martedì, dicembre 19, 2006

La volontà del sapere.

Domenica 10 dicembre sul supplemento Queer di Liberazione sono usciti diversi articoli sul lavoro di Foucault La volontà del sapere che venne scritto nel 1976, dunque trenta anni fa esatti.

Il lavoro è il primo in cui Foucault si occupa della sessualità ed è oggi alquanto attuale, quindi di seguito ho postato due degli articoli di Queer, il primo scritto da Andrea Russo ed il secondo da Anna Simone.

Buona lettura


ACT UP: PER UN'IDENTITA' QUEER.


Il professore di letteratura inglese e queer theory dell’università del Michigan, David Halperin, nel 1990 ha condotto un’inchiesta sull’organizzazione Act Up-New York (Aids Coalition To Unleash Power).
Una delle domande del questionario distribuito tra gli attivisti recitava: “Qual è la principale fonte d’ispirazione intellettuale per coloro che lottano contro l’epidemia di Hiv/Aids?”
I più predisposti alla riflessione teorica hanno risposto: La volontà di sapere di Michel Foucault.
Perché gli attivisti di Act Up consigliano di leggere La volontà di sapere a coloro che s’impegnano in una pratica politica queer?
Cosa hanno visto, in questo libro, che gli intellettuali della sinistra storica non hanno percepito; e perché? Si può immaginare un evento più dirompente dell’epidemia di Hiv/Aids, per dimostrare l’utilità di concettualizzare la sessualità, alla maniera di Foucault, come punto di passaggio - particolarmente denso - per le relazioni di potere?
Infine, l’epidemia non ha attirato, per la prima volta, l’attenzione dell’opinione pubblica sulla modalità di funzionamento del biopotere, che il filosofo francese ha definito nei termini di “amministrazione dei corpi” e “gestione calcolatrice della vita”?


Ne La volontà di sapere (1976), Foucault, per studiare la sessualità, ha utilizzato lo stesso metodo usato per studiare la follia: non l’ha trattata come una realtà oggettiva e naturale.
La sessualità, piuttosto, è lo strumento necessario e l’effetto particolare di un insieme di strategie discorsive e politiche. La scelta di scrivere la storia della sessualità, dal punto di vista di una storia dei discorsi, gli ha consentito sia di denaturalizzare, sia di politicizzare la sessualità.
La fecondità politica di questo metodo non poteva sfuggire a tutte quelle persone sieropositive che, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, sono stati gli oggetti, piuttosto che i soggetti, dei discorsi d’expertise scientifica (medicina clinica, industria farmaceutica, ricercatori, operatori dei media).


Il principio fondamentale della tattica di Act Up e, in generale, dei “movimenti delle minoranze” (come ha ben sottolineato Halperin in Saint Foucault – Towards a Gay Hagiography - 1995), consiste nel rovesciamento delle posizioni tra soggetto e oggetto della conoscenza, assegnati dai dispositivi di potere-sapere ai dominanti e ai dominati.
Coloro che sono stati classificati come pazzi, delinquenti o perversi sessuali, attraverso forme specifiche di conoscenza - come la medicina clinica, la psichiatria o la criminologia - hanno subito una squalificazione e una inferiorizzazione delle loro esperienze.
Sulla base di questa inferiorizzazione fisico-epistemologica, il potere ha operato incessantemente una separazione tra il pazzo e l’uomo normale, il delinquente e il buon cittadino, l’eterosessuale e l’omosessuale. All’interno di questa relazione gerarchica, l’anormale è stato privato del suo diritto di parola, ridotto al silenzio, relegato allo statuto d’oggetto senza voce del discorso scientifico.
La storia delle lotte delle minoranze è quella di una lunga battaglia per rovesciare la tirannia del discorso scientifico e i suoi effetti di esclusione, discriminazione e assoggettamento.
Ciò ha significato far passare la normalità, la razionalità, l’eterosessualità, dalla posizione di soggetto universale del discorso a una posizione di oggetto d’interrogazione e critica.
Gli attivisti di Act up - riuscendo a confiscare il potere della parola all’esperto scientifico di turno - hanno ripetuto al mondo: i veri esperti siamo noi, perché il discorso scientifico non rende conto della complessità delle nostre esperienze.


Per Foucault, tuttavia, la tattica del rovesciamento discorsivo può nascondere una trappola naturalistica ed essenzialistica: il capovolgimento della posizione discorsiva tra omosessualità
ed eterosessualità, per esempio, ha condotto il movimento gay a bloccare l’omosessualità in confini identitari. In altri termini: nonostante si sia riuscito a dimostrare che l’omosessualità è una proiezione fantasmatica, la cui funzione principale è d’incarnare negativamente tutto ciò che è altro o differente dall’eterosessualità, il movimento non è riuscito a dedurre tutti gli effetti positivi
derivanti dalla possibilità di assumere un’identità fluida, che si definisce non per ciò che essa è,
ma per dove è, e per come funziona. Foucault ha più volte sottolineato l’importanza politica del
rovesciamento discorsivo prodotto nel XIX secolo dal movimento omosessuale.
E non ha mai sostenuto l’idea (odiosa) che il discorso en retour è identico al discorso che si vorrebbe rovesciare.


Il movimento nel XX secolo, invece d’insistere sull’identità (homo) sessuale, che si costituisce in relazione alla distanza e alla differenza dalla norma eterosessuale, ha investito sulla riterritorializzazione dell’identità gay: è in questo che Foucault individua il problema.
Piuttosto che la liberazione del sesso e delle identità sessuali, egli propone una liberazione dal sesso (un po’ come gli operaisti italiani, nello stesso periodo, in modo più ampio, affermavano che comunismo non significa liberazione del lavoro, ma innanzitutto e per lo più liberazione dal lavoro).


I prerequisiti foucaultiani che alludono alla possibilità di una politica queer sono quindi il rovesciamento discorsivo, la capacità di definire l’identità (homo)sessuale in maniera oppositiva e relazionale, e non necessariamente in termini di realtà stabile.
La politica queer non si definisce come lotta per liberare una natura preesistente e repressa, ma come processo continuo di costituzione e trasformazione di sé: designa tutto ciò che è in disaccordo con il normale, il dominante, il legittimo.
Essa assume il suo significato in relazione all’opposizione alla norma.
La politica queer non è riservata esclusivamente ai gay e alle lesbiche, ma accessibile a tutti coloro che si sentono inferiorizzati e marginalizzati a causa delle proprie pratiche sessuali e dei propri stili di vita.



Il BIO-POTERE DI RESISTERE.
Un trentennio mai finito. “La volontà di sapere” alla prova del presente.


Esattamente trent’anni fa, nel 1976, usciva per Gallimard in Francia “La volontà di sapere” di Michel Foucault. Il libro, scritto inizialmente per un progetto più complessivo che nel corso degli anni avrebbe mutato segno più volte diventò, nell’arco di un decennio, il primo volume di una trilogia di opere conosciuta come la “Storia della sessualità”. Il secondo e il terzo volume, infatti, “L’uso dei piaceri” e “La cura di sé” apparvero quasi in traduzioni simultanee nel 1984.
Gli ultimi due volumi sarebbero diventati in Italia classici da “Universale economica Feltrinelli” nel 1991, “La volontà di sapere” nel 1988. Da allora non si è mai smesso di comprarli e di citarli a tutto tondo e in una molteplicità di ambiti tale da rendere improbabile qualsivoglia progetto di codificazione disciplinare.


Tra i tre volumi, tuttavia, soprattutto “La volontà di sapere” può essere considerato come un classico mai divenuto classico, un’inattuale sempre attuale nel senso nicciano del termine. Una sorta di libro-bomba mai del tutto esploso che aspetta ancora di rompere l’ipocrisia dei mille fragili equilibri messi a punto dalle politiche di gestione, controllo ed intervento sui corpi incarnati e vivi attraverso i cosiddetti bio-poteri del presente, come d’altro canto dimostrano alcuni tra i testi ospitati in queste pagine. Anzi, sarebbe ancor meglio dire che attraverso le pagine di questo libro abbiamo definitivamente appreso quanto l’analitica dei saperi-poteri strutturatisi tra il XVIII ed il XIX secolo nel filantropismo, nella medicina e nei processi coatti di medicalizzazione, nella psichiatria, nella giustizia penale, nella pedagogia sino ad arrivare alle cosiddette scienze dello spirito – dalla sessuologia a certa psicanalisi individualizzante e borghese - agisca direttamente nei corpi e attraverso essi producendo all’infinito soggettività assoggettate a questo o a quest’altro potere, a questo o a quest’altro processo di normalizzazione.


Perché, per dirlo con le parole di Foucault “il potere non è qualcosa che si acquista, si strappa o si condivide, qualcosa che si conserva o che si lascia sfuggire; il potere si esercita a partire da innumerevoli punti e nel gioco di relazioni disuguali e mobili”. Il potere, in sintesi, interseca e attraversa tutto e tutti/e, non si esercita secondo opposizioni binarie tra dominati e dominanti, non costruisce divieti e proibizioni dall’alto ma, al contrario, si dà attraverso relazioni direttamente produttive che agiscono nella profondità del corpo individuale e sociale per renderlo docile e accomodante a partire dalle condotte normalizzatrici della famiglia, dei gruppi ristretti, delle istituzioni disciplinari. Già queste affermazioni possono servirci a fugare qualsiasi dubbio sul valore banalmente ritualistico e celebrativo di un inserto monografico.


