venerdì, dicembre 22, 2006
martedì, dicembre 19, 2006
La volontà del sapere.
Il lavoro è il primo in cui Foucault si occupa della sessualità ed è oggi alquanto attuale, quindi di seguito ho postato due degli articoli di Queer, il primo scritto da Andrea Russo ed il secondo da Anna Simone.
Buona lettura
ACT UP: PER UN'IDENTITA' QUEER.
Il professore di letteratura inglese e queer theory dell’università del Michigan, David Halperin, nel 1990 ha condotto un’inchiesta sull’organizzazione Act Up-New York (Aids Coalition To Unleash Power).
Una delle domande del questionario distribuito tra gli attivisti recitava: “Qual è la principale fonte d’ispirazione intellettuale per coloro che lottano contro l’epidemia di Hiv/Aids?”
I più predisposti alla riflessione teorica hanno risposto: La volontà di sapere di Michel Foucault.
Perché gli attivisti di Act Up consigliano di leggere La volontà di sapere a coloro che s’impegnano in una pratica politica queer?
Cosa hanno visto, in questo libro, che gli intellettuali della sinistra storica non hanno percepito; e perché? Si può immaginare un evento più dirompente dell’epidemia di Hiv/Aids, per dimostrare l’utilità di concettualizzare la sessualità, alla maniera di Foucault, come punto di passaggio - particolarmente denso - per le relazioni di potere?
Infine, l’epidemia non ha attirato, per la prima volta, l’attenzione dell’opinione pubblica sulla modalità di funzionamento del biopotere, che il filosofo francese ha definito nei termini di “amministrazione dei corpi” e “gestione calcolatrice della vita”?
Ne La volontà di sapere (1976), Foucault, per studiare la sessualità, ha utilizzato lo stesso metodo usato per studiare la follia: non l’ha trattata come una realtà oggettiva e naturale.
La sessualità, piuttosto, è lo strumento necessario e l’effetto particolare di un insieme di strategie discorsive e politiche. La scelta di scrivere la storia della sessualità, dal punto di vista di una storia dei discorsi, gli ha consentito sia di denaturalizzare, sia di politicizzare la sessualità.
La fecondità politica di questo metodo non poteva sfuggire a tutte quelle persone sieropositive che, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, sono stati gli oggetti, piuttosto che i soggetti, dei discorsi d’expertise scientifica (medicina clinica, industria farmaceutica, ricercatori, operatori dei media).
Il principio fondamentale della tattica di Act Up e, in generale, dei “movimenti delle minoranze” (come ha ben sottolineato Halperin in Saint Foucault – Towards a Gay Hagiography - 1995), consiste nel rovesciamento delle posizioni tra soggetto e oggetto della conoscenza, assegnati dai dispositivi di potere-sapere ai dominanti e ai dominati.
Coloro che sono stati classificati come pazzi, delinquenti o perversi sessuali, attraverso forme specifiche di conoscenza - come la medicina clinica, la psichiatria o la criminologia - hanno subito una squalificazione e una inferiorizzazione delle loro esperienze.
Sulla base di questa inferiorizzazione fisico-epistemologica, il potere ha operato incessantemente una separazione tra il pazzo e l’uomo normale, il delinquente e il buon cittadino, l’eterosessuale e l’omosessuale. All’interno di questa relazione gerarchica, l’anormale è stato privato del suo diritto di parola, ridotto al silenzio, relegato allo statuto d’oggetto senza voce del discorso scientifico.
La storia delle lotte delle minoranze è quella di una lunga battaglia per rovesciare la tirannia del discorso scientifico e i suoi effetti di esclusione, discriminazione e assoggettamento.
Ciò ha significato far passare la normalità, la razionalità, l’eterosessualità, dalla posizione di soggetto universale del discorso a una posizione di oggetto d’interrogazione e critica.
Gli attivisti di Act up - riuscendo a confiscare il potere della parola all’esperto scientifico di turno - hanno ripetuto al mondo: i veri esperti siamo noi, perché il discorso scientifico non rende conto della complessità delle nostre esperienze.
