e culturali di Milano e per secoli il punto di approdo di milioni di bifolchi che tentavano la fortuna in città. I bifolchi, uomini grezzi che coltivavano la terra, erano naturalmente odiati dalla ricca e opulenta borghesia meneghina, e non trovando molto spazio all'interno delle mura spagnole concentravano le loro relazioni sociali attorno alla Darsena. Qui nel corso dei secoli si sono susseguiti i clochard più bizzarri, ogni genere di artista, dal più blasonato al fallito totale e i più orgogliosi rappresentanti della Ligera, la piccola mala locale con i suoi traffici facilitati dai numerosi passaggi sconosciuti nelle case forate tra il naviglio Grande e quello Pavese. Infatti secondo alcune leggende il quartiere era chiamato dei furmagiatt non solo per le tante botteghe per la produzione del formaggio, ma anche per i buchi nelle case dove poter trasportare e contrabbandare la merce.
Il Ticinese era anche un pullulare di poeti da strapazzo, ubriaconi visionari, attivisti politici e sobillatori anarchici. Le sorti di tale ciurma rispecchiavano gli alti e i bassi delle diverse fasi storiche della città e dei capricci dei suoi dominatori. Spagnoli, austriaci, il brevissimo periodo di esaltazione rivoluzionaria con i francesi e la restaurazione austriaca. Poi i carbonari, le Cinque Giornate, i garibaldini, i moti di piazza del 1898, la cosiddetta protesta dello stomaco e la strage di Bava Beccaris. Quella volta, i cannoni del generale spararono ai rivoltosi uccidendone più di settecento. Dopodiché nei dintorni della Darsena, nonostante guerre e crisi economiche, si respirò una certa aria di libertà fino agli anni di Mussolini, quando a quella marmaglia di bifolchi fu proibito di girare impunita lungo i canali dell'Amsterdam padana. Nell'ottobre del 1926 fu approvato il piano regolatore in cui era prevista la copertura dei navigli, che avvenne nel 1929. Da quel momento la Darsena e il suo popolo si accontentarono di fare scorrere le acque e i suoi tumulti nel triangolo delimitato dal naviglio Grande e da quello Pavese. Triangolo urbano che rimaneva di basilare importanza sociale, perché il suo vertice era situato alle Colonne di San Lorenzo, a due passi da Piazza del Duomo, mentre le sue lunghe braccia navigabili raggiungevano le periferie dell'estremo hinterland a sud ovest, da Baggio a Rozzano. Un percorso diretto dall'inferno periferico al paradiso del salotto cittadino. I bombardamenti della Seconda guerra mondiale sfiorarono il Ticinese che, anche se sfiancato dal terribile Ventennio, trovò la forza per coniare l'intramontabile ritornello ribelle di «ciao, bella, ciao». La parola d'ordine con cui i partigiani si facevano riconoscere dalla Dosolina dei navigli, l'ex bifolca della Valtellina, ex puttana per amore, esperta in contrabbando prima e in seguito in smazzo d'armi per i Gap...
Nel dopoguerra in Darsena rimasero le chiatte che trasportavano ghiaia e sabbia per la ricostruzione. Nessuno toccò più il microclima del Ticinese, almeno fino al termine degli anni settanta in cui, proprio in questo triangolo di mappa milanese, si concentrò un numero di sedi politiche extraparlamentari senza paragoni. Quasi 40 tra collettivi, comitati, redazioni, librerie e cooperative. Ma sappiamo come sono andate le cose nel decennio successivo, il riflusso guidato dai craxiani portò troppi ex operai a cimentarsi come bottegai del divertimento nel futuro luna park notturno lombardo. A quei tempi anch'io abitavo alla base periferica del triangolo, siccome non c'erano i mezzi prendevo la bicicletta, scavallavo un paio di ponti sul naviglio e alla fine dei conti facevo veloce ad arrivare in Darsena. Ricordo che cominciai ad appassionarmi al quartiere non solo per la presenza della Libreria Calusca e degli anarchici di via Conchetta che si stavano trasferendo in via Torricelli, ma anche grazie ad alcuni amici di Corsico, altro paese alla base del triangolo, che tenevano viva la mitologica epoca dei furmagiatt con i taxisti inesperti. Cioè si facevano portare davanti a un portone sul naviglio Grande. «Vado su a prendere i soldi dalla mamma» dicevano all'autista, poi ripercorrendo gli stessi buchi dei contrabbandieri e carbonari si ritrovavano in pochi passi dall'altra parte, sul naviglio Pavese e se non bastava sul Corso San Gottardo o ancora più in là, sulla ormai lontana via Pietro Custodi. Nella primavera del 1988 anarchici, comunisti, punk, cyberpunk, tifosi del Milan, motociclisti, artistoidi e clochard residenti allargarono la vecchia sede libertaria di via Conchetta inglobando nell'occupazione l'adiacente ristorante abbandonato, dove qualche anno prima andava a cenare il vertice del partito socialista. Nacque così, con vista sulla chiusa della conchetta, lungo il naviglio Pavese, il centro sociale autogestito Cox 18. In Darsena non si faceva più niente se non la fiera di Senigallia ogni sabato, tuttavia intorno ai mille locali che stavano trasformando la tipica cultura del dialogo tra le diversità in semplice cultura del profitto, vennero effettuate diverse occupazioni di centri sociali e case sfitte. Via Gola, lo Squott, la casa delle donne di via Gorizia, via Lagrange, via Torricelli e più avanti l'Orso.
