mercoledì, luglio 02, 2008

La condizione post-coloniale

di Salvatore Cavaleri
da kom-pa

Viviamo in una post-epoca?
O forse sarebbe meglio dire che viviamo nell'epoca dei “post”?
Quesiti che nascono spontaneamente gettando lo sguardo agli innumerevoli appellativi che hanno definito la nostra condizione proprio a partire dall'oltrepassamento dell'epoca passata: post-moderno, post-industriale, post-fordista, post-storica, post-strutturalista, “dopo l'orgia”, “oltre il novecento”, ecc...
In ogni caso c'è sempre un “post” onnipresente, come a sottolineare rotture e continuità con un epoca precedente che non c'è più, ma dalla quale non ci siamo ancora del tutto emancipati [1].
Di questa lunga schiera di "post", quella che, almeno in Italia, ha ricevuto minore attenzione è sicuramente quella di “postcoloniale”.
Risulta preziosa allora la pubblicazione de La condizione postcoloniale di Sandro Mezzadra (Ombre corte, Verona 2008), contributo sicuramente originale per il suo indagare a fondo le questioni che questi studi hanno posto.

Quindi, post-coloniale: per comprendere a fondo la nostra epoca globalizzata non possiamo prescindere, non solo da una lettura storica del processo coloniale, ma anche e soprattutto del processo anti-coloniale di ribellione e resistenza che portò alla liberazione dei paesi colonizzati.

E' infatti con il colonialismo che il capitalismo diventa, già nella sua fase di accumulazione originaria, un sistema - mondo. Ed è con il processo inverso di decolonizzazione che il cerchio si chiude. Da qui in poi sarà impossibile cogliere lo spessore di un singolo avvenimento locale senza tenere conto dei legami globali in cui è inserito.

A partire da “I dannati della terra” di Fanon e “Orientalismo” di Said , fino ad arrivare ai più recenti Bhabha ad Appadurai, gli studi postcoloniali sono diventati punto di confronto imprescindibile, inizialmente in ambito storiografico, per poi essere utilizzati anche in antropologia, sociologia, economia, ecc.
Termini come identità, cultura, razzismo, comunità escono stravolti dalla fittissima elaborazione di scrittori che dell'esperienza di liberazione dalla colonizzazione sono stati protagonisti, narratori e interpreti.
Testi che hanno prodotto un vero e proprio terremoto all'interno del dibattito storico. Sia gli apologeti che i critici dell'età coloniale, infatti, hanno sempre descritto un processo storico lineare e unilaterale che andava dal centro (l'Europa) verso le periferie (le colonie). Non è così, la storia coloniale è stata anche storia anti-coloniale e i protagonisti di questa storia non sono stati solamente i colonizzatori, ma anche e soprattutto le rivolte dei popoli colonizzati.
Non si tratta semplicemente del recupero delle storie minori, ma di far emergere come quelle storie minori, “subalterne”, abbiano avuto un ruolo determinante anche nelle storie “maggiori”.
Con lo sguardo dei posteri oggi possiamo vedere, infatti, quanto la storia faccia brutti scherzi e segua percorsi tutt'altro che lineari. Per un bizzarro gioco dell'eterogenesi dei fini oggi risulta paradossalmente difficile trovare un inglese in India o un francese in Algeria, mentre sappiamo bene quanto rilevanti siano le comunità indiane in Inghilterra e algerine in Francia.
Allora chi ha colonizzato chi?

Mettere in discussione la linearità del tempo storico ha così permesso, inoltre, di far emergere anche la non linearità del presente.
E questo è il secondo contributo degli studi postcoloniali: anche la globalizzazione non è un processo lineare di omologazione. Il globale non fagocita il locale. Piuttosto viviamo tutti in “dimensionali multiple”, in cui ognuno di noi attraversa più tempi e più spazi.
Se nei secoli passati furono solo i colonizzatori a sincronizzare i propri orologi su più fusi orari, oggi è esperienza diffusa: dai migranti che vivono il doppio tempo del paese di approdo e di quello di origine, ai manager dell'alta finanza che aspettano le aperture di tutte le borse del mondo, fino ai fans dei telefilm americani che si sincronizzano con la programmazione dell'Abc e non con quella di Rai2.
Il legame con il territorio del resto, oggi non rimanda più a qualcosa di “originario” o arcaico, non rimanda più cioè ad un dato di natura, quanto piuttosto ha a che fare con l'immaginario, con la capacità dell'immaginazione di inventarsi storie e reinvetare comunità. (cfr. La diaspora interculturale di G. Burgio)

La pubblicazione de “La condizione post-coloniale” è importante perché si inserisce in questi dibattiti, ma con l'esplicita volontà di far emergere il segno di questi processi.
Mazzadra tratta sì della trasformazione della dimensione spaziale e temporale nella nostra epoca, dei fattori culturali e identitari, ma, ci tiene a sottolinearlo sin dalla prima riga, ciò che è realmente in questione nel suo libro è il capitalismo contemporaneo.
Non a caso liet motiv è quello di far emergere come il dibattito postcoloniale fornisca elementi di critica che si intrecciano strettamente con il filone Operaista italiano, soprattutto agli sviluppi successivi “al processo di globalizzazione dell'eredità teorica dell'operaismo italiano seguito alla pubblicazione di Impero”.
Il legame tracciato non è per nulla forzato, ci basti sottolineare come questi due filoni di analisi, tanto l'operaismo quanto gli studi postcoloniali, tra i pochi a fornire realmente elementi per comprendere lo stato del capitalismo attuale, abbiano in comune: la capacità di comprendere la natura conflittuale dei processi, il mettere in discussione la linearità dello sviluppo storico, il sottolineare sempre il ruolo produttivo e creativo dei subalterni (o delle moltitudini), il pensare la globalizzazione smontando le dicotomie dentro-fuori e centro-periferia, l'importanza assegnata ai processi cognitivi e quindi il sempre più stretto legame tracciato tra produzione ed immaginazione. Non smettendo mai di sottolineare che il capitalismo si fonda innanzitutto su una logica di sfruttamento e di dominio.

Mezzadra cioè, più che al postcolonialismo, è interessato alla condizione postcoloniale, condizione in cui tutti siamo immersi. L'importanza di questo libro sta allora certamente nel contributo che da alla comprensione dei processi storici, ma anche e soprattutto è un libro utile per cogliere le potenzialità attuali dei conflitti e l'emergere di nuovi soggetti molteplici.
“In questione non è soltanto che studiando gli slum di Calcutta si possa imparare qualcosa di essenziale per comprendere quel che accade nelle banlies di Parigi, ma anche come i piqueteros argentini possano avere molto da insegnare ai collettivi di precari che agiscono nelle metropoli europee” (pag.13).

[1] In realtà questi termini descrivono una fase di transizione che in molti iniziano a ritenere conclusa. Sono emerse, infatti, negli ultimi dieci anni, definizioni che descrivono la nostra epoca di per sé, senza rifermenti diretti all'epoca precedente. Basti pensare a termini come globalizzazione, mondializzazione o Impero.
Nell'ultimo numero della rivista Posse, Negri a proposito afferma: "Avevamo tuttavia una convinzione, alla fine dei dieci anni di lavoro su Empire e Multitude – una percezione ormai matura – e cioè che la contemporaneità si fosse ridefinita, che fosse terminato il tempo nel quale la determinazione del presente potesse darsi sotto la sigla del post-."
http://www.posseweb.net/spip.php?article95

Foto di Darwin Bell [post modern wall], con licenza Creative Commons da flickr

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