Qui non celebriamo Foucault per costruirgli un mausoleo post-moderno e simulacrale, per salvarci le buone maniere della coscienza critica riconducendolo alla tomba o solo per registrare l’importanza dirompente che “La volontà di sapere” ha avuto rispetto alle scienze sociali e umane in tutte le Università del mondo. Semmai siamo qui a dire che continuare a citare gli articoli della Costituzione italiana che “si basa sulla famiglia” dinanzi ad omosessuali, donne single, transessuali, transgender è quanto di più inattuale e mistificante; che pensare un’esistenza fatta di lavoro infrasettimanale e di sesso al sabato sera tra le protette pareti domestiche è quanto di più irreale si possa pensare della condizione umana e dei rapporti di produzione del sistema capitalistico contemporaneo. Non è un caso, infatti, che siamo qui a parlare del trentennale di un testo che Foucault ha costruito a partire da due domande: perché il sesso e la sessualità sono diventati da un certo momento in poi un “oggetto del sapere”? Siamo certi che la sessualità sia inversamente proporzionale ad un ordine di divieti che reprime gli istinti?


Le risposte alle due domande si intersecano nella “Volontà di sapere” attraverso una ricostruzione di micro-genesi storiche “disperse e mutevoli” che arrivano sostanzialmente a sostenere la tesi secondo cui non è vero che di sesso non si è parlato mai dal Medio Evo sino al XIX secolo al punto tale da sostenere la “tesi repressiva” basata sul binomio divieto/trasgressione (così come paventato dal Marcuse di Eros e civiltà e dell’Uomo a una dimensione). Tutt’altro. Foucault ci dice che già dal Medio Evo esisteva un discorso sulla voluttà della carne codificatosi con la pastorale cristiana attraverso l’uso della confessione. Questa pratica discorsiva unitaria che presentava la sessualità come un “enigma inquietante” si sarebbe poi, nel corso dei secoli, “scomposta, dispersa, moltiplicata in un’esplosione di discorsività distinte che hanno preso forma all’interno della demografia, della biologia, della medicina, della psichiatria, della psicologia, della morale, della pedagogia, della critica politica”.


Di qui la nascita di una serie di dispositivi atti a “gestire” e non a “reprimere” la sessualità: il lavoro, i codici regolamentativi della sessualità come il matrimonio, la norma eterosessuale, i primi controlli sulle “sessualità solitarie” dei bambini, l’adulterio, l’ “incorporazione delle perversioni” (tra cui compariva anche l’omosessualità) nelle scienze medico-psichiatriche, sino al XIX secolo e alla nascita di una biologia della produzione, di una medicina del sesso. Se la sessualità fosse stata un tabù, se non se ne fosse parlato così tanto si sarebbe costruito tutto questo apparato di normalizzazione e gestione dei piaceri? Sicuramente no. Se ne è parlato talmente tanto da costruire molteplici “ordini del discorso” funzionali ai meccanismi di potere e alle sue istituzioni di controllo. Ordini discorsivi tesi all’assoggettamento e a tradurre l’ars erotica in scientia sexualis. Nell’arte erotica, infatti, la verità dei corpi non era mai un effetto di un dispositivo ma “veniva estratta dal piacere stesso”, da un’esperienza che “non era in relazione ad una legge del lecito e del proibito”.


Una geografia dei piaceri, insomma, irriducibile al desiderio istintuale e naturalistico posto in essere per trasgredire la norma. Un piacere che ha una sua qualità specifica, una sua durata, una sua intensità che travalica tutti i confini delle opposizioni binarie corpo/anima, carne/spirito, stinto/ragione, pulsioni/coscienza le quali, invece, “sembrano ridurre il sesso ad una pura meccanica senza ragione”. Ma “La volontà di sapere” non è solo un tentativo di decodifica dei processi di gestione e normalizzazione della sessualità. E’ molto di più. E’ anche il testo “fondativo” di ciò che oggi chiamiamo “biopolitica” e cioè il passaggio consumatosi dallo Stato sovrano ai processi di “governo del vivente e del sociale”, del passaggio dal “vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere” al “potere di far vivere o di respingere nella morte”.


Trent’anni sono sufficienti per passare dai processi di regolamentazione dei singoli corpi e della popolazione attraverso la costruzione di codificazioni giuridiche alla regolamentazione dei
singoli corpi e della popolazione attraverso i dispositivi di sicurezza? La risposta è ovviamente affermativa ma, come ci ha insegnato Foucault, laddove c’è potere c’è sempre resistenza. Dal
potere e dagli ordini gerarchici non si esce ma i nostri corpi singolari e collettivi devono e possono ancora resistere.

venerdì, dicembre 15, 2006

Passato che non vuol passare, futuro che non vuole aspettare.

Ho scovato con molto piacere nel blog MaterialiResistenti di Roberto Ciccarelli l'intervista a Homi Bhabha pubblicata alcuni giorni fa su Il manifesto, l'avevo letta con interesse e avevo proprio pensato che sarebbe stato un'ottima cosa riuscire a metterla su finoaquituttobene.
Homi Bhabha è direttore dello Humanities Center dell'università di Harvard, è una figura importante degli studi post-coloniali e, più in generale, degli studi culturali. Nato a Bombay nel 1949 da famiglia Parsi, ha studiato nella sua città e poi a Londra, Princeton, Chicago forgiando un'identità cosmopolita e che lo pone direttamente in confronto con i temi posti dagli studi post-coloniali.

Nei suoi lavori non si risparmiano critiche al multiculturalismo liberale ed a proposito nell'intervista dice:


Nell'accezione liberale prevalente il multiculturalismo si risolve in un pluralismo delle identità, che riproduce e alimenta senza alcuna consapevolezza filosofica la fissazione identitaria, e riproduce la logica uno-molti propria di tutta la tradizione occidentale. In sostanza, il multiculturalismo tratta le culture come fossero tanti stati sovrani. Il fatto è che invece la globalizzazione frantuma la logica dell'identità e quella, connessa, della sovranità. E nella globalizzazione non ci sono culture che si muovono compattamente l'una contro l'altra: ci sono legami e alleanze che si stringono trasversalmente su singole questioni, economiche, o di giustizia, o di voice. Quello che è all'opera nelle dinamiche globali non è un dispositivo di identità, ma di parzialità e ambivalenza, che dispiega una complessità che il multiculturalismo pluralista liberale non sa leggere.

Rispetto al nostro presente ed alla politica in questo tempo la sua opinione conferma all'intervistatrice (Ida Domijani) che la politica dominante è la politica della morte, che rappresenta però allo stesso tempo il rovescio della medaglia della politica della vita:

Una politica che è la negazione della politica. Io penso, con Hannah Arendt , che la politica sia costruzione della polis, llegame, interlocuzione, in-between, scommessa sulla nascita. Se la morte diventa moneta corrente della politica, che a batterla sia lo stato o una rete terrorista, si ribaltano le basi e il senso della politica. Se al tavolo della politica lo stato o attori non statali giocano al rialzo con le fish della morte, si entra nell'età del terrore e dell'errore, in cui il potere per un verso produce e alimenta il senso del pericolo, per l'altro rischia continuamente la fallacia nell'uso delle informazioni. Una situazione storicamente e moralmente molto compromessa, in cui collassano trasparenza e responsabilità.

tanatopolitica e biopolitica vanno assieme, diceva Derrida... e anche, e diversamente, Foucault: il passaggio dal potere di dare la morte e lasciar vivere al potere di far vivere e lasciare morire, che segna l'era biopolitica, lascia intatto un nocciolo di morte, una killing zone fatta di razzismo e esclusione. E' bene però individuare il salto e la specificità di ciò che accade oggi, sotto questo cosiddetto «scontro di civiltà» che rende molto cheap il valore della vita. Nell'Ottocento, la domanda del mondo ricco ai paesi poveri era: siete in grado di intraprendere la strada del progresso? Durante la guerra fredda la domanda delle democrazie occidentali al resto del mondo era: siete in grado di mettere l'individuo al di sopra della comunità? Oggi la domanda che governa il conflitto globale è se la cultura dell'altro gioca con la politica della morte, se la tollera, se la vuole: «la tua cultura vuole uccidermi?». E' quello che chiamo complesso securitario.

Nell'intervista poi emergono altre due passaggi fondamentali nel pensiero di Bhabha, innanzitutto l'invito a ripensare la globalizzazione non solo nel tempo presente e futuro ma anche come un processo che riguarda il passato, fino ad arrivare al tentativo di definire in maniera nuova il tempo globale come segue:

Il tempo globale è un tempo complesso e disgiunto, che tento di rappresentare con questa formula: un passato che rifiuta di passare, un futuro che rifiuta di aspettare. Sia il passato sia il futuro esercitano dunque una pressione sul presente e sulla nostra posizione etica nel presente. Agire eticamente richiede per un verso di scrivere la storia mai scritta del mondo globale, per l'altro di collocarsi nel futuro chiedendosi «come avrei dovuto agire oggi sapendo ciò che saprò domani». Credo che questo rapporto fra passato e futuro restituisca la temporalità della globalizzazione più di quella che David Harvey chiama «compressione spaziotemporale». Dobbiamo vedere lo spazio globale come uno spazio in transizione, intendendo la transizione come una prospettiva sul presente.

La seconda ed ultima questione affrontata nell'intervista e che vorrei qui riportare riguarda l'uso da parte di Bhabha di concetti presi "a prestito" dalla psicanalisi, quali ad esempio il concetto di ambivalenza che nel suo discorso va a sostituire il concetto hegelo-marxiano di contraddizione:

L'ambivalenza modifica il lessico politico in un luogo centrale, tradizionalmente occupato dalla categoria di contraddizione, che nello schema hegelo-marxiano si risolve sempre in una sintesi. Nell'ambivalenza invece non c'è sintesi, c'è solo il lavoro continuo dell'elaborazione e dell'interpretazione, in senso psicoanalitico. Questa svolta concettuale ha molto a che fare con il modo di pensare l'identità, la parzialità, le differenze, il multiculturalismo.

Per finire alcuni riferimenti: l'intervista completa a Homi Bhabha si trova su MaterialeResistente.

Altre info si possono consultare su Wikipedia, oppure sul sito dello Humanities Center dell'università di Harvard di cui è direttore.


In Italia ha pubblicato: I luoghi della cultura (Meltemi, 2001) e (a cura di) Nazione e narrazione, (Meltemi, 1997). Sul sito della casa editrice Meltemi interviste ed altro materiale.