Per Foucault, tuttavia, la tattica del rovesciamento discorsivo può nascondere una trappola naturalistica ed essenzialistica: il capovolgimento della posizione discorsiva tra omosessualità
ed eterosessualità, per esempio, ha condotto il movimento gay a bloccare l’omosessualità in confini identitari. In altri termini: nonostante si sia riuscito a dimostrare che l’omosessualità è una proiezione fantasmatica, la cui funzione principale è d’incarnare negativamente tutto ciò che è altro o differente dall’eterosessualità, il movimento non è riuscito a dedurre tutti gli effetti positivi
derivanti dalla possibilità di assumere un’identità fluida, che si definisce non per ciò che essa è,
ma per dove è, e per come funziona. Foucault ha più volte sottolineato l’importanza politica del
rovesciamento discorsivo prodotto nel XIX secolo dal movimento omosessuale.
E non ha mai sostenuto l’idea (odiosa) che il discorso en retour è identico al discorso che si vorrebbe rovesciare.
Il movimento nel XX secolo, invece d’insistere sull’identità (homo) sessuale, che si costituisce in relazione alla distanza e alla differenza dalla norma eterosessuale, ha investito sulla riterritorializzazione dell’identità gay: è in questo che Foucault individua il problema.
Piuttosto che la liberazione del sesso e delle identità sessuali, egli propone una liberazione dal sesso (un po’ come gli operaisti italiani, nello stesso periodo, in modo più ampio, affermavano che comunismo non significa liberazione del lavoro, ma innanzitutto e per lo più liberazione dal lavoro).
I prerequisiti foucaultiani che alludono alla possibilità di una politica queer sono quindi il rovesciamento discorsivo, la capacità di definire l’identità (homo)sessuale in maniera oppositiva e relazionale, e non necessariamente in termini di realtà stabile.
La politica queer non si definisce come lotta per liberare una natura preesistente e repressa, ma come processo continuo di costituzione e trasformazione di sé: designa tutto ciò che è in disaccordo con il normale, il dominante, il legittimo.
Essa assume il suo significato in relazione all’opposizione alla norma.
La politica queer non è riservata esclusivamente ai gay e alle lesbiche, ma accessibile a tutti coloro che si sentono inferiorizzati e marginalizzati a causa delle proprie pratiche sessuali e dei propri stili di vita.
Il BIO-POTERE DI RESISTERE.
Un trentennio mai finito. “La volontà di sapere” alla prova del presente.
Esattamente trent’anni fa, nel 1976, usciva per Gallimard in Francia “La volontà di sapere” di Michel Foucault. Il libro, scritto inizialmente per un progetto più complessivo che nel corso degli anni avrebbe mutato segno più volte diventò, nell’arco di un decennio, il primo volume di una trilogia di opere conosciuta come la “Storia della sessualità”. Il secondo e il terzo volume, infatti, “L’uso dei piaceri” e “La cura di sé” apparvero quasi in traduzioni simultanee nel 1984.
Gli ultimi due volumi sarebbero diventati in Italia classici da “Universale economica Feltrinelli” nel 1991, “La volontà di sapere” nel 1988. Da allora non si è mai smesso di comprarli e di citarli a tutto tondo e in una molteplicità di ambiti tale da rendere improbabile qualsivoglia progetto di codificazione disciplinare.
Tra i tre volumi, tuttavia, soprattutto “La volontà di sapere” può essere considerato come un classico mai divenuto classico, un’inattuale sempre attuale nel senso nicciano del termine. Una sorta di libro-bomba mai del tutto esploso che aspetta ancora di rompere l’ipocrisia dei mille fragili equilibri messi a punto dalle politiche di gestione, controllo ed intervento sui corpi incarnati e vivi attraverso i cosiddetti bio-poteri del presente, come d’altro canto dimostrano alcuni tra i testi ospitati in queste pagine. Anzi, sarebbe ancor meglio dire che attraverso le pagine di questo libro abbiamo definitivamente appreso quanto l’analitica dei saperi-poteri strutturatisi tra il XVIII ed il XIX secolo nel filantropismo, nella medicina e nei processi coatti di medicalizzazione, nella psichiatria, nella giustizia penale, nella pedagogia sino ad arrivare alle cosiddette scienze dello spirito – dalla sessuologia a certa psicanalisi individualizzante e borghese - agisca direttamente nei corpi e attraverso essi producendo all’infinito soggettività assoggettate a questo o a quest’altro potere, a questo o a quest’altro processo di normalizzazione.