Ancora una volta i bifolchi s'erano ritagliati dello spazio e un po' di ossigeno in quartiere.
Gli anni zero del duemila hanno portato la grande siccità. Al posto di capire l'ineguagliabile e storico laboratorio umano che si annida in Ticinese, gli amministratori cittadini hanno deciso di costruire un bel parcheggione al posto della Darsena e distruggere così uno dei più significativi siti della genialità e dell'efficienza milanese. Ma dalle viscere della terra sono spuntati fuori importanti reperti archeologici, così i lavori si sono bloccati... Se vi capita di fare un giro da quelle parti noterete una grande area abbandonata, sporca e maleodorante come una fogna a cielo aperto. Rovi, ortiche e ammassi di terra zozza nascondono le mura del 1600 rinvenute durante gli scavi per il parcheggio. Un cantiere bloccato da anni che si sta trasformando in una discarica in pieno centro città. Uno schifo tremendo.
«La Darsena è ferma all'archeologia, mura spagnole e conca di Leonardo. Ultimi segni del tempo: topi e punkabbestia. Il cantiere dei box è bloccato da un anno e mezzo, Comune e impresa non sono d'accordo su soldi e piani dell'autosilo (due o tre?)». Così scriveva Armando Stella sulle pagine del Corsera il 4 luglio scorso. A cosa si riferiva il giornalista quando parlava di topi è abbastanza chiaro, ma cosa intendeva a proposito dei punkabbestia? Oltre allo sclerotico stile conformista della borghesia nostrana nel definire i bifolchi d'ogni d'epoca al pari dei sorci, il giornalista tentava, malgrado l'impostazione, di denunciare lo sfacelo in atto presentando così il degrado in cui è caduta l'area dell'ex Darsena. Se avesse parlato con quei punkabbestia, avrebbe capito che sono gli stessi che occupano e gestiscono l'Approdo Caronte, le porte dell'inferno... Uno spazio piccolissimo appoggiato su ciò che rimane degli antichi moli della Darsena, e che tra l'altro rappresenta l'unico ostacolo al tunnel dell'orrore sub-umano che potrebbe scatenarsi da un momento all'altro in quel comatoso cantiere posizionato esattamente nel centro della movida milanesotta.
L'Approdo Caronte nasce circa otto anni fa, ma non si tratta di un'occupazione vera e propria, piuttosto di una normale entrata in un minuscolo pertugio urbano dimenticato dal dio denaro. È il casotto degli attrezzi del porto che fu, dove si depositavano martelli, corde, vanghe, scope e secchi di vernice. Sono tre mura addossate all'argine sud della Darsena, quello sulla via Gorizia. Un casotto che racchiude una stanza di quattro metri per dieci, al massimo dodici... La strada, che poi è un ponte sull'imbocco del naviglio Grande, corre ben al disopra del suo tetto catramato, per raggiungerlo è necessario scendere una scala diroccata in pietra, oppure utilizzare quella di ferro a pioli che porta sul tetto piatto a da lì scavalcare il muro di cemento per accedere al marciapiede della carreggiata. All'interno c'è una pedana che fa da palco con due grandi casse acustiche ai lati. All'entrata una tavola in legno per il bar restringe la stanza. Da tre anni, un gruppo di giovani con attitudine punk organizza concerti di hardcore con band da tutta Europa, ma anche mostre, serate letterarie e feste quasi tutte le sere, l'ingresso è sempre gratuito e il bere, comprato al discount, costa un quarto di come lo vende qualsiasi altro locale limitrofo. Soprattutto durante il week end, il posto e tutto l'antico molo circostante si riempiono di gente ben diversa da quella che cammina sopra le loro teste lungo la patinata viale Gorizia. Sul ponte si aggirano i giovani belli, ricchi e professionalmente inseriti sfoggiando lo stirato look dello show-room più in del momento. Su dieci giovani solo uno è l'altolocato, gli altri nove s'atteggiano tali ma in realtà sono bifolchi. Spremuti come limoni acerbi dall'industria pubblicitaria e dal suo enorme indotto, guadagnano bene, ma sono totalmente inconsapevoli di ciò che gli accadrà dopo i 35 anni, quando quell'unico altolocato gli scoreggerà in faccia.