YouTube finisce nella blacklist del governo iraniano.

Come riportato da Associated Press la scorsa settimana, in questi giorni in Iran sono state adottate delle misure di censura per restringere l'uso di Internet.

Martedì scorso il popolare sito web di video sharing YouTube è stato bloccato, e gli utenti che provavano ad aprirlo visualizzavano il seguente messaggio: “On the basis of the Islamic Republic of Iran laws access to this Web site is not authorized”.

Un messaggio simile appare anche per tutti i siti web pornografici e dell'opposizione bloccati dal governo.

Paradossalmente Google Video risulta ancora in funzione.

E' difficile dire da quanto tempo You Tube sia sulla blacklist del governo Iraniano, ma secondo Reporters Without Borders è stato bloccato da almeno 9 giorni. Essi hanno commentato l'episodio dicendo che: “adesso la censura è la regola piuttosto che l'eccezione”.

La ragione per la quale il governo iraniano ha deciso di bloccare il sito web non è stata rilasciata ufficialmente, ma secondo alcuni giornalisti il divieto è la risposta ad un recente video online in cui viene mostrato una famosa attrice di soap opera che si lascia andare a “comportamenti indecenti” con il suo ex-fidanzato.

Da un altro punto di vista, secondo un gruppo di attivisti per la lotta sui diritti dei media, questa decisione sarebbe dovuta ad una serie di video postati su YouTube dai Mujahedeen-e-Khalq ed altri gruppi Iraniani di opposizione , compresi altri video postati da alcuni singoli iraniani critici contro il regime.

Secondo l'opinione di diversi giornalisti che lavorano in quella regione, questo dimostra come l' Iran stia provando a creare delle barriere digitali per bloccare qualsiasi notizia e tendenza culturale proveniente dall'estero. In particolare, il governo iraniano sta provando a portare avanti una sorta di campagna per proteggere il paese dall'influenza di musica, film e immagini provenienti dall'occidente. Tuttavia i siti web occidentali di informazione sono generalmente disponibili, mentre i blog e le pagine web locali contenenti messaggi “non autorizzati” sono regolarmente bloccati.

Come al solito il problema reale non è il disagio che potrebbe essere provocato dall'impossibilità di accedere ad alcuni siti web, dato che molti utenti internet sanno come ottenere accesso alle pagine web non autorizzate attraverso una serie di strumenti gratuiti disponibili sulla Rete.

Il problema reale riguarda il fatto che qualsiasi forma di espressione minimamente in contrasto con la visione del Governo è immediatamente bloccata, ed i “trasgressori” perseguiti.

Non solo Internet è sottoposta a censura, infatti: sia sotto la presidenza Kahatami che del suo successore Ahmadinejad, molte riviste e giornali sono stati chiusi, e solo pochi di loro esistono ancora, e qualsiasi critica contro il Governo è auto-censurata per timore delle conseguenze.

L' Iran ha circa 7.5 milioni di utenti Internet, il più alto numeri di utenti del web in Medio Oriente dopo l' Israele. Il paese ha anche più di 100000 blogger, alcuni dei quali si sostituiscono alla stampa riformista iraniana soppressa.


da Zone-H


Greenpeace in action.

Roma, Italia — Arrampicati a 250 metri d'altezza da ieri notte. Una squadra di climber di Greenpeace è entrata in azione alla centrale di Porto Tolle (Rovigo) per protestare contro il ritorno al carbone promosso dal Governo. Alcuni climber si trovano ora sul camino della centrale e stanno dipingendo una scritta gigantesca, mentre altri sul tetto dell'edificio, dove hanno apposto una gigantesca coccarda con scritto "Enel clima killer".

La centrale di Porto Tolle, secondo il progetto dell'Enel attualmente in fase di autorizzazione, dovrebbe essere convertita a carbone per una potenza di 1.980 Megawatt e con un'emissione di CO2 di oltre 10 milioni di tonnellate l'anno.

L'impianto sorge peraltro in un parco naturale definito patrimonio dell'Umanità dall'Unesco. I delta dei grandi fiumi sono ambienti che godono di particolare protezione in tutto il mondo: in Italia, invece, l'area vede la presenza di questa vecchia centrale a olio combustibile, pesante fonte di inquinamento, tanto che a marzo scorso è arrivata una condanna per i top manager dell'Enel.

"La scomoda verità è che il ritorno al carbone non ci farà raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra", dichiara Giuseppe Onufrio direttore delle campagne di Greenpeace. "L'accordo tra il Ministero dello Sviluppo Economico e quello dell'Ambiente prevede un tetto alle emissioni eccessivo rispetto alle linee guida europee: 209 milioni di tonnellate in totale al posto di 186. Non c'e posto per la centrale di Civitavecchia, tanto meno per quella di Porto Tolle. La Commissione Europea deve tagliare la proposta di Piano Nazionale di Allocazione dell'Italia".

Oggi il carbone copre il 17 per cento della produzione elettrica nazionale ed è responsabile dell'emissione di oltre 40 milioni di tonnellate di CO2. Con i progetti di espansione di Enel, Endesa, Tirreno Power e altri, queste emissioni sono destinate a raddoppiare. Il carbone è il combustibile con le più alte emissioni specifiche di CO2, oltre il doppio del gas naturale.

"Il programma politico dell'Unione indica obiettivi per lo sviluppo di fonti rinnovabili e per l'efficienza energetica, ma al momento nell'azione di Governo non c'è traccia di tutto questo. Chiediamo che vengano fissati obiettivi vincolanti e coerenti con gli impegni assunti in campo internazionale" conclude Francesco Tedesco, responsabile della Campagna Clima e Energia di Greenpeace.


da www.greenpeace.org

Il progresso dei lumi del '700...

"Il progresso dei lumi del '700: "la lotta della conoscenza contro l'ignoranza, della ragione contro le chimere, dell'esperienza contro i pregiudizi, dei ragionamenti contro l'errore, e così via. Insomma, bisogna sbarazzarsi, credo, di tutto quello che è stato descritto e simbolizzato come il cammino del giorno che dissipa la notte; e per contro, bisogna percepire, nel corso del XVIII secolo, qualcosa di assai diverso dal semplice rapporto tra la luce e le tenebre, tra conoscenza e ignoranza: un immenso e molteplice combattimento non tanto tra conoscenza e ignoranza, ma dei saperi gli uni contro gli altri - dei saperi che sono in reciproca opposizione a causa della loro specifica morfologia, a causa del rapporto tra quelli che ne sono i detentori, nemici gli uni rispetto agli altri, e a causa dei loro effetti di potere intrinseci".

M. Foucault

mercoledì, dicembre 13, 2006

SkizoBlogger

Ieri, dopo parecchio che non aggiornavo il blog, ho pubblicato la riflessione che ancora compare qui sotto. Oggi, chi passa da finoaquituttobene, oltre a trovare questa riflessione trova un veste grafica nuova ed altri piccoli accorgimenti che facilitano la consultazione.

Beh, immagino che una delle possibili reazioni sia quella di pensare che sono impazzito, mentre proclamo la crisi del blog mi premuro di dargli una veste grafica più bella e "graffiante".
Allora scrivo questo post, per dichiararmi simpaticamente uno skizoblogger.

martedì, dicembre 12, 2006

Bloggare stanca.


Sono una decina di giorni che il blog non viene aggiornato, un tempo che i frequentatori avranno notato essere la mia assenza più prolungata (a parte le vacanze estive).
Questo messaggio ha come primo scopo quello di segnalare che
finoaquituttobene sta vivendo un momento di crisi che, essendo questo blog un prodotto individuale, dipende da una serie di mie perplessità e da una certa stanca.

In effetti devo dire che bloggare stanca, probabilmente stanca di più o di meno sulla base delle motivazione che aveva spinto il/i bloggers a dar forma al proprio progetto. Nel mio caso tutto è partito come una sperimentazione del media, poi ho navigato a vista cercando di interpretare i segni che sulla mia rotta ho incontrato per rettificarla di volta in volta. Ma i segni che ho via via incontrato - che magari sono poi solo quelli a cui io ho dato importanza - hanno posto una serie di questioni che probabilmente possono essere dischiuse solo con un progetto più finalizzato e che eviti la dispersione eccessiva.

I blog sono in effetti in questo momento uno degli esempi più vivi della messa in circolazione di informazioni e conoscenza, fino ad oggi uno dei migliori strumenti che ha permesso di discutere e fare critica in maniera del tutto non verticistica, permettendo di sperimentare una comunicazione orizzontale e autonoma. Ma allo stesso tempo sono emersi anche quelli che io percepisco come limiti di un blog - probabilmente dei
new media in genere - e che dipendono in primo luogo dalla partecipazione e fruizione passiva dei contenuti da parte dei visitatori, con la conseguenza che da una comunicazione autonoma e orizzontale si passa - se vogliamo - ad un'informazione critica e libera, cosa che dal mio punto di vista è una regressione critica rispetto alla strada indicata negli anni '90 dal mediattivismo e prima dalla cultura hacking.

Non voglio qui ripetere la caduta in cui incappai in una precedente riflessione su
finoaquituttobene in cui "bacchettavo" i visitatori del blog, un pò anche in maniera lamentosa sulla mancata partecipazione attiva; qualcuno allora mi tirò un secchio d'acqua ghiacciata in faccia che mi fece riprendere - e sono ancora desto - dalla sbornia della comunicazione facile in Rete, così che ora ci tengo a dire che esiste un problema in finoaquituttobene perché io sono in difficoltà, perché la mancanza di un feedback negativo mi intimorisce e rende difficile l'interpretazione dei segnali che si presentano o che si dovrebbero cogliere.