Perché, per dirlo con le parole di Foucault “il potere non è qualcosa che si acquista, si strappa o si condivide, qualcosa che si conserva o che si lascia sfuggire; il potere si esercita a partire da innumerevoli punti e nel gioco di relazioni disuguali e mobili”. Il potere, in sintesi, interseca e attraversa tutto e tutti/e, non si esercita secondo opposizioni binarie tra dominati e dominanti, non costruisce divieti e proibizioni dall’alto ma, al contrario, si dà attraverso relazioni direttamente produttive che agiscono nella profondità del corpo individuale e sociale per renderlo docile e accomodante a partire dalle condotte normalizzatrici della famiglia, dei gruppi ristretti, delle istituzioni disciplinari. Già queste affermazioni possono servirci a fugare qualsiasi dubbio sul valore banalmente ritualistico e celebrativo di un inserto monografico.
Qui non celebriamo Foucault per costruirgli un mausoleo post-moderno e simulacrale, per salvarci le buone maniere della coscienza critica riconducendolo alla tomba o solo per registrare l’importanza dirompente che “La volontà di sapere” ha avuto rispetto alle scienze sociali e umane in tutte le Università del mondo. Semmai siamo qui a dire che continuare a citare gli articoli della Costituzione italiana che “si basa sulla famiglia” dinanzi ad omosessuali, donne single, transessuali, transgender è quanto di più inattuale e mistificante; che pensare un’esistenza fatta di lavoro infrasettimanale e di sesso al sabato sera tra le protette pareti domestiche è quanto di più irreale si possa pensare della condizione umana e dei rapporti di produzione del sistema capitalistico contemporaneo. Non è un caso, infatti, che siamo qui a parlare del trentennale di un testo che Foucault ha costruito a partire da due domande: perché il sesso e la sessualità sono diventati da un certo momento in poi un “oggetto del sapere”? Siamo certi che la sessualità sia inversamente proporzionale ad un ordine di divieti che reprime gli istinti?
Le risposte alle due domande si intersecano nella “Volontà di sapere” attraverso una ricostruzione di micro-genesi storiche “disperse e mutevoli” che arrivano sostanzialmente a sostenere la tesi secondo cui non è vero che di sesso non si è parlato mai dal Medio Evo sino al XIX secolo al punto tale da sostenere la “tesi repressiva” basata sul binomio divieto/trasgressione (così come paventato dal Marcuse di Eros e civiltà e dell’Uomo a una dimensione). Tutt’altro. Foucault ci dice che già dal Medio Evo esisteva un discorso sulla voluttà della carne codificatosi con la pastorale cristiana attraverso l’uso della confessione. Questa pratica discorsiva unitaria che presentava la sessualità come un “enigma inquietante” si sarebbe poi, nel corso dei secoli, “scomposta, dispersa, moltiplicata in un’esplosione di discorsività distinte che hanno preso forma all’interno della demografia, della biologia, della medicina, della psichiatria, della psicologia, della morale, della pedagogia, della critica politica”.
Di qui la nascita di una serie di dispositivi atti a “gestire” e non a “reprimere” la sessualità: il lavoro, i codici regolamentativi della sessualità come il matrimonio, la norma eterosessuale, i primi controlli sulle “sessualità solitarie” dei bambini, l’adulterio, l’ “incorporazione delle perversioni” (tra cui compariva anche l’omosessualità) nelle scienze medico-psichiatriche, sino al XIX secolo e alla nascita di una biologia della produzione, di una medicina del sesso. Se la sessualità fosse stata un tabù, se non se ne fosse parlato così tanto si sarebbe costruito tutto questo apparato di normalizzazione e gestione dei piaceri? Sicuramente no. Se ne è parlato talmente tanto da costruire molteplici “ordini del discorso” funzionali ai meccanismi di potere e alle sue istituzioni di controllo. Ordini discorsivi tesi all’assoggettamento e a tradurre l’ars erotica in scientia sexualis. Nell’arte erotica, infatti, la verità dei corpi non era mai un effetto di un dispositivo ma “veniva estratta dal piacere stesso”, da un’esperienza che “non era in relazione ad una legge del lecito e del proibito”.