Sotto il ponte, all'Approdo Caronte, i reietti, gli emarginati, ma anche tutti coloro che non sopportano più questa moda dell'apparire ciò che non si potrà mai essere... Bifolchi orgogliosi di esserlo... Infatti quando li vado a trovare due di loro, un ragazzo e una ragazza sui vent'anni, mi accolgono con grande disponibilità e la prima cosa che mi dicono è la loro provenienza: Corsico, il paese al bordo del solito triangolo... Lui mi racconta che una volta frequentavano i centri sociali, quello di via Gola e l'Orso, ma poi li hanno sgomberati e comunque non si sentivano troppo bene, preferivano provare una loro strada... «Siamo aperti a qualsiasi proposta che chiunque ci viene a fare. Insieme alla gente dei centri sociali abbiamo fatto il murales per Dax qui di fianco, poi ce l'hanno cancellato, l'abbiamo rifatto e ricancellato... Adesso non ci mettiamo più storie così direttamente politiche così ci lasciano fare, tanto qui non ci scende mai nessuno, è un posto di merda, un cesso... Va... Va com'è messa 'sta fogna...» Mi fa segno giù dai bordi dei moli, dove una volta scorreva l'acqua della Darsena... «Adesso è meglio, perché la settimana scorsa con i nostri amici senegalesi l'abbiamo ripulita un po', altrimenti non ti puoi immaginare lo schifo... Noi organizziamo soprattutto concerti hardcore, ma anche quell'ambiente si sta montando la testa, parlano sempre di musica. Al Caronte dobbiamo affrontare un sacco di problemi, i problemi della strada, perché qui ci viene di tutto...» «Sì, non è facile» interviene lei... «Tante volte non riesci a far rimanere calma la gente... Siamo un po' la carta moschicida per ogni caso umano che non ci sta più dentro là sopra...» «E il rapporto con i migranti come lo vivete?» le chiedo. «Per fortuna che ci sono! Con loro andiamo d'accordo, figurati che quando cuciniamo il barbecue abbiamo abolito la carne di maiale, così ci sono un sacco di sere che mangiamo tutti insieme intorno al fuoco... Poi due mesi fa, laggiù, c'era la vecchia baracca in latta del cantiere che era diventata la tana per un casino di scoppiati. Un pomeriggio con i magrebini e i senegalesi lo abbiamo raso al suolo a picconate... Ora va un po' meglio...» «Devo dirti» continua lei «che non si sta poi così male, qui sotto... Siamo ai bordi della Darsena, è bellissimo! Sono dei matti se ci fanno veramente il parcheggio...»
Quando esco dal Caronte percorro il molo e salgo le scale diroccate. Prima di raggiungere via Gorizia alzo lo sguardo sull'enorme cartello pubblicitario, 20 per 15, piazzato in mezzo limite del cantiere. Da una parte, quella davanti che vedono tutti, è sempre occupata dalle grandi multinazionali dell'intrattenimento o della moda, ora c'è la pubblicità del concerto di Madonna. Dall'altra parte, quella alle spalle del cantiere che vedono solo i frequentatori del Caronte, il Comune di Milano si è sprecato. Ha attaccato una foto seppiata con la scritta: «La Darsena porto commerciale di Milano - com'era negli anni 60 e 70». Nella foto si vede il porto ancora in piena attività, con le chiatte e i serbatoi di metallo per la ghiaia addossati alla via D'Annunzio... Ora tutto è cambiato e fa ancora più tristezza vedere come si è ridotta la Darsena. Però qualcosa è rimasto intatto. In basso a sinistra della foto, noto che il casotto degli attrezzi è lo stesso, posizionato nello stesso identico posto. E' l'Approdo Caronte, l'unica cosa sopravvissuta a questa Milano da Expo.
Ps. Mentre rileggevo l'articolo mi ha telefonato la ragazza che avevo intervistato. «Stamattina abbiamo trovato un foglio che ci avverte che il nostro spazio sarà abbattuto...». «Ma è firmato dal Comune?». «No, sembra quello della ditta che fa i lavori...» Per topi, bifolchi e punkabbestia è inutile sprecare carta bollata... L'ordine è stato eseguito la mattina del 4 agosto, l'Approdo Caronte non è sopravvissuto alla Milano da Expo.
Foto di mellowiz [Hanging out to dry], con licenza Creative Commons da flickr
martedì, agosto 12, 2008
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