Tutto ciò rende il mio "fare" sul blog faticoso, in primo luogo poiché non vorrei che questo venisse interpretato - oltre alla misura implicita in cui lo è finoaquituttobene ed ogni blog - come una specie di egosurfing, un esercizio individualista di edonismo cool, perché l'attenzione che il blog non si riducesse a questo è la sola cosa di cui sono certo fin dall'inizio di questa avventura.

Finisco questa riflessione con una citazione da Goodbye Mr. Socialism, libro-intervista di Raf Valvola Scelsi a Toni Negri in cui a proposito dei blog questo ultimo dice cose che sento di condividere di testa, di cuore e di pancia.

Per esempio, cosa significa attraversare un blog? C'è dentro la vita ma anche esibizionismo, il perdersi nelle cose... I blog sono anche una dispersione terribile e manifestano appieno l'aspetto folle di questo momento informatico, la quantità e lo spreco...
Qualche volta invece di essere un grande mare, la Rete diventa una palude, dove è forte l'impressione di fatica... Implosione? Non credo. E tuttavia ci sarebbe davvero da dare alla comunicazione e ai processi di costruzione di senso in Rete un'emergenza corporea, che non significhi solo produrre immagini. Al contempo, non si può sottovalutare l'emersione in Rete, ormai su un piano di massa e generale, di forme di socialità che assumono toni affettivi importanti, lucidi, in cui c'è scambio, felicità della scoperta di relazioni nuove e sorprendenti, e al contempo di conoscenza. Il tutto in una dinamica sociale che ha sempre più i toni dell'orizzontalità comunicativa, in una dimensione quasi plasmatica che ricalca talvolta in positivo le relazioni sociali.


mercoledì, novembre 29, 2006

Vandana Shiva: rubare l'acqua per creare la sete.

La questione dei commons, dei beni comuni, è stata già alcune volte la protagonista di qualche post su finoaquituttobene, in particolare per quel bene così prezioso e fondamentale che è l'acqua: da ciò che succede nella Regione Lombardia fino alle tendenze globali che tendono a privatizzare l'acqua e farne una merce qualsiasi.

Ora pubblico di seguito un articolo di Vandana Shiva, fisica ed economista indiana, che propone non solo una forte critica alla pretesa generalizzata di privatizzare l'acqua ma una denuncia diretta alle potenti multinazionali che in India - dove l'acqua, diversamente che sulle Alpi, scarseggia - in nome del profitto e con una gran faccia tosta sfruttano e distruggono l'ambiente per recuperare risorse idriche e allo stesso tempo propongono poi al consumatore prodotti scadenti e pericolosi per la salute di chi ne fa uso - cioè beve.



Rubare l'acqua per creare la sete.
Coca-cola, Pepsi e la politica della sicurezza alimentare.


Vietare o meno Coca Cola e Pepsi non puo' e non
dovrebbe dipendere solamente da se un particolare
laboratorio non trova particolari livelli di residui di
particolari pesticidi oltre i limiti permessi nelle bevande
analcoliche. I problemi dovuti alla creazione da parte di
Coca Cola e Pepsi di una crisi idrica e di una crisi
sanitaria sono separatamente ragioni sufficienti per vietarle.


di Vandana Shiva (Z Net - Peacelink)

In una democrazia, bandire prodotti e attivita' dannose e' un'espressione della liberta' e dei diritti dei cittadini. La messa al bando protegge i cittadini dai rischi per la salute e per l'ambiente. E' per questo che il fumo è stato vietato nei luoghi pubblici. E' per questo che le sostanze dannose per l'ozono sono state proibite dal Protocollo di Montreal. E' per questo che la Convenzione di Basilea ha bandito il commercio di rifiuti tossici e pericolosi.

La Coca Cola e la Pepsi sono entrate senza dubbio a far parte del gruppo dei prodotti tossici e dannosi che e' necessario bandire per proteggere la salute dei cittadini e per proteggere l'ambiente. Il 22 agosto la campagna "Coca Cola e Pepsi lasciate l'India" ha intensificato l'attività per bandire

Coca Cola e Pepsi con una giornata di azioni per "bandire Coca Cola e Pepsi". Il Kerala ha bandito le coca cole. Il Karnataka, il Madhya Pradesh, il Gujarat, il Rajastan hanno vietato le bevande analcoliche dalle istituzioni educative e dalle mense del governo. E "zone libere da Coca Cola e Pepsi" si stanno diffondendo in tutto il Paese.

Rubare l'acqua, creare sete.

Ci sono serie ragioni ambientali e umanitarie per vietare la produzione di bevande analcoliche in India. Ogni stabilimento di Coca Cola e Pepsi estrae 1-2 milioni di litri d'acqua al giorno. Se ogni stabilimento estrae 1-2 milioni di litri d'acqua al giorno e ci sono 90 stabilimenti, l'estrazione giornaliera va dai 90 ai 180 milioni di litri. Questo potrebbe soddisfare il fabbisogno giornaliero di acqua potabile di milioni di persone. Ogni litro di queste bevande distrugge ed inquina 10 litri d'acqua. E si e' scoperto che le acque di scolo così prodotte contengono alti livelli di cadmio e piombo (Pollution Control Board, Kerala, Hazard Centre).

Una prolungata esposizione al cadmio puo' potenzialmente avere effetti quali disfunzioni renali, danni alle ossa, al fegato e al sangue. Il piombo colpisce il sistema nervoso centrale, i reni, il sangue e il sistema cardio-vascolare. Le donne di un piccolo villaggio del Kerala sono riuscite a far chiudere uno stabilimento della Coca Cola. "Quando bevete una coca, bevete il sangue della gente", ha detto Mylamma, la donna che ha dato inizio al movimento contro la Coca Cola a Plachimada. Lo stabilimento della Coca Cola di Plachimada nel marzo 2002 ricevette una commessa per la produzione di 1.224.000 bottiglie di prodotti Coca Cola al giorno e ricevette dal panchayat una licenza condizionata per installare una pompa a motore per l'acqua. Ad ogni modo, la compagnia comincio' ad estrarre illegalmente milioni di litri di acqua pulita. Secondo la gente del posto, la Coca Cola estraeva 1,5 milioni di litri d'acqua al giorno. Il livello dell'acqua comincio' a calare, passando da 150 a 500 piedi sotto la superficie terrestre. Membri delle tribu' e contadini si lamentarono che i depositi e le scorte d'acqua risentivano negativamente dell'installazione indiscriminata di pozzi per lo sfruttamento delle falde freatiche, con gravi conseguenze per le coltivazioni. I pozzi minacciavano anche le fonti tradizionali di acqua potabile, gli stagni, i serbatoi, i fiumi e i canali navigabili. Quando la compagnia non riusci' a soddisfare la richiesta di informazioni dettagliate da parte del panchayat, fu notificato un avviso che la invitava a provare il proprio diritto, e la licenza fu cancellata. La Coca Cola cerco' invano di corrompere il presidente del panchayat, A. Krishnan, con 300 milioni di rupie. La Coca Cola non solo rubava l'acqua della comunita' locale, ma inquinava anche quella che non prendeva. La compagnia depositava materiali di scarto all'esterno dello stabilimento, materiali che durante la stagione delle piogge si propagavano nelle risaie, nei canali e nei pozzi, causando gravi rischi per la salute. In seguito a questo scarico, 260 pozzi creati dalle autorita' pubbliche per l'approvvigionamento di acqua potabile e per l'agricoltura si sono prosciugati. La Coca Cola inoltre pompava le acque di scarico nei pozzi asciutti all'interno della proprietà della compagnia. Nel 2003 l'ufficiale medico del distretto informo' la gente di Plachimada che la loro acqua non era adatta ad essere bevuta. Le donne, che gia' sapevano che la loro acqua era tossica, dovevano fare chilometri per procurarsi l'acqua. La Coca Cola aveva provocato una carenza idrica in una regione ricca d'acqua scaricando acque di scolo contenenti grandi quantita' di piombo, cromo e cadmio.

Le donne di Plachimada non avevano intenzione di permettere di questa pirateria idrica. Nel 2002 cominciarono un dharna (sit-in) ai cancelli della Coca Cola. Per festeggiare il primo anniversario della loro agitazione mi unii a loro nella Giornata della Terra del 2003. Il 21 settembre 2003 una grossa manifestazione consegno' un ultimatum alla Coca Cola. E nel gennaio 2004 la Conferenza Mondiale per l'Acqua porto' attivisti globali a Plachimada per sostenere gli attivisti locali. Un movimento iniziato da donne adhivasi locali aveva messo in moto un'ondata di energia a loro sostegno a livello nazionale e globale. Oggi lo stabilimento e' chiuso e movimenti sono iniziati in altri stabilimenti. I giganti della Coca Cola stanno aggravando la crisi idrica gia' conosciuta dalle popolazioni delle aree rurali.

Ci sono un solo criterio e una sola misura nel problema dell'uso dell'acqua: il diritto fondamentale di ogni uomo ad acqua pulita, sana e adeguata non puo' essere violato. E la Coca Cola e la Pepsi stanno violando questo diritto. E' per questo che la loro estrazione di milioni di litri d'acqua dev'essere vietata. Nel caso di Plachimada l'Alta Corte del Kerala aveva stabilito "che le falde sotterranee appartengono alla popolazione. Lo Stato e le sue istituzioni dovrebbero fungere da amministratori di questo grande bene. Lo Stato ha il dovere di proteggere le falde da un eccessivo sfruttamento e l'inattivita' dello Stato a questo proposito equivale ad una violazione del diritto della gente alla vita, garantito dall'art. 21 della Costituzione dell'India. Le falde freatiche, sotto la terra dell'imputato, non gli appartengono. Le falde appartengono al pubblico e il secondo imputato non ha nessun diritto di reclamare una forte partecipazione e il Governo non ha il potere per permettere ad un privato di estrarre una tale quantita' di acque sotterranee, che sono una proprieta' che gli e' stata affidata. Questo principio dell'acqua come un bene pubblico e' cio' che ha condotto al divieto di estrazione dell'acqua a Plachimada. E' il principio che il 20 gennaio 2005 ha portato le comunita' locali in 55 stabilimenti di Coca Cola e Pepsi per notificare alle aziende che stavano rubando una risorsa comune.