Una geografia dei piaceri, insomma, irriducibile al desiderio istintuale e naturalistico posto in essere per trasgredire la norma. Un piacere che ha una sua qualità specifica, una sua durata, una sua intensità che travalica tutti i confini delle opposizioni binarie corpo/anima, carne/spirito, stinto/ragione, pulsioni/coscienza le quali, invece, “sembrano ridurre il sesso ad una pura meccanica senza ragione”. Ma “La volontà di sapere” non è solo un tentativo di decodifica dei processi di gestione e normalizzazione della sessualità. E’ molto di più. E’ anche il testo “fondativo” di ciò che oggi chiamiamo “biopolitica” e cioè il passaggio consumatosi dallo Stato sovrano ai processi di “governo del vivente e del sociale”, del passaggio dal “vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere” al “potere di far vivere o di respingere nella morte”.
Trent’anni sono sufficienti per passare dai processi di regolamentazione dei singoli corpi e della popolazione attraverso la costruzione di codificazioni giuridiche alla regolamentazione dei
singoli corpi e della popolazione attraverso i dispositivi di sicurezza? La risposta è ovviamente affermativa ma, come ci ha insegnato Foucault, laddove c’è potere c’è sempre resistenza. Dal
potere e dagli ordini gerarchici non si esce ma i nostri corpi singolari e collettivi devono e possono ancora resistere.
venerdì, dicembre 15, 2006
Passato che non vuol passare, futuro che non vuole aspettare.
Homi Bhabha è direttore dello Humanities Center dell'università di Harvard, è una figura importante degli studi post-coloniali e, più in generale, degli studi culturali. Nato a Bombay nel 1949 da famiglia Parsi, ha studiato nella sua città e poi a Londra, Princeton, Chicago forgiando un'identità cosmopolita e che lo pone direttamente in confronto con i temi posti dagli studi post-coloniali.
Nei suoi lavori non si risparmiano critiche al multiculturalismo liberale ed a proposito nell'intervista dice:
Nell'accezione liberale prevalente il multiculturalismo si risolve in un pluralismo delle identità, che riproduce e alimenta senza alcuna consapevolezza filosofica la fissazione identitaria, e riproduce la logica uno-molti propria di tutta la tradizione occidentale. In sostanza, il multiculturalismo tratta le culture come fossero tanti stati sovrani. Il fatto è che invece la globalizzazione frantuma la logica dell'identità e quella, connessa, della sovranità. E nella globalizzazione non ci sono culture che si muovono compattamente l'una contro l'altra: ci sono legami e alleanze che si stringono trasversalmente su singole questioni, economiche, o di giustizia, o di voice. Quello che è all'opera nelle dinamiche globali non è un dispositivo di identità, ma di parzialità e ambivalenza, che dispiega una complessità che il multiculturalismo pluralista liberale non sa leggere.
Rispetto al nostro presente ed alla politica in questo tempo la sua opinione conferma all'intervistatrice (Ida Domijani) che la politica dominante è la politica della morte, che rappresenta però allo stesso tempo il rovescio della medaglia della politica della vita:
Una politica che è la negazione della politica. Io penso, con Hannah Arendt , che la politica sia costruzione della polis, llegame, interlocuzione, in-between, scommessa sulla nascita. Se la morte diventa moneta corrente della politica, che a batterla sia lo stato o una rete terrorista, si ribaltano le basi e il senso della politica. Se al tavolo della politica lo stato o attori non statali giocano al rialzo con le fish della morte, si entra nell'età del terrore e dell'errore, in cui il potere per un verso produce e alimenta il senso del pericolo, per l'altro rischia continuamente la fallacia nell'uso delle informazioni. Una situazione storicamente e moralmente molto compromessa, in cui collassano trasparenza e responsabilità.
tanatopolitica e biopolitica vanno assieme, diceva Derrida... e anche, e diversamente, Foucault: il passaggio dal potere di dare la morte e lasciar vivere al potere di far vivere e lasciare morire, che segna l'era biopolitica, lascia intatto un nocciolo di morte, una killing zone fatta di razzismo e esclusione. E' bene però individuare il salto e la specificità di ciò che accade oggi, sotto questo cosiddetto «scontro di civiltà» che rende molto cheap il valore della vita. Nell'Ottocento, la domanda del mondo ricco ai paesi poveri era: siete in grado di intraprendere la strada del progresso? Durante la guerra fredda la domanda delle democrazie occidentali al resto del mondo era: siete in grado di mettere l'individuo al di sopra della comunità? Oggi la domanda che governa il conflitto globale è se la cultura dell'altro gioca con la politica della morte, se la tollera, se la vuole: «la tua cultura vuole uccidermi?». E' quello che chiamo complesso securitario.
