di Slavoj Žižek
da il manifesto - 15 luglio 2008
Ci sono momenti in cui siamo così imbarazzati dalle dichiarazioni pubbliche dei leader politici del nostro paese da vergognarci di essere loro connazionali. A me è successo leggendo come ha reagito il ministro degli esteri sloveno quando gli irlandesi hanno votato no al referendum sul Trattato di Lisbona: egli ha dichiarato apertamente che l'unificazione europea è troppo importante per essere lasciata alle persone (comuni) e ai loro referendum. L'élite guarda al futuro e la sa più lunga: se si dovesse seguire la maggioranza, non si otterrebbero mai le grandi trasformazioni, né si imporrebbero le vere visioni. Questa oscena dimostrazione di arroganza ha raggiunto l'apice con l'affermazione seguente: «Se avessimo dovuto aspettare, diciamo così, una iniziativa popolare di qualche tipo, probabilmente oggi francesi e tedeschi si guarderebbero ancora attraverso il mirino dei loro fucili». C'è una certa logica nel fatto che a dirlo sia stato un diplomatico di un piccolo paese: i leader delle grandi potenze non possono permettersi di esplicitare la cinica oscenità del ragionamento su cui poggiano le loro decisioni - solo voci ignorate di piccoli paesi possono farlo impunemente. Qual è stato, allora, il loro ragionamento in questo caso?
Il no irlandese ripete il no francese e quello olandese del 2005 al progetto della Costituzione europea. Esso è stato oggetto di molte interpretazioni, alcune delle quali anche in contraddizione tra loro: il no è stato un'esplosione dell'angusto nazionalismo europeo che teme la globalizzazione incarnata dagli Usa; dietro il no ci sono gli Usa, che temono la competizione dell'Europa unita e preferiscono avere rapporti unilaterali con partner deboli... Tuttavia queste letture ad hoc ignorano un punto più profondo: la ripetizione significa che non siamo di fronte a un fatto accidentale, ma con un'insoddisfazione perdurante negli anni.
Ora, a distanza di un paio di settimane, possiamo vedere dove sta il vero problema: molto più inquietante del no in sé è la reazione dell'élite politica europea. Questa non ha imparato niente dal no del 2005 - semplicemente, non le è arrivato il messaggio. A un meeting che si è tenuto a Bruxelles il 19 giugno i leader dell'Ue, dopo avere pronunciato parole di circostanza sul dovere di «rispettare» le decisioni degli elettori, hanno presto mostrato il loro vero volto, trattando il governo irlandese come un cattivo insegnante che non ha disciplinato ed educato bene i suoi alunni ritardati. Al governo irlandese è stata offerta una seconda chance: quattro mesi per correggere il suo errore e rimettere in riga l'elettorato.
Agli elettori irlandesi non era stata offerta una scelta simmetrica chiara, perché i termini stessi della scelta privilegiavano il sì: l'élite ha proposto loro una scelta che in effetti non era affatto tale - le persone sono state chiamate a ratificare l'inevitabile, il risultato di un expertise illuminato. I media e l'élite politica hanno presentato la scelta come una scelta tra conoscenza e ignoranza, tra expertise e ideologia, tra amministrazione post-politica e vecchie passioni politiche. Comunque, il fatto stesso che il no non fosse sostenuto da una visione politica alternativa coerente è la più forte condanna possibile dell'élite politica: un monumento alla sua incapacità di articolare, di tradurre i desideri e le insoddisfazioni delle persone in una visione politica.
Vale a dire, c'era in questo referendum qualcosa di perturbante: il suo esito era allo stesso tempo atteso e sorprendente - come se noi sapessimo cosa sarebbe successo, ma ciononostante non potessimo davvero credere che potesse succedere. Questa scissione riflette una scissione molto più pericolosa tra i votanti: la maggioranza (della minoranza che si è presa la briga di andare a votare) era contraria, sebbene tutti i partiti parlamentari (ad eccezione dello Sinn Fein) fossero schierati nettamente a favore del trattato. Lo stesso fenomeno si sta verificando in altri paesi, come nel vicino Regno Unito, dove, subito prima di vincere le ultime elezioni politiche, Tony Blair era stato prescelto da un'ampia maggioranza come la persona più odiata del Regno Unito. Questo gap tra la scelta politica esplicita dell'elettore e l'insoddisfazione dello stesso elettore dovrebbe far scattare il campanello d'allarme: la democrazia multipartitica non riesce a catturare lo stato d'animo profondo della popolazione, ossia si sta accumulando un vago risentimento che, in mancanza di una espressione democratica appropriata, può portare solo a scoppi oscuri e «irrazionali». Quando i referendum consegnano un messaggio che mina direttamente il messaggio delle elezioni, abbiamo un elettore diviso che sa molto bene (così egli pensa) che la politica di Tony Blair è l'unica ragionevole, ma nonostante ciò... non lo può soffrire.
La soluzione peggiore è liquidare questo dissenso come una semplice espressione della stupidità provinciale degli elettori comuni, che richiederebbero solo una migliore comunicazione e maggiori spiegazioni. E questo ci riporta all'improvvido ministro degli esteri sloveno. Non solo la sua dichiarazione è sbagliata fattualmente: i grandi conflitti franco-tedeschi non esplosero per le passioni delle persone ordinarie, ma furono decisi dalle élite, alle loro spalle. Essa sbaglia anche nel rappresentare il ruolo delle élite: in una democrazia, il loro ruolo non è solo governare, ma anche convincere la maggioranza della popolazione della giustezza di ciò che vanno facendo, permettendo alle persone di riconoscere nella politica di uno stato le loro aspirazioni più profonde alla giustizia, al benessere, ecc. La scommessa della democrazia è che, come disse Lincoln molto tempo fa, non si può ingannare tutti per sempre: sì, Hitler andò al potere democraticamente (anche se non proprio...), ma nel lungo periodo, nonostante tutte le oscillazioni e le confusioni, bisogna avere fiducia nella maggioranza. È questa scommessa a tenere viva la democrazia - se la facciamo cadere, non stiamo più parlando di democrazia.
Ed è qui che l'élite europea sta miseramente fallendo. Se essa fosse veramente pronta a «rispettare» la decisione degli elettori, dovrebbe accettare il messaggio della persistente sfiducia delle persone: il progetto dell'unità europea, il modo in cui esso è formulato attualmente, è viziato in modo sostanziale. Gli elettori stanno scoprendo la mancanza di una vera visione politica al di là della retorica - il loro messaggio non è anti-europeo, anzi, è una richiesta di più Europa. Il no irlandese è un invito a cominciare un dibattito propriamente politico su che tipo di Europa vogliamo veramente.
In età ormai avanzata, Freud rivolse la famosa domanda Was will das Weib? - Cosa vuole la donna? - ammettendo la sua perplessità di fronte all'enigma della sessualità femminile. Il pasticcio con la Costituzione europea non testimonia forse lo stesso smarrimento? Cosa vuole l'Europa? Che tipo di Europa vogliamo?
Foto di Sebastià Giralt [Mosaic del rapte d'Europa, Aquileia], con licenza Creative Commons da flickr
giovedì, luglio 17, 2008
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