Rubare la salute, creare malattia.

La lotta contro la Coca Cola e' anche una lotta per la salute. Residui di pesticidi sono stati trovati nella Coca Cola e nella Pepsi. Comunque le bevande analcoliche sono pericolose anche senza pesticidi. Le bevande analcoliche non hanno nessun valore nutrizionale in confronto alle nostre bevande locali, quali nimbu pani, lassi, panna, sattu. Con le loro campagne pubblicitarie aggressive i giganti delle bevande analcoliche sono riusciti a far vergognare i giovani indiani della nostra cultura gastronomica locale, nonostante i suoi valori nutrizionali e la sua sicurezza.

Hanno monopolizzato il mercato della sete, acquistando compagnie locali come Parle e bevande fredde locali fatte in casa o col lavoro a domicilio. Ma cio' che vendono Coca Cola e Pepsi e' una brodaglia colorata tossica, con valori anti-nutritivi. Il Ministro della Salute indiano ha chiesto alle star del cinema di non sostenere Coca Cola e Pepsi per via dei rischi rappresentati dallo zucchero contenuto nelle bevande analcoliche, implicate nelle epidemie di obesita' e diabete tra i bambini.

Marion Nestle ha definito le bevande analcoliche delle "porcherie", ricche di calorie ma poco nutrienti. Il Centro per la Scienza e l'Ambiente nell'Interesse Pubblico ha definito le bevande analcoliche "caramelle liquide". Una lattina da 12 once contiene 1,5 once di zucchero.

I giganti delle bevande analcoliche si stanno orientando sempre di piu' sullo Sciroppo di Grano ad Alta Concentrazione di Fruttosio (High Fructose Corn Syrup, HFCS). Il Ministero della Salute non ha ancora affrontato la questione dei rischi per la salute dell'HFCS e dei rischi per la salute dei cibi geneticamente modificati se il grano utilizzato fosse grano geneticamente modificato. Se il Governo vuole che i cittadini usino dolcificanti sicuri dovrebbe bandire l'HFCS ed incoraggiare i produttori di zucchero di canna in India a passare all'agricoltura organica. Il Governo Centrale sta chiaramente fallendo nel proteggere la salute dei cittadini indiani.

La composizione nutritiva delle bevande analcoliche per dosi di 12 once in confronto al succo d'arancia o al latte magro.


Coca Cola Pepsi Succo d'arancia Latte magro
% calorie 154 160 168 153
Zucchero 40 40 40 18
Vit. A, UI 0 0 291 750
Vit C, mg 0 0 146 3
Acido folico, mg 0 0 164 18
Calcio, mg 0 0 33 450
Potassio, mg 0 0 711 352
Magnesio, mg 0 0 36 51
Fosfato, mg 54 55 60 353

Fonte: Marion Nestle, politiche alimentari.

Lo zucchero contenuto nelle bevande analcoliche non e' zucchero naturale, saccarosio, bensi' HCFS. Gli stabilimenti per la produzione dello sciroppo di grano hanno cominciato ad essere impiantati in India, e se non vengono stabilite delle regole rigide la dieta indiana potrebbe prendere la via di quella statunitense, dove lo sciroppo di grano ad alta concentrazione di fruttosio provoca resistenza all'insulina. A differenza del saccarosio, il fruttosio non passa attraverso alcune fasi critiche intermedie di collasso, ma viene deviato verso il fegato, dove imita la capacita' dell'insulina di far rilasciare al fegato acidi grassi nel sangue. Degli studi hanno scoperto che le diete a base di fruttosio contengono il 31% in piu' di trigliceridi rispetto alle diete a base di saccarosio. Il fruttosio inoltre riduce il tasso di ossidazione degli acidi grassi. P.A. Mayes, uno scienziato dell'universita' di Londra, e' giunto alla conclusione che l'assunzione prolungata di fruttosio provoca un adattamento dell'enzima che aumenta la lipogenesi, la formazione del grasso, e la formazione di VLDL (colesterolo cattivo), che conducono a trigliceridemia (eccesso di trigliceridi nel sangue), ridotta tolleranza al glucosio, e iperinsulinemia (eccesso di insulina nel sangue). Gli scienziato dell'Universita' della California a Berkley hanno anche confermato che un consumo eccessivo di fruttosio stava deviando la dieta americana verso cambiamenti metabolici che inducono all'accumulo di grasso.

L'India non puo' affrontare gli elevati costi sanitari di una dieta a base di fruttosio, che ha anche altri costi nutrizionali come effetti collaterali. Quando il grano viene utilizzato per produrre sciroppo ad alta concentrazione di fruttosio, ai poveri viene negato un elemento nutritivo basilare. Il 30% del grano viene gia' utilizzato per produrre materia grezza per la produzione industriale di cibo per il bestiame e fruttosio e non viene usato come alimento per l'uomo. Inoltre, la sostituzione di dolcificanti piu' sani derivati dallo zucchero di canna, come il gur e il khandsari, derubano i contadini di guadagni e mezzi di sostentamento. L'impatto dei prodotti della cola sulla catena alimentare e sull'economia e' pertanto molto ampio e non finisce con la bottiglia.

Ad ogni modo, quello che c'e' nella bottiglia non va bene per una dieta sana. E' risaputo che il consumo di bevande analcoliche contribuisce a rovinare i denti, e gli adolescenti che consumano bevande analcoliche mostrano un rischio di fratture ossee 3-4 volte superiore rispetto a quelli che non ne bevono. Le bevande analcoliche stanno diventando la maggiore fonte di caffeina nelle diete dei bambini, visto che ogni lattina da 33 cl contiene circa 45 mg di caffeina. E ci sono altri ingredienti nella brodaglia tossica, un composto antigelo - etilenglicole per ridurre la temperatura di congelamento, acido fosforico per dargli un po' di mordente.

La gente consuma 4 kg di prodotti chimici a testa all'anno, sulla base di 20,6 milioni di tonnellate di prodotti chimici sotto forma di coloranti artificiali, aromi, ecc. (Prashant Bhushan, "Soft drinks - a toxic brew"). Pertanto non e' solo dei pesticidi che dovremmo preoccuparci, ma delle miscele tossiche da cui i giganti della cola stanno rendendo dipendenti i nostri figli. L'altra violazione commessa da Coca Cola e Pepsi e' la violazione del diritto alla salute. L'acido fosforico e il diossido di carbonio rendono le bevande analcoliche fortemente acide, il che spiega come mai siano efficaci come detergenti per il bagno. Non approveremmo mai che i nostri figli bevessero detergente per il bagno, tuttavia le bevande analcoliche, che hanno le stesse proprieta' acide, vengono vendute liberamente. E' a causa di questi rischi che negli Stati Uniti le scuole hanno vietato le bevande analcoliche. E' a causa di questi rischi che 10.000 scuole e college indiani si sono dichiarati "zone libere da Coca Cola e Pepsi". E' a causa di questi rischi che il Governo del Kerala ha bandito le Cole. E' a causa di questi rischi che la mensa del Parlamento Indiano non serve Coca Cola e Pepsi. Ed e' a causa di questi rischi che i rappresentanti della Pepsi hanno ammesso che le loro bevande non sono sicure per i bambini.

Tuttavia, il Governo dell'Unione sta esitando sotto la pressione delle aziende e degli Stati Uniti. Il Ministero della Salute dell'Unione ha messo in discussione uno studio del Centro per la Scienza e l'Ambiente sui residui di pesticidi in Coca Cola e Pepsi, citando testualmente uno studio commissionato dalla Coca Cola. Chiaramente la salute dei cittadini non puo' essere messa nelle mani di un Governo che fissa degli standard arbitrari che garantiscono a Coca Cola e Pepsi la sicurezza per fare profitti enormi, ma che non garantiscono la sicurezza per la salute dei cittadini.

Il Ministero della Salute ha annunciato che entro gennaio 2007 avra' degli standard di sicurezza idonei per Coca Cola e Pepsi. Tuttavia Coca Cola e Pepsi non diventeranno sicure dopo il gennaio 2007. Ci sono due motivi per cui dipendere solo dalla fissazione di uno standard non e' affidabile per garantire che i cittadini ricevano prodotti sicuri e salutari. In primo luogo, le decisioni centralizzate del Governo possono essere facilmente influenzate dagli interessi aziendali, come abbiamo visto nella risposta del Governo al dibattito in Parlamento. C'e' una scienza aziendale e c'e' una scienza pubblica. In un'epoca in cui sono le aziende a dettar legge, governerà la legge societaria. In secondo luogo, per loro natura gli standard sono riduttivi. Verranno fissati gli standard per i residui di pesticidi basandosi solo sui livelli permessi per ingredienti quali acqua e zucchero, senza badare agli effetti dannosi del prodotto sulla salute della gente e sull'ambiente. Abbiamo bisogno di una sicurezza alimentare olistica, non di standard per una pseudo - sicurezza riduttivi e manipolati che proteggono le corporazioni e non la gente. Le osservazioni dello stesso Ministro della Salute chiariscono che "standard di sicurezza riduttivi non rendono sicure Coca Cola e Pepsi". Mentre dichiarava che i residui di pesticidi erano "entro i limiti di sicurezza" nelle bottiglie testate a Myson e Gujarat, affermava anche che le cola sono porcherie e non erano sicure per la salute. La sicurezza e' piu' di uno standard per residui di pesticidi. E, come abbiamo visto, differenti laboratori danno risultati differenti.