Nell'intervista poi emergono altre due passaggi fondamentali nel pensiero di Bhabha, innanzitutto l'invito a ripensare la globalizzazione non solo nel tempo presente e futuro ma anche come un processo che riguarda il passato, fino ad arrivare al tentativo di definire in maniera nuova il tempo globale come segue:
Il tempo globale è un tempo complesso e disgiunto, che tento di rappresentare con questa formula: un passato che rifiuta di passare, un futuro che rifiuta di aspettare. Sia il passato sia il futuro esercitano dunque una pressione sul presente e sulla nostra posizione etica nel presente. Agire eticamente richiede per un verso di scrivere la storia mai scritta del mondo globale, per l'altro di collocarsi nel futuro chiedendosi «come avrei dovuto agire oggi sapendo ciò che saprò domani». Credo che questo rapporto fra passato e futuro restituisca la temporalità della globalizzazione più di quella che David Harvey chiama «compressione spaziotemporale». Dobbiamo vedere lo spazio globale come uno spazio in transizione, intendendo la transizione come una prospettiva sul presente.
La seconda ed ultima questione affrontata nell'intervista e che vorrei qui riportare riguarda l'uso da parte di Bhabha di concetti presi "a prestito" dalla psicanalisi, quali ad esempio il concetto di ambivalenza che nel suo discorso va a sostituire il concetto hegelo-marxiano di contraddizione:
L'ambivalenza modifica il lessico politico in un luogo centrale, tradizionalmente occupato dalla categoria di contraddizione, che nello schema hegelo-marxiano si risolve sempre in una sintesi. Nell'ambivalenza invece non c'è sintesi, c'è solo il lavoro continuo dell'elaborazione e dell'interpretazione, in senso psicoanalitico. Questa svolta concettuale ha molto a che fare con il modo di pensare l'identità, la parzialità, le differenze, il multiculturalismo.
Per finire alcuni riferimenti: l'intervista completa a Homi Bhabha si trova su MaterialeResistente.
Altre info si possono consultare su Wikipedia, oppure sul sito dello Humanities Center dell'università di Harvard di cui è direttore.
In Italia ha pubblicato: I luoghi della cultura (Meltemi, 2001) e (a cura di) Nazione e narrazione, (Meltemi, 1997). Sul sito della casa editrice Meltemi interviste ed altro materiale.
YouTube finisce nella blacklist del governo iraniano.
Martedì scorso il popolare sito web di video sharing YouTube è stato bloccato, e gli utenti che provavano ad aprirlo visualizzavano il seguente messaggio: “On the basis of the Islamic Republic of Iran laws access to this Web site is not authorized”.
Un messaggio simile appare anche per tutti i siti web pornografici e dell'opposizione bloccati dal governo.
Paradossalmente Google Video risulta ancora in funzione.
E' difficile dire da quanto tempo You Tube sia sulla blacklist del governo Iraniano, ma secondo Reporters Without Borders è stato bloccato da almeno 9 giorni. Essi hanno commentato l'episodio dicendo che: “adesso la censura è la regola piuttosto che l'eccezione”.
La ragione per la quale il governo iraniano ha deciso di bloccare il sito web non è stata rilasciata ufficialmente, ma secondo alcuni giornalisti il divieto è la risposta ad un recente video online in cui viene mostrato una famosa attrice di soap opera che si lascia andare a “comportamenti indecenti” con il suo ex-fidanzato.
Da un altro punto di vista, secondo un gruppo di attivisti per la lotta sui diritti dei media, questa decisione sarebbe dovuta ad una serie di video postati su YouTube dai Mujahedeen-e-Khalq ed altri gruppi Iraniani di opposizione , compresi altri video postati da alcuni singoli iraniani critici contro il regime.