Vietare o meno Coca Cola e Pepsi non puo' e non dovrebbe dipendere solamente da se un particolare laboratorio non trova particolari livelli di residui di particolari pesticidi oltre i limiti permessi nelle bevande analcoliche. I problemi dovuti alla creazione da parte di Coca Cola e Pepsi di una crisi idrica e di una crisi sanitaria sono separatamente ragioni sufficienti per vietarle. Prese insieme, rendono il divieto imperativo. Sono crimini contro la natura e le persone. I crimini vengono determinati dal loro impatto, non dallo "standard" degli strumenti usati per commettere un crimine. Coca Cola e Pepsi sono impegnate a devastare le risorse idriche della terra e stanno lentamente avvelenando i nostri figli. E non c'e' uno standard sicuro per la devastazione. Nessuno "standard sicuro" per un lento omicidio. E' per questo che dobbiamo bandirle dalle nostre vite con azioni da liberi e sovrani cittadini di un'India libera e sovrana.

Un discorso di un Ministro influenzato dai giganti della Cola non li scagiona, come hanno affermato. Devono essere i liberi cittadini indiani a scagionarli. E le popolazioni indiane non hanno scagionato la Coca Cola e la Pepsi. Dobbiamo costruire sull'esempio fornito da Plachimada e dal Kerala per liberare l'India da Coca Cola e Pepsi per proteggere le nostre falde e la salute delle generazioni future.

Dobbiamo resistere ad ogni tentativo di togliere a cittadini e stati i diritti costituzionali di prendere decisioni circa la sicurezza del nostro cibo, come propone il Food Safety Act 2006.

lunedì, novembre 27, 2006

It's a bad trip.



La notizia sta correndo in queste ore rimbalzando fra i nodi della Rete: il Professor Bad Trip ha lasciato questa vita e questa dimensione della realtà.
Penso che tutti - ed in particolare coloro vicino ai movimenti underground in italya negli ultimi 15 anni - avranno impresse nelle proprie retini alcune delle immagini lisergiche ed energeticamente eccedenti che il Prof. Bad Trip ha prodotto copiosamente, mostrandoci con folle anticipazione e tensione visionaria i segni della catastrofe ecologica e sociale in corso.

Per chi rimane su questa terra it's a bad trip.

Quella che segue è la nota sulla morte del Prof Bad Trip pubblicata sul sito di Decoder, rivista cyberpunk che più e più volte si è avvalsa dell'arte di Bad Trip.

"Sabato 25 novembre è morto all'età di 43 anni Gianluca Lerici - aka Professor Bad Trip - uno dei grandi, forse il più grande, artista visuale underground italiano degli ultimi 15 anni.
I funerali di Bad Trip si terranno lunedì 27 novembre alle ore 15 presso il cimitero di La Spezia. Grazie a chi ci sarà.


Il Prof. Bad Trip, di La Spezia, studioso e artista a tutto campo, conoscitore della cultura underground internazionale, si è fatto conoscere nei primi anni Ottanta come autore e illustratore di fanzine & volantini punk, come produttore di mail-art e di t-shirt artistiche ad alto livello, per poi sviluppare negli anni Novanta una serie straordinaria di collage e parallelamente uno stile fumettistico inconfondibile.

E' stato l'unico artista italiano della generazione nata negli anni Sessanta a interpretare visualmente in maniera matura le distopie di JG Ballard - autore che ha sempre amato - e del cyberpunk.

Da circa un decennio si dedicava - tra le altre
cose - alla pittura su tela e ha esposto in decine di mostre con i suoi colori psichedelici e sui temi a lui cari, come le mutazioni e i mutanti, i "mostri" alla Philip Dick, creature spaziali, vulcani che esplodono, fabbriche inquinanti e altri disastri naturali e metropolitani.

Esperto serigrafo ha prodotto artigianalmente migliaia di t-shirt, oltre a decine di serigrafie su materiali vari. Stava ultimamente lavorando per realizzazioni di oggetti "da portare" di alto livello artistico distribuiti in tutto il mondo. Anarchico, è sempre stato vicino ai movimenti underground.

Colto collezionista di libri, riviste e dischi underground e politici.


Per Decoder rivista cartacea ha prodotto numerose copertine, illustrazioni e fumetti. Per ShaKe ha disegnato "Il pasto nudo" a fumetti di WS Burroughs e l'inserto a fumetti di Costretti a sanguinare di Marco Philopat.

Senza di lui sarà più dura.
Ma c'è da dire che ha sempre dato l'impressione di vivere da uomo libero."

giovedì, novembre 23, 2006

Beppe Sebaste: lo Stato si occupi della memoria delle sue stragi.


Su l'Unità del 20 novembre è apparso il seguente appello dello scrittore Beppe Sebaste (qui trovate la sua bibliografia), è un appello dall'alto valore e per questo motivo vari siti lo stanno facendo circolare... io concordo col valore e mi accodo...

L’Unità, unico giornale, riportava il 19 novembre scorso alcune delle testimonianze che si sono potute udire nel pubblico processo sul massacro nazista di Marzabotto, oltre sessant’anni fa. Non è solo il principio dell’imprescrittibilità del crimine, le cui carte giacevano occultate in un armadio polveroso della procura militare, a rendere importante questo processo in corso che pure riguarda i fondamenti costituzionali dell’Italia repubblicana, e coinvolge ogni cittadino come “parte civile”. La sfilata di oltre duecento testimoni, che travalica le stesse necessità processuali, riporta alla mente l’evento inaugurale dell’Era dei testimoni (come titolava il suo bel libro la storica Annette Wievorka): il processo Eichmann a Gerusalemme.

Lì i testimoni dei lager e i loro racconti furono l’insostituibile occasione di dare pubblica voce alle vittime di un genocidio. Ma fu anche l’inizio dell’irruzione della memoria viva e calda nella storia contemporanea: alla fredda compostezza del diritto e all’oggettività distaccata della storia si affiancò, a costo di turbarle, la parte della memoria, col suo bagaglio di soggettività e di empatia. Con la Shoah nasce la storia del presente, che porta a maturazione e coscienza l’importanza civile e politica degli archivi, orali e scritti.

Un libro recente, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica (ombre corte), scritto da un storico italiano che da tempo vive e insegna a Parigi, Enzo Traverso, fa il punto sulla questione analizzando con sobria lucidità gli usi politici della memoria. In quei Paesi in cui l’elaborazione del lutto e dei crimini commessi non è stata compiuta a dovere, il ritorno del rimosso può essere assai virulento e imbarazzante, e la memoria non riesce a costituirsi in Storia. Se è vero, come ha scritto Sergio Luzzatto, che ogni democrazia si fonda su una “gerarchia retrospettiva della memoria”, ha ragione Traverso ad osservare con preoccupazione che in Italia “la crisi dei partiti e delle istituzioni che incarnavano la memoria antifascista ha creato le condizioni per l’emergere di un’altra memoria, fino a quel momento silenziosa e stigmatizzata. Il fascismo è ora rivendicato come un pezzo di storia nazionale, l’antifascismo respinto come una posizione ideologica ‘antinazionale’”. Commemorazioni congiunte di tutte le vittime dell’ultima guerra, senza soffermarsi sui valori e le motivazioni dei loro atti, o l’ormai famosa formula usata da Luciano Violante nel 1996 (i “ragazzi di Salò”), sembrano rimettere in discussione le scelte fatte al momento della nascita della Repubblica.

Anche la nozione di archivio, che riguarda la conservazione della memoria contemporanea, è dunque una questione politica, anzi istituzionale. E che esista un problema cruciale di archivi lo dice l’allarme lanciato dal Corriere della Sera sul destino delle carte processuali relative alla strage di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre del 1969, “conservate” a Catanzaro. pzzafont2006.jpg
Un pezzo della storia più cupa d’Italia - la “perdita dell’innocenza”, come è stato detto da alcuni a sinistra - comunque sia una strage fascista tuttora senza colpevoli. «Piazza Fontana è il nostro 11 settembre. Eppure non tutti se lo ricordano. Se venisse fatto un sondaggio chiedendo che cosa è successo a Milano il 12 dicembre del 1969, non so quanti risponderebbero correttamente. Invece quella data dovrebbe far parte della nostra memoria collettiva». A parlare così è Marco Alessandrini, avvocato e figlio del magistrato che svelò per primo la pista nera.

Tempo fa una giovane giornalista, Maria Itri, descrisse l’imponente mole di fascicoli che giaceva nel caos dei sotterranei del tribunale, confusi tra di loro in scatoloni di supermercato, sottomessi al deperimento e all’illeggibilità. Senza parlare della completa mancanza di indicizzazione: “cercare un singolo documento in questa babele risulta praticamente impossibile, è come averlo perso per sempre”. Mario Porqueddu e Marco Nese sul Corriere della sera (7, 8, 12 novembre) hanno lanciato l’allarme: “Le carte giacciono da molti anni. Il tempo le consuma. Dicono che in tutto sono 500 mila fogli. Gli atti del processo per la strage di Piazza Fontana, le istruttorie, centinaia di fotografie, bobine, i reperti, perfino un giallo Mondadori che diedero a Pietro Valpreda quando chiese qualcosa da leggere in cella. veline che hanno più di 30 anni, manoscritti che rischiano di diventare illeggibili. Originali di cui non esiste una copia. Relazioni dei servizi segreti. Vecchi faldoni su “Ordine Nuovo”. Tutto questo pezzo di storia d'Italia rischia di andare perduto”.

La notizia del rischio di dissolvimento dei documenti di Piazza Fontana ha mobilitato passioni civili in tutta Italia, e qualcuno ha evocato l’immagine, fresca dell’anniversario dei volontari in soccorso all’alluvione di Firenze quarant’anni fa, di “angeli della carta”: recuperare materiali, documenti, storia e storie, scritture, sottrarli alla cancellazione, ciò che non va lasciato ai singoli volonterosi, ma assicurato dallo Stato. Possibile che solo i parenti delle vittime debbano farsi carico della conservazione e cura di questi documenti, che sono la storia del nostro Paese? Milioni di pagine, documenti di stragi che si intrecciano tra loro, inchieste che si incrociano, gruppi eversivi che si sovrappongono in uno “spettro” di stragi spesso irrisolte con responsabilità ancora in ombra. Sempre sul Corriere il ministro della Giustizia Mastella ha assicurato la copertura finanziaria per digitalizzare le carte, informatizzare i documenti, rendere disponibile l'intero materiale su computer. Insomma, “salvarlo in memoria”, secondo la formula tecnologica. Ma è sufficiente? O non sarà che, come nella poesia di Hans Magnus Enzensberger, “salvare in memoria vuol dire dimenticare”?

Al problema della conservazione materiale e alla lacuna di una seria costituzione di archivi si aggiunge forse un problema di rimozione, un delegare la memoria che rischia di perderla se non si costituisce in Storia, ovvero in Archivio. La memoria, si sa, si declina sempre al presente,, è il passato che resta presente, come nel lutto. Ma la temporalità propria degli archivi, ha insegnato il filosofo Jacques Derrida, è il “futuro anteriore”, il futuro nel passato: perché gli archivi riguardano il nostro avvenire di cittadini, gli archivi costruiscono le opere future. Anche il nesso tra archivio e democrazia è al centro da anni della riflessione di filosofi e storici, a partire dalle ricerche di Michel Foucault, per il quale l’archivio è nel crocevia tra ciò che si dice e ciò che non si dice: si tratta di ampliare la visibilità e la dicibilità degli eventi, contro l’invisibilità e gli interdetti del potere, ridurne la zona d’ombra. Il potere di certificazione degli archivi deve essere al servizio dei cittadini, della sfera pubblica e sociale. Insomma, l’archivio – l’apertura e la conservazione pubblica degli archivi – è tutt’uno con la democrazia, ciò che permette di continuare a scrivere la Storia e di trasmettere la memoria.

«Partiamo dal fatto che le carte del processo di piazza Fontana sono una montagna – ha detto il ministro Mastella - il problema di salvare i documenti e la memoria storica non riguarda un solo processo. Gli attentati che in questo Paese hanno provocato delle stragi negli ultimi 30 o 40 anni sono purtroppo numerosi. Non c'è solo piazza Fontana, ma anche la strage sul treno Italicus, quella della stazione di Bologna, il Dc9 di Ustica e via di seguito. Vorrei realizzare una banca dati generale che comprenda tutti i processi per strage». Un archivio informatico consultabile anche via Internet. «Così verrebbe reso un servizio a tutti. Le carte devono rimanere per un certo numero di anni nelle sedi di competenza, ma poi si possono rimuovere e portarle in altra sede”.

Facciamo nostre le parole del Ministro. L’unico esempio virtuoso di materiale ordinato e conservato, non solo digitalizzato ma indicizzato, è a Brescia per la strage di Piazza della Loggia, dove è stata costituita una “casa della memoria”. Ad esso si affianca il “museo della memoria” delle vittime di Ustica, la cui edificazione è in corso d’opera a Bologna, in un sito creato appositamente e a cui darà un contributo nell’allestimento il grande artista della commemorazione Christian Boltanski. Sarà un grande evento artistico e informativo, perché già l’impatto sul visitatore del relitto del Dc9 di Ustica, ricostruito come un puzzle che riproduce simbolicamente il lungo mosaico processuale per arrivare alla drammatica verità di quell’atto di guerra in tempo di pace, è molto forte. Ma le carte processuali relative a Ustica, la documentazione vera e propria attualmente a Rebibbia, sarà collocata nella sede regionale dell’Istituto Ferruccio Parri, dove già si trovano le carte attinenti alle indagini, alle perizie, agli atti istruttori e ai processi in possesso dell’Associazione dei parenti delle vittime di Ustica creata da Daria Bonfietti.

Ecco la proposta che lanciamo da queste pagine: il modello messo in atto per il Museo, cioè la conservazione dei documenti presso un istituto di storia, un’istituzione vera, diventi un modello per il caso di Piazza Fontana, ma anche per tutti gli altri casi che inevitabilmente si presenteranno, ed evitare che la dispersione degli atti giudiziari sulla vicenda di piazza Fontana annunci la dispersione probabile di altri atti di altre stragi di questi anni.


Il referente nazionale dell’Istituto Parri è l’INSMLI – Parri, ovvero Istituto Nazionale di Storia del Movimento di Liberazione in Italia, che riteniamo essere il referente giusto attorno al quale fare ruotare anche l’operazione per la raccolta del materiale di Piazza Fontana - la sede nazionale dell’istituto è a Milano, c’è anche quindi una pertinenza geografica. Ma c’è anche il prestigio del Presidente dell’Istituto, Oscar Luigi Scalfaro. Attorno questo istituto di comprovata affidabilità può nascere un progetto serio che deve trovare le gambe nel contributo di molti – a partire dal Ministero della Giustizia, alle Regioni a Enti che possono mettere in campo risorse anche tecniche, Cnr, Cineca.

Resta un problema di grande spessore: quello della memoria e della storia, quello da cui abbiamo preso le mosse. Le associazioni e i comitati di cittadini in Italia hanno fatto molto per contribuire alla ricerca della verità, tenere desta la memoria, scuotere le coscienze. Una grande supplenza civile. Ma la storia deve essere riconsegnata alle sue istituzioni. Per questo si deve aprire un serio dibattito a partire dalla mobilitazione di questi giorni. Dobbiamo continuare a inventarci sottoscrizioni, manifestazioni, comitati per conservare documenti? Per farne cosa, poi? Il punto cruciale è trovare formule istituzionali corrette a cui affidare la memoria, la riflessione, lo studio. Le nostre carte. Senza le quali siamo tutti – noi cittadini italiani, dei sans papier – che in francese vuol dire clandestini, senza documenti. Senza cittadinanza.

mercoledì, novembre 22, 2006

Networking. La rete come arte.


"Il primo tentativo di ricostruzione della storia del networking artistico in Italia. Un'analisi sull'uso creativo e condiviso delle tecnologie, dal video al computer e sulla formazione di una comunità hacker italiana. Un riflessione sul ruolo dell'artista che si fa networker, ricollegandosi alle neoavanguardie degli anni Sessanta."

Queste sono le prime frasi utilizzate per presentare il libro Networking. La rete come arte scritto da Tatiana Bazzichelli. L'autrice studia da parecchi anni le interazioni fra l'arte e l'uso della Rete - tanto che ha fondato prima il progetto ATTIVIsmo ARTistico e poi il progetto AHA: activism, hacking, artivism - e si è laureata in Sociologia delle comunicazioni di massa a Roma nel 1999. Ha curato poi rassegne, eventi e convegni, fra cui Hack.it.art (Berlino, 2005), Arte in rete in Italia (Berlino, 2005), MediaDemocracy and Telestreet (Monaco, 2004), AHA (Roma, 2002), Hacker Art Lab (Perugia, 2000). Pare un testo molto interessante, magari ci torneremo dopo una letta più approfondita. Il libro, di cui riporto di seguito la presentazione completa, è sotto licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike License, quindi si può liberamente scaricare dal sito dedicato (qui).

IL LIBRO

Fare network significa creare reti di relazione, per la condivisione di esperienze e idee in vista di una comunicazione e di una sperimentazione artistica in cui emittente e destinatario, artista e pubblico, agiscono sullo stesso piano.

In Italia, grazie all'uso alternativo della rete Internet, nel corso di venti anni di sperimentazione si è formato un vasto network nazionale di persone che condividono obiettivi politici, culturali e artistici. Attivi in ambienti underground, questi progetti utilizzano media diversi (computer, video, televisione, radio, riviste) e si occupano di sperimentazione tecnologica, ovvero di hacktivism, secondo la terminologia in uso in Italia dove la componente politica è centrale.

Il network italiano propone infatti una forma di informazione critica, diffusa attraverso progetti indipendenti e collettivi in cui l'idea della libertà di espressione è centrale. Allo stesso tempo, costruisce una riflessione sul nuovo ruolo dell'artista e autore che si fa networker, operatore di reti collettive, ricollegandosi alle pratiche artistiche delle Neoavanguardie degli anni Sessanta (prima fra tutte Fluxus), ma anche alla Mail Art, al Neoismo e a Luther Blissett.

Un percorso che va dalle BBS, reti telematiche alternative diffuse in Italia dalla metà degli anni Ottanta ancor prima di Internet, fino agli Hackmeeting, alle Telestreet e alle pratiche di networking e net art di diversi artisti e attivisti, fra cui 0100101110101101.ORG, [epidemiC], Jaromil, Giacomo Verde, Giovanotti Mondani Meccanici, Correnti Magnetiche, Candida TV, Tommaso Tozzi, Federico Bucalossi, Massimo Contrasto, Mariano Equizzi, Pigreca, Molleindustria, Guerriglia Marketing, Sexyshock, Phag Off e molti altri.

martedì, novembre 21, 2006

MondoRisiko: un torneo - e non solo - contro la guerra

Come si può vedere anche dal banner che troneggia qui sopra, vi segnalo e promuovo Mondo Risiko, un vero e proprio torneo di Risiko con dadi e carrarmatini, ma anche una scusa per parlare di guerra attraverso conferenze, reading, presentazioni di libri, film...


L'immagine che accompagna questo post è invece un olio su tela dal titolo Risiko di Giorgio Galotti, potete vedere i suoi lavori qui.



Il programma completo e il regolamento di Mondo Risiko si possono trovare su
http://mondorisiko.noblogs.org

Se volete iscrivervi al torneo scrivete a mondorisiko@inventati.org


Ed intanto leggetevi qui sotto la "favola del Mondo Risiko":

La prima volta è stata il 17 gennaio 1991. La notizia dei bombardamenti sull'Iraq è arrivata durante la notte. Il mondo era appena cambiato ma noi eravamo i soliti quattro. Il giorno dopo saremmo scesi in piazza, ma quella notte c'era da esorcizzare lo spettro della guerra, sotto con i dadi e con i carrarmatini. Non sapevamo che sarebbero seguite molte altre notti, bombe vere mentre noi attaccavamo da due dalla Kamchatka. Scrivevamo volantini e perdevamo il Siam. Cazzo, non si può perdere un territorio così strategico. Addio controllo dell'Oceania. Anche la Cecenia è strategica per controllare il petrolio. Chiedetelo ad Anna Politkovskaja. La gente crepava a migliaia in Africa orientale, e noi difendevamo da tre contro un attacco dal Madagascar.

Obiettivo: sconfiggere le armate rosse. Fatto. Le armate verdi sono i marines che sbarcano a Baghdad o la Guardia nazionale padana che fa la ronda in un quartiere di migranti? La confusione aumentava e nell'Europa meridionale tornavano la guerra, le deportazioni, l'odio etnico. Armate nere in Bosnia(Jugoslavia), non se ne vedevano in giro dal 1945. Esplodono autobombe in Indonesia? D'Alema bombarda Belgrado? E io ci provo da uno dalla Cita, non mi
interessa se è un suicidio. A un certo punto qualcuno ha attaccato gli Stati uniti orientali da tre, una mossa a sorpresa. Ha fatto sei-sei-sei e la confusione è aumentata ancora. La risposta è stata conquistare l'Afghanistan, e non era difficile. I Talebani difendevano con un dado solo, e uno contro cento anche con molto culo non funziona. Figuriamoci poi se gli esce un bell'uno. È che dopo ti accorgi che a ogni turno bisogna rinforzare i territori, e i carrarmatini non bastano mai, non bastano mai. Un'assemblea, un corteo, una partita. Qui sulla Cisa dei pazzi bloccano treni pieni di carrarmatini in viaggio per il Golfo. In Chiapas si gioca in passamontagna, a Gaza con la kefiah e a Washington in doppiopetto. Chi controlla l'America meridionale porta a casa due armate supplementari a ogni turno, ma non è mica come dirlo. I governi cambiano e i colpi di stato continuano. Però a Cuba c'è Fidel castro e c'è anche Guantanamo, e sembra che levarseli dalle balle non sarà facile.

Intanto in Medio oriente tutti vogliono farsi l'atomica, anzi qualcuno ce l'ha già. L'atomica? Ma non si giocava coi dadi? Truccati magari, ma pur sempre dadi. Oddio, non ci si capisce più niente. La nostra arma chimica è il gutturnio, che va giù a litri mentre giochiamo. Che poi tutti quei carrarmati blu elettrico nel deserto sono troppo psichedelici, la gente non capisce mica che sono finti e li fa saltare per aria. Le armate verdi dicono che le armate gialle ci invaderanno tutti, a cominciare dalla Brianza e da Treviso. Per ora non si sono mosse dalla Cina. Sono gialle anche le bandierine di Hezbollah che sventolano a Beirut sud. Valgono dieci armate e non è mica facile farle fuori.

Comunque lo scontro più memorabile rimane la grande sfida del 15 febbraio 2003.
Il debutto delle armate arcobaleno. Centodieci milioni di dadi contro un solo, gigantesco, presidente con la testa a forma di dadone rosso. Lo scroscio dei dadi sul tabellone si è sentito in tutto il mondo. Ma abbiamo perso anche quella partita. Nella storia del risiko non si era mai vista una simile sfilza di uno. Eppure ancora oggi qualcuno di noi, ogni tanto, sogna un terzo continente a tua scelta dove non ci siano né guerre, né dadi, né carrarmatini. Mi sa che dobbiamo smettere di sognare. E basta anche con questo vizio di attaccare da uno dalla Cita.

venerdì, novembre 17, 2006

Nanoparticelle e patologie connesse # Parte prima

Le nanoparticelle sono appunto particelle dalle dimensioni piccolissime, da qualche centesimo di millimetro fino a qualche milionesimo di millimetro. La definizione che ne viene data su Wikypedia dice: "Con il termine nanoparticella si identificano normalmente delle particelle formate da aggregati atomici o molecolari con un diametro diametro compreso fra 2 e 100 nanométri (nm)" [un nanométro = un milionesimo di millimitro].

Per dare una percezione delle dimensioni in ballo basti dire che la doppia elica che compone il DNA ha un diametro di 2 nm.
Ma perché sono importanti le nanoparticelle? Su che terreno ci portano? Innanzittutto va detto che l'utilizzo delle nanoparticelle sta alla base delle nanotecnologie, ossia il settore di ricerca che si propone di realizzare attraverso la manipolazione meccanica di queste nanoparticelle aggregati molecolari o atomici con particolari proprietà chimico-fisiche, fra l'altro prospettandone un futuro profittevole per i possibili utilizzi su scala industriale. Ma più importante per il discorso che qui si propone è un'altra faccia delle nanoparticelle, ossia quella corrispondente a quanto evoca l'utilizzo del termine per indicare particolato ultrafine: una delle cause primarie dell'inquinamento atmosferico. Infatti, il particolato è l'insieme delle sostanze sospese in aria (fibre, particelle carboniose, metalli, silice, inquinanti liquidi o solidi) la cui presenza dipende sì da fattori naturali, ma per la stragrande quantità derivano oggi dall'attività umana.

Nei centri urbani siamo oramai abituati a sentir parlare di allarme polveri sottili, in particolare si sente parlare di PM10, anche se probabilmente ai più non è ben chiaro di che si tratta.
Le PM10 sono particolato formato da particelle inferiori a 10 μm (un millesimo di millimetro), ed hanno la caratteristica - viste le sue dimensioni - di essere una polvere inalabile, ovvero in grado di penetrare nel tratto respiratorio superiore (naso e laringe). Le PM10 sono dunque pericolose per la salute dell'uomo perché possono penetrare nel nostro organismo, causando di conseguenza patologie dell'apparato respiratorio.

Ma
cosa succede quando ad essere inalate non sono le PM10 - che in relazione alle dimensioni del particolato sospeso sono tutto sommato particelle "grandi" - ma polveri ancora più sottili?

Come abbiamo visto le nanoparticelle da cui siamo partiti hanno dimensioni molto ridotte rispetto alle PM10, così che corrispondentemente queste particelle anziché fermarsi nel nostro naso arrivano direttamente nei nostri polmoni, fino ai casi più estremi in cui queste particelle possono arrivare negli alveoli, la parte più profonda dei polmoni: di conseguenza, come si può immaginare, questo comporta la presenza di diverse - e più gravi - patologie per l'uomo, ossia le nanopatologie.
La ricerca scientifica sugli effetti delle nanoparticelle e sulle patologie correlate in Italia è legata in particolare alla nanodiagnostics di Modena, un laboratorio di ricerca in cui si è impegnati dall'inizio degli anni '90 su queste tematiche, che ha pubblicato un interessantissimo e consigliato articolo sulla rivista Ambiente Risorse Salute - che potete trovare qui - dal titolo Nanopatogie: cause ambientali e possibilità d'indagine.
In questo articolo si definiscono le nanopatologie come "le malattie provocate da micro- e, soprattutto, nanoparticelle inorganiche che riescono a penetrare nell’organismo, umano o animale
che sia, sortendo effetti i cui meccanismi in gran parte ancora da indagare e indipendenti dall’origine delle particelle", ovviamente "restando in sospensione, è inevitabile che le polveri siano inalate insieme con l’aria e, cadendo al suolo, è altrettanto inevitabile che queste finiscano su frutta, verdura e foraggio, entrando così nella catena alimentare di uomini e animali".
Siamo dunque tutti esposti e tutti a rischio.

Ma come interagiscono queste polveri con il nostro organismo, quali patologie provocano?

"È di recente che, nello stesso ambito medico, si comincia a rendersi conto che le polveri possono essere responsabili di ben altro e che l’incremento vertiginoso della loro concentrazione in atmosfera va di pari passo con l’incremento di affezioni, per esempio, di natura cardiovascolare, e che cominciano anche ad essere fortemente sospette malattie tumorali, malattie neurologiche, malattie della sfera sessuale e malformazioni fetali.
Anche il vistoso aumento delle patologie allergiche, specie a livello pediatrico, o di sensibilizzazione potrebbe essere correlato a fenomeni d’inquinamento ambientale o a prodotti d’uso comune quale, ad esempio, il cemento cui vengono sempre più spesso addizionate le
ceneri che residuano da processi di combustione di rifiuti".


Nel maggio del 2006 comunque anche i medici di famiglia, attraverso il bollettino della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (consultabile qui, dal blog di Beppe Grillo), ammettono la loro preoccupazione rispetto agli effetti delle nanoparticelle e scrivono: "Le forme patologiche più comuni sono le neoplasie, ma ci sono anche malformazioni fetali, malattie infiammatorie allergiche e perfino neurologiche".

E' dunque oramai fuor di dubbio la nocività di queste polveri fini per la salute, ora si tratta di comunicarne e denunciarne i pericoli e quindi agire per diminuire la loro presenza nell'aria.

Ma come è possibile intervenire e ridurre le concentrazioni? Bisogna innanzitutto individuare quali attività umane contribuiscono maggiormente alla produzione di nanoparticelle, preoccupandoci in particolare della produzione delle polveri più fini e sollecitando l'attenzione degli enti locali per queste, più che per le famose PM10. Infatti sono proprio queste "le polveri realmente patogene, con una patogenicità che cresce in modo quasi esponenziale con il diminuire del diametro. E per avere un’idea degli effetti sulla salute di queste poveri occorre che le particelle siano non pesate ma classificate per dimensione e contate".

L'articolo citato precedentemente ci aiuta a individuare le attività più pericolose, una lista non certo incoraggiante ma che è importante fare circolare: "oggi, la maggior parte dell’inquinamento
ambientale ed alimentare da polveri si deve ai motori a scoppio, alle fonderie, ai cementifici,
agli inceneritori, spesso chiamati abusivamente termovalorizzatori, alle esplosioni in genere, e giù fino ad operazioni apparentemente più innocue come quelle di saldatura".