Secondo l'opinione di diversi giornalisti che lavorano in quella regione, questo dimostra come l' Iran stia provando a creare delle barriere digitali per bloccare qualsiasi notizia e tendenza culturale proveniente dall'estero. In particolare, il governo iraniano sta provando a portare avanti una sorta di campagna per proteggere il paese dall'influenza di musica, film e immagini provenienti dall'occidente. Tuttavia i siti web occidentali di informazione sono generalmente disponibili, mentre i blog e le pagine web locali contenenti messaggi “non autorizzati” sono regolarmente bloccati.
Come al solito il problema reale non è il disagio che potrebbe essere provocato dall'impossibilità di accedere ad alcuni siti web, dato che molti utenti internet sanno come ottenere accesso alle pagine web non autorizzate attraverso una serie di strumenti gratuiti disponibili sulla Rete.
Il problema reale riguarda il fatto che qualsiasi forma di espressione minimamente in contrasto con la visione del Governo è immediatamente bloccata, ed i “trasgressori” perseguiti.
Non solo Internet è sottoposta a censura, infatti: sia sotto la presidenza Kahatami che del suo successore Ahmadinejad, molte riviste e giornali sono stati chiusi, e solo pochi di loro esistono ancora, e qualsiasi critica contro il Governo è auto-censurata per timore delle conseguenze.
L' Iran ha circa 7.5 milioni di utenti Internet, il più alto numeri di utenti del web in Medio Oriente dopo l' Israele. Il paese ha anche più di 100000 blogger, alcuni dei quali si sostituiscono alla stampa riformista iraniana soppressa.
Greenpeace in action.
La centrale di Porto Tolle, secondo il progetto dell'Enel attualmente in fase di autorizzazione, dovrebbe essere convertita a carbone per una potenza di 1.980 Megawatt e con un'emissione di CO2 di oltre 10 milioni di tonnellate l'anno.
L'impianto sorge peraltro in un parco naturale definito patrimonio dell'Umanità dall'Unesco. I delta dei grandi fiumi sono ambienti che godono di particolare protezione in tutto il mondo: in Italia, invece, l'area vede la presenza di questa vecchia centrale a olio combustibile, pesante fonte di inquinamento, tanto che a marzo scorso è arrivata una condanna per i top manager dell'Enel.
"La scomoda verità è che il ritorno al carbone non ci farà raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra", dichiara Giuseppe Onufrio direttore delle campagne di Greenpeace. "L'accordo tra il Ministero dello Sviluppo Economico e quello dell'Ambiente prevede un tetto alle emissioni eccessivo rispetto alle linee guida europee: 209 milioni di tonnellate in totale al posto di 186. Non c'e posto per la centrale di Civitavecchia, tanto meno per quella di Porto Tolle. La Commissione Europea deve tagliare la proposta di Piano Nazionale di Allocazione dell'Italia".
Oggi il carbone copre il 17 per cento della produzione elettrica nazionale ed è responsabile dell'emissione di oltre 40 milioni di tonnellate di CO2. Con i progetti di espansione di Enel, Endesa, Tirreno Power e altri, queste emissioni sono destinate a raddoppiare. Il carbone è il combustibile con le più alte emissioni specifiche di CO2, oltre il doppio del gas naturale.
"Il programma politico dell'Unione indica obiettivi per lo sviluppo di fonti rinnovabili e per l'efficienza energetica, ma al momento nell'azione di Governo non c'è traccia di tutto questo. Chiediamo che vengano fissati obiettivi vincolanti e coerenti con gli impegni assunti in campo internazionale" conclude Francesco Tedesco, responsabile della Campagna Clima e Energia di Greenpeace.
da www.greenpeace.org
Il progresso dei lumi del '700...
M. Foucault
mercoledì, dicembre 13, 2006
SkizoBlogger
Beh, immagino che una delle possibili reazioni sia quella di pensare che sono impazzito, mentre proclamo la crisi del blog mi premuro di dargli una veste grafica più bella e "graffiante".
Allora scrivo questo post, per dichiararmi simpaticamente uno skizoblogger.
martedì, dicembre 12, 2006
Bloggare stanca.
Sono una decina di giorni che il blog non viene aggiornato, un tempo che i frequentatori avranno notato essere la mia assenza più prolungata (a parte le vacanze estive).
Questo messaggio ha come primo scopo quello di segnalare che finoaquituttobene sta vivendo un momento di crisi che, essendo questo blog un prodotto individuale, dipende da una serie di mie perplessità e da una certa stanca.
In effetti devo dire che bloggare stanca, probabilmente stanca di più o di meno sulla base delle motivazione che aveva spinto il/i bloggers a dar forma al proprio progetto. Nel mio caso tutto è partito come una sperimentazione del media, poi ho navigato a vista cercando di interpretare i segni che sulla mia rotta ho incontrato per rettificarla di volta in volta. Ma i segni che ho via via incontrato - che magari sono poi solo quelli a cui io ho dato importanza - hanno posto una serie di questioni che probabilmente possono essere dischiuse solo con un progetto più finalizzato e che eviti la dispersione eccessiva.
I blog sono in effetti in questo momento uno degli esempi più vivi della messa in circolazione di informazioni e conoscenza, fino ad oggi uno dei migliori strumenti che ha permesso di discutere e fare critica in maniera del tutto non verticistica, permettendo di sperimentare una comunicazione orizzontale e autonoma. Ma allo stesso tempo sono emersi anche quelli che io percepisco come limiti di un blog - probabilmente dei new media in genere - e che dipendono in primo luogo dalla partecipazione e fruizione passiva dei contenuti da parte dei visitatori, con la conseguenza che da una comunicazione autonoma e orizzontale si passa - se vogliamo - ad un'informazione critica e libera, cosa che dal mio punto di vista è una regressione critica rispetto alla strada indicata negli anni '90 dal mediattivismo e prima dalla cultura hacking.
Non voglio qui ripetere la caduta in cui incappai in una precedente riflessione su finoaquituttobene in cui "bacchettavo" i visitatori del blog, un pò anche in maniera lamentosa sulla mancata partecipazione attiva; qualcuno allora mi tirò un secchio d'acqua ghiacciata in faccia che mi fece riprendere - e sono ancora desto - dalla sbornia della comunicazione facile in Rete, così che ora ci tengo a dire che esiste un problema in finoaquituttobene perché io sono in difficoltà, perché la mancanza di un feedback negativo mi intimorisce e rende difficile l'interpretazione dei segnali che si presentano o che si dovrebbero cogliere.
Tutto ciò rende il mio "fare" sul blog faticoso, in primo luogo poiché non vorrei che questo venisse interpretato - oltre alla misura implicita in cui lo è finoaquituttobene ed ogni blog - come una specie di egosurfing, un esercizio individualista di edonismo cool, perché l'attenzione che il blog non si riducesse a questo è la sola cosa di cui sono certo fin dall'inizio di questa avventura.
Finisco questa riflessione con una citazione da Goodbye Mr. Socialism, libro-intervista di Raf Valvola Scelsi a Toni Negri in cui a proposito dei blog questo ultimo dice cose che sento di condividere di testa, di cuore e di pancia.
Per esempio, cosa significa attraversare un blog? C'è dentro la vita ma anche esibizionismo, il perdersi nelle cose... I blog sono anche una dispersione terribile e manifestano appieno l'aspetto folle di questo momento informatico, la quantità e lo spreco... Qualche volta invece di essere un grande mare, la Rete diventa una palude, dove è forte l'impressione di fatica... Implosione? Non credo. E tuttavia ci sarebbe davvero da dare alla comunicazione e ai processi di costruzione di senso in Rete un'emergenza corporea, che non significhi solo produrre immagini. Al contempo, non si può sottovalutare l'emersione in Rete, ormai su un piano di massa e generale, di forme di socialità che assumono toni affettivi importanti, lucidi, in cui c'è scambio, felicità della scoperta di relazioni nuove e sorprendenti, e al contempo di conoscenza. Il tutto in una dinamica sociale che ha sempre più i toni dell'orizzontalità comunicativa, in una dimensione quasi plasmatica che ricalca talvolta in positivo le relazioni